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Su Navjot Altaf – o su quello che una mostra (da sola) non può fare

“Lost Text” (2018); stampe fotografiche su carta fissate su dibond; 63.5×50.8; particolare dell’installazione. Foto: PAV.

di Alessandra Ferlito

 

“Diversi frammenti dei diari che ho scritto nel corso degli anni, durante i periodi trascorsi nel Bastar, sono stati trascritti digitalmente. Poi sono stati corrotti, convertendo il testo in un mix arbitrario di numeri, alfabeti, simboli, segni di interpunzione e segni diacritici (accenti acuti), insieme ad alfabeti di molte lingue moderne – dall’alfabeto latino, al cirillico a quello greco. Il risultato è profondamente criptico. […] Ancora abbastanza interessanti, i disorganizzati frammenti di trame verbali – ulteriormente spezzettati dalla memoria selettiva del computer, […] conducono narrazioni o spingono a scavare i significati nascosti e crearne di nuovi, in prima istanza imprevisti.”
(Navjot Altaf 2019)

 

 

 

Nel testo che segue troverete delle pagine di approfondimento che potrete aprire cliccandoci sopra;
sono indicate in rosso e grassetto:
vicenda biografica e artistica di Navjot Altaf;
alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo;
il cortocircuito che mi ha provocato la visione della mostra
.


Il Parco Arte Vivente di Torino presenta una mostra intitolata Samakaalik: Earth Democracy and Women’s Liberation – la prima personale in Italia dell’artista e attivista indiana Navjot Altaf. Vado a vederla convinta che mi darà da pensare. Conclusa la visita comincio a prendere qualche nota. Nel frattempo mi trattengo a Torino; le rivolgo occhi e orecchie, la respiro, la tasto timidamente.

La mostra fa parte di un ciclo dedicato ai paesi asiatici, ideato da Marco Scotini – curatore di fama internazionale, teorico e docente che da anni presta attenzione alle molteplici prospettive che, a livello planetario, mettono in discussione l’ordine coloniale e il pensiero egemonico di stampo patriarcale, bianco e occidentale. Dopo avere presentato mostre per me decisamente interessanti, come The White Hunter/Il cacciatore bianco e Il soggetto imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia, qui Scotini offre spazio all’intersezionalità. Nel percorso di Altaf, infatti, postcoloniale e femminismo procedono simultaneamente alla lotta di classe e a quella ecologista. Proprio a questa simultaneità di intenti si riferisce il termine hindi Samakaalik. Il resto del titolo parla forte e chiaro: abbiamo a che fare con l’incontro tra questione ecologica/ambientale e femminismo, cioè con l’ecofemminismo. Andando oltre la sintesi estrema di questa etichetta, la mostra mi parla delle possibilità concrete di un cambiamento. Mi fa vedere che delle alternative alle logiche dello sviluppo capitalista possono esistere: in più parti del mondo ci sono “comunità resistenti” che le praticano. Allo stesso tempo, essa dimostra che in questi processi di mutamento, la tecnica e la tecnologia possono avere un ruolo creativo e non-distruttivo, e che l’atto creativo/artistico può avere un ruolo fondamentale e diventare un atto (deleuziano) di resistenza alla morte.

Nel corso di un’intervista rilasciata in occasione dell’evento torinese, Altaf racconta le ragioni del suo impegno politico e sociale attraverso l’arte, affermando, da una parte, che quest’ultima può essere strumentalizzata dalla politica e, dall’altra, che essa è sempre politica. Inoltre, secondo lei, più le attività artistiche risultano inclusive e più le persone possono iniziare a porsi domande e a partecipare attivamente. Partendo da questi assunti, osserverò i metodi della ricerca-attivista che Altaf ha sperimentato negli anni, per interrogare, in seconda battuta, il potenziale discorsivo delle mostre ‘politiche’ nell’attuale contesto culturale-sociale-politico italiano. Se mi dedico a questo esercizio è perché credo che il lavoro di Altaf riesca – simultaneamente – a documentare (voci di minoranze altrimenti silenziate; contraddizioni altrimenti sotterrate), svelare (le menzogne dei discorsi patriarcali dominanti e la violenza del progresso tecnico e tecnologico proposto dal capitalismo) e suggerire (nuove domande, forme di resistenza e auto-determinazione che non escludono il ricorso all’estetica, alla tecnica e tecnologia). In altre parole, perché penso che dalla sua esperienza si possano trarre alcuni spunti preziosi per qualsiasi pratica di lotta che voglia agire in termini anche estetici, per qualsiasi processo creativo che voglia porsi come gesto politico.

In alto: “Lost Text” (2018), stampe fotografiche su carta fissate su dibond; installazione che riproduce il lavoro nella sua forma originale. In basso: “Insect Logos” (1972); 26 stampe su carta, riproduzioni dei disegni originali.

Soffermarsi sulla vicenda biografica e artistica di Altaf è interessante per richiamare alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo: l’utilizzo strumentale dell’arte da parte della politica; lo scarso interesse e riconoscimento, da parte del mondo dell’arte (artisti compresi), nei confronti delle pratiche artistiche fondate sui processi politicamente e socialmente indirizzati; la necessità di rifiutare le posizioni identitarie affrancandosi dai purismi che impediscono la contaminazione; la spinta a sfidare le strategie perverse della cattura capitalista.

La pratica artistica e di attivismo di Altaf ha sempre stimolato una ri-negoziazione costante e costantemente condivisa. Per lei è indispensabile smarcarsi dal ruolo identitario delle etichette, sconfinare tra ambiti e discipline, disfare i linguaggi e le gerarchie. Le questioni appena accennate mi tornano, invece, familiari se penso al contesto italiano, dove il dibattito sulla “politicizzazione dell’estetico” e la “estetizzazione del politico”, da Benjamin in poi, non ha mai smesso di affannare teorici, artisti, storici, critici, curatori. Pure in Italia, la tendenza a non riconoscere il valore estetico-discorsivo di alcune pratiche di attivismo esiste e resiste tra gli ambienti dell’arte ufficiale, dove esse vengono lette per lo più come forme di assistenzialismo sociale o umanitario, o di mediattivismo. In ogni caso, nulla che abbia a che vedere con il fare arte. Allo stesso modo, spesso i movimenti hanno difficoltà a riconoscere la politicità intrinseca di alcune pratiche e ricerche artistiche, che finiscono per essere considerate, nel migliore dei casi, come forme di estetizzazione del politico, oppure peggio, di complicità al regime di rappresentazione; di certo, non come forme di resistenza. Questa fedeltà alle etichette e ai ruoli prescritti, la reciproca miopia e antipatia che essa quasi automaticamente produce, fanno sì che l’incontro tra arte e attivismo non sia poi così frequente; eppure, quando è esistito e quando ancora avviene, esso riesce a produrre esiti imprevisti e non-appropriabili.

Concordo nel pensare che non si tratta di chiedersi “in che modo gli artisti ci possono aiutare a costruire movimento o indicarci nuove strade per fare politica, mettendo a disposizione dei nostri occhi banali e spenti, di cittadini comuni, la loro lungimiranza eccezionale, la loro potenza visionaria, il loro intuito avanguardista” (Revel 2009, p. 56). Credo che dovremmo continuare a guardare l’arte contemporanea come a un’istituzione in cui emergono gli elementi di un governo biopolitico (Baravalle 2009, pp. 12-13). E condivido l’urgenza di mettere in crisi gli spazi e i meccanismi istituzionali della sussunzione, di ri-modularsi collettivamente e costantemente per eludere la cattura di senso e valore, la normalizzazine dei discorsi e delle forme. Per ricordarlo con le parole di Piero Gilardi, artista, attivista e fondatore del PAV, “una narrazione di senso politico è accettata sul mercato. Tuttavia, quando un messaggio politico viene accettato dal mercato significa che è stato neutralizzato attraverso il suo inquadramento nell’estetica. […] ed è proprio questa sovrastruttura estetica ciò che permette a dei messaggi politici di essere commercializzati.”
Proprio le vite artistiche e politiche di Altaf e Gilardi, però, mi suggeriscono più di ogni altra cosa che dovremmo problematizzare l’aut-aut come metodo e interrogarci sulle possibilità che l’incontro tra arte e attivismo ancora oggi potrebbe offrire.

Navjot Altaf, “Body City Flows” (2015), video realizzato per Geographies of Consumption / The City as Consumption Site: Bombay / Mumbai, progetto d’arte pubblica curato dal Mohile Parekh Center; 15′.

Gli argomenti che propongo risalgono in buona parte a quelli della critica alle istituzioni che dagli anni Sessanta in poi ha riempito, a livello globale, molte pagine, eventi, manifesti politici e culturali. Da quel momento il rapporto tra rappresentanza e rappresentazione è profondamente mutato e “non c’è più l’aspirazione a impadronirsi dello Stato (o dei suoi istituti come il Museo, il Partito, il luogo del Lavoro, etc.), piuttosto […] un’attitudine a difendersi e a uscire da esso […]. “Exit” […] non “Voice”: abbandono anziché scontro. Ricerca di nuovi spazi d’intervento, di immagini costituenti, di micro-azioni su scala locale, di forme di autogestione, di autoorganizzazione, di empowerment.” (Scotini 2009, p. 101). Oggi le condizioni generali sono ulteriormente cambiate e ancor più complicate; il coloniale non è mai morto e ciò di cui abbiamo bisogno sono visioni e pratiche che ci aiutino a resistere alla tossicità dell’antropocene e del capitalocene. Perciò, a maggior ragione, credo che una relazione costante – non-formale e non-gerarchica – tra arte e attivismo, oggi più che mai, vada auspicata e incoraggiata. Lo penso tutte le volte che visito una mostra che si fa vanto dei suoi contenuti sociali o politici ma che allo stesso tempo, per elaborarli, non ha fatto altro che espropriare e inquadrare le soggettività che di quei contenuti diventano forzatamente dei meri oggetti-contenitori (vedi le numerose ‘vittime’ prodotte da certe pratiche “artiviste” o dalle mostre pseudo-antirazziste della sinistra multiculturalista, ancora alla ricerca della “autenticità africana”, o sulla migrazione o sui soggetti socialmente “deboli”). Lo penso quando alcuni spazi dell’attivismo sembrano soffrire di scarsa visionarietà, quella per cui non si riescono a sperimentare forme, modi e linguaggi insoliti, non-previsti, non-catturabili (le esperienze transfemministe e queer fanno quasi sempre eccezione). Soprattutto, lo penso quando mi muovo in contesti più contaminati, dove l’artista e l’attivista non sono più figure sacre o etichette da sfoggiare, ma pratiche e modi indipendenti da ogni vincolo e orpello, che non si definiscono, non si identificano, si mettono in gioco e si lasciano spiazzare dall’imprevedibilità di ogni incontro. Per tornare al dunque, lo penso quando visito mostre come quella di Altaf – anche se fatta per lo più di riproduzioni al posto di opere originali: l’aura dell’unicità è evaporata e si è portata via il pregiudizio dei puri. Le tecnologie digitali e le tecniche hanno dato il loro contributo disintossicante. L’artista ha abbandonato il piedistallo. La dissacrazione è compiuta.


Quale potenziale discorsivo potrebbe, allora, avere una messa in scena della defezione, della disobbedienza, della protesta? (Marco Scotini)

In un saggio del 2009 in cui parla del suo progetto Disobediencean ongoing videoarchive, Scotini si interroga sul significato della disobbedienza (sociale) e sul senso del mettere in mostra il dissenso. Allo stesso tempo, l’autore individua alcune pratiche e immagini “costituenti”: quelle che rifiutano la rappresentazione verticale del potere in senso classico, a favore di concatenamenti trasversali, multipli, eterogenei, in grado di produrre immagini alternative alle produzioni semiotiche ufficiali e costitutive di una realtà sociale differente. Dalla scrittura di quel saggio sono trascorsi più di dieci anni, durante i quali il curatore ha continuato a disseminare il suo contributo critico prestando attenzione alle esperienze politicamente e socialmente costituenti presenti in Italia (incredibilmente attiva dagli anni Settanta in poi) e nel resto del mondo. Mentre oggi è del tutto irrilevante stabilire se la pratica di Altaf possa definirsi o meno “costituente” o se essa abbia il diritto di entrare nell’archivio delle pratiche disobbedienti, a partire dai contenuti della sua mostra, mi sembra più interessante tornare a chiedersi “se le forme di presentazione di una mostra politica possano sviluppare nuovi modelli di dialogo, ricezione, interazione, critica, azione comunicativa”. È importante capire – continua Scotini – fino a che punto possano forzare i limiti del sapere disciplinato; fino a che punto trasformarlo in un campo di scontro simbolico.

“How Perfect Perfection Can Be” (2015); stampe fotografiche su carta, dibond, documentazione delle mappe originali, disegni ad acquerello concepiti per essere esposti insieme ai video (riproduzioni degli originali).

Che significato può assumere e quale potenziale discorsivo può esprimenre il soggetto “resistente” di Altaf, tutt’altro che subalterno, in un paese in cui si fa ancora fatica a riconoscere il proprio passato coloniale; in cui un vero processo di defascistizzazione non si è mai compiuto e l’impronta economica, sociale e culturale è quella capitalista, classista, sessista, razzista, specista? Oppure non è solo una questione di forma, e dovremmo invece interpellare anche la capacità di ascolto, ricezione e analisi da parte del pubblico?
Ad argomentare delle risposte mi aiuta in parte Judith Butler, quando riprende Susan Sontag per parlare di “obbligazione etica”, ovvero della nostra capacità di rispondere a distanza in maniera etica alla sofferenza, e di cosa rende possibile questo incontro etico, quando esso ha luogo:

“[…] ciò che sta accadendo è così lontano da non investirmi di nessuna responsabilità? Oppure, al contrario, ciò che sta accedendo mi è tanto vicino da costringermi a occuparmene? Se non ho causato io, in prima persona, questa sofferenza, vuol dire che non ne sono in alcun modo responsabile? […]”
(Butler, L’alleanza dei corpi, p. 162).

Che tipo di risposta etica può provocare la mostra di Altaf nel suo pubblico? La sua forma di presentazione non è rivoluzionaria, anzi, riprende un modello globalmente consolidato e riconosciuto. Eppure, personalmente, la sua visione mi ha provocato un cortocircuito lento e progressivo, scattato nel momento in cui i suoi contenuti si sono sovrapposti all’attuale situazione politica italiana – quella di governo, da una parte, e quella dei movimenti, dall’altra.

Tornando a Butler: certamente “oggi sappiamo cosa significa sentirsi invasi e sopraffatti da immagini che fanno appello ai nostri sensi; ma lo siamo anche da un punto di vista etico?”. E poiché sappiamo che le immagini sono in grado di sopraffarci e paralizzarci, è possibile, invece, “sentirsi sopraffatti, ma non paralizzati? […] la sopraffazione che subiamo può, in qualche modo, disporci all’azione?” (Idem, pp. 161-64).
La risposta può essere si. A patto, però, che si comprenda che “ciò che accade lì accade anche qui” (Idem, p. 193). Pertanto, anche la domanda di Scotini può avere un esito positivo, ma solo stando alla stessa condizione. Ovvero, una mostra politica come quella di Altaf può sviluppare nuovi modelli di dialogo, ricezione, interazione, critica – può disporci all’azione – indipendentemente dalla sua forma di presentazione, a patto che chi la osserva, completandone il significato, sia capace di stare in ascolto, mettere in dubbio la cultura a cui sente di appartenere, i limiti e i condizionamenti ai quali è soggetta. Solo se chi la riceve è in grado di rallentare, concedersi del tempo, fare 2+2, comprendere che e qui non sono poi così distanti; che tra quello che sta succedendo e quello che sta succedendo qui ci sono dei nessi profondi – che, a saperli cogliere e analizzare, potrebbero rivelarsi sconcertanti. L’arte, la curatela, l’attivismo, fanno la loro parte. Una mostra – come qualunque essere vivente animato o inanimato, come qualsiasi movimento sociale o politico – ha ragione di esistere solo nella relazione col suo ambiente circostante – animato o inanimato. Ma da sola, cosa può fare?


Per tutte le opere in mostra: Courtesy l’artista
Per il progetto “Nalpar”: Courtesy l’artista e DIAA.
Ringraziamo il PAV per avere concesso l’utilizzo delle immagini.
Dove non indicato diversamente, le foto sono di Alessandra Ferlito.

Navjot Altaf – sul rapporto tra arte e attivismo

Soffermarsi sulla vicenda biografica e artistica di Altaf è interessante per richiamare alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo:

L’utilizzo strumentale dell’arte da parte della politica.
Nella militanza degli anni Settanta, il collettivo marxista di cui Altaf faceva parte (PROYOM) vedeva l’arte solo come un mezzo di propaganda, rifiutando di riconoscere gli artisti come artisti-attivisti e impedendogli di partecipare al processo decisionale. “C’era una profonda diffidenza nei confronti della dimensione non-illustrativa dell’arte. Noi (artisti) volevamo essere politicamente efficaci, ma non a costo di diluire la complessità della nostra sensibilità estetica.” Questo avrebbe contribuito a farle prendere progressivamente le distanze da qualsiasi criterio gerarchico.

Lo scarso interesse e riconoscimento, da parte del mondo dell’arte (artisti compresi), nei confronti delle pratiche artistiche fondate sui processi politicamente e socialmente indirizzati.
Ancora a proposito degli anni Settanta e dell’attività del PROYOM, Altaf racconta: “Realizzavamo manifesti da affiggere sui muri della città […]. Partecipavamo a manifestazioni politiche, ad esempio, per esprimere solidarietà ai lavoratori dei Textile Mills e al personale dei treni delle ferrovie di Mumbai nella protesta per migliorare salari e condizioni di lavoro. Tutto ciò non è stato considerato una forma d’arte dalla comunità degli artisti, e dai critici.” La stessa accusa di miopia si trova in un commento al più recente progetto site-specific intitolato Barakhamba e realizzato a Nuova Delhi nel 2008. Attraverso la relazione e il dialogo con gli abitanti di Barakhamba Road, l’artista riflette sulle criticità dello sviluppo urbano in atto e le sue inevitabili ripercussioni sulla salute delle persone e sull’ambiente. Anche in questo caso, osserva che “In India solo una piccola percentuale di critici contemporanei si era interessata alla storia e alla critica di una tale pratica, così come pochissimi artisti.”

La necessità di rifiutare le posizioni identitarie; di affrancarsi dai purismi che impediscono la contaminazione; di sfidare le strategie perverse della “cattura” capitalista.
Nel corso degli ultimi due decenni, Altaf ha sperimentato metodi di confronto, co-ricerca, co-creazione sempre diversi a seconda delle istanze e criticità dei contesti in cui ha agito. Allo stesso tempo, avendo compreso che nessuna forma di comunicazione o di discorso è del tutto priva di pregiudizi o di asimmetrie di potere, nel suo lavoro ha abilmente utilizzato dispositivi astrattisti per esprimere i limiti e le insidie della comunicazione. La domanda comune, in ogni caso, è stata: “possono gli individui appartenenti a classi ed etnie diverse comunicare, lavorare insieme, creare una solidarietà politica e produrre significati culturali condivisi?” . La risposta la troviamo nella sua pratica, che ha prediletto le formule inclusive fondate sul dialogo tra tutte le soggettività coinvolte, comprese le autorità. L’artista crede infatti che le istituzioni vadano sensibilizzate affinché la loro percezione di certe pratiche culturali possa cambiare. Nel corso dell’ultimo decennio, la sua presenza all’interno delle istituzioni dell’arte (dai musei alle biennali) non è rara e crea, tutte le volte, una “interruzione” delle rappresentazioni egemoniche.

 


[1] Le citazioni provengono da: Dipti Nagpaul D’souza, “Remains of the Day”, in The Indian Express, 20.03.2016; Prajna Desai, “Speaking Out”, in Frieze, 17.11.2016; Nancy Adajania, Dreaming of the Revolution: How politics shaped the art of Navjot Altaf”, in TheThirteenth Place: Positionality as Critique in the Art of Navjot Altaf, Bombay: The Guild Art Gallery, 2016. Le traduzioni dall’inglese sono mie.


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il mio personale cortocircuito

Giacché mi trovo a Torino, il mio personale cortocircuito parte da qui. Ho la sensazione che a regolare il quieto vivere quotidiano, nella città che ospita la mostra appena visitata, sia un ordine quanto meno a rischio, poiché non troppo condiviso. A suggerirmi questa precarietà è la presenza di alcune soggettività che prendono la parola su più fronti e si espongono su molteplici piani, socialmente e politicamente. Alcune contestano le politiche e i processi di gentrificazione e turistificazione che stanno investendo diverse aree della città attivando meccanismi di inclusione/esclusione di tipo razzista e classista (il 2019 è stato l’anno degli sgomberi a danno di occupazioni abitative, centri sociali e non solo; vedi il caso dello sgombero del “balonaccio” dal mercato storico di Porta Palazzo). Altre si attivano contro le misure e i dispositivi che lo Stato adotta per legittimare la retorica del decoro e della sicurezza; dunque, per accreditare la sua ambizione al controllo dei confini esistenti (interni e verso l’esterno) e alla creazione di ulteriori barriere e divisioni (vedi le lotte contro i CPR). Altre ancora solidarizzano con le diverse forme e pratiche di resistenza che stanno agitando molte parti del globo, producendo contro-informazione e contro-narrazioni decoloniali, anticapitaliste, femministe ed ecologiste (dal Cile alla Palestina o alla Siria del Nord). Se allargo lo spettro geografico della mia riflessione incontro, poi, le lotte eco-ambientaliste sparse in tutta Italia. Queste si fanno intersezionali e si oppongono alla costruzione delle grandi opere e infrastrutture del capitalismo, a causa delle quali gli equilibri sociali ed economici, oltre che ambientali, delle terre e delle città direttamente colpite sono fortemente compromessi: NO TAV in Val di Susa, No grandi navi e No Mose a Venezia, NO TAP in Puglia, i molti gruppi attivi in Campania, NO Ponte e NO MUOS in Sicilia, per citare solo i più noti.

Ad accomunare queste lotte a quelle che attraversano l’India di Altaf è una contestazione generale delle politiche di appropriazione e sfruttamento (della terra e di chi la abita) incentivate dai governi, a livello globale, in maniera sempre più convinta, massiccia ed evidente. Sul piano teorico, i movimenti politici attuali sono supportati da molte posizioni (accademiche e non) anticapitaliste, antirazziste, antifasciste, ecologiste e femministe. Alcune di queste si esprimono attraverso l’arte, e spesso sono il risultato di quella “uscita”, più o meno graduale, che si verifica dagli anni Settanta, quando il rapporto con la rappresentanza e il potere cambia irreversibilmente. Esemplare in questo senso è proprio la figura di Piero Gilardi, fondatore del Parco Arte Vivente. L’artista torinese, famoso per il suo percorso di ricerca incentrato sulla bio-arte, dopo decenni di impegno politico e sociale che lo ha portato a frequentare anche i circuiti internazionali dell’arte, nel 2008 fonda il PAV per attivare un laboratorio indipendente, fondato sulla relazionalità e dedito alla produzione di una nuova conoscenza che parta proprio dalle tematiche ecologiche e da una riflessione attorno al ruolo che l’arte, le tecnologie e i media possono assumere nell’attivare una coscienza politica collettiva. Questa stessa ‘filosofia’ sta alla base del contributo artistico e intellettuale che Gilardi ha offerto all’attivismo militante. Come racconta in un’intervista rilasciata in occasione della sua personale intitolata Effetti collaborativi 1963-1985 (Castello di Rivoli Museo d’arte Contemporanea, 2012): “I miei lavori politici, in genere, sono attività creative che io svolgo in mezzo ai movimenti in lotta. Io, per esempio, partecipo alla lotta No TAV. Da anni realizzo, discutendo con i vari gruppi che si oppongono, attrezzi teatrali da agire nelle manifestazioni. Si tratta di costumi, carri o anche semplici simboli che entrano nel cuore del movimento e ne diventano un suo aspetto. In questo senso credo che la mia attività politica rimanga coerente, perché viene fatta con chi effettivamente sta lottando politicamente, e non può essere recuperata.” Anche per lui, come per Altaf, è indispensabile incentivare una riflessione interdisciplinare e un’azione condivisa, che coinvolga artisti e non-artisti in un processo continuo di conoscenza e consapevolezza. La figura di Altaf è quindi perfettamente coerente con la natura etica e politica del ‘laboratorio’ torinese che accoglie la sua mostra.

È facile immaginare che, se vivesse in Italia, anche Altaf prenderebbe attivamente parte a qualcuna delle lotte in corso; e in questo senso l’esperienza di Gilardi ci lascia prevedere anche che tipo di consenso riceverebbe questa sua scelta, all’interno e al di fuori del mondo dell’arte. Ovvero, escluso il PAV e altri luoghi simili che hanno deciso di posizionarsi in maniera così netta, quale istituzione potrebbe attualmente ospitare una mostra che rivendica, ad esempio, le ragioni e la resistenza di uno qualsiasi dei movimenti politici attualmente attivi in Italia? E che tipo di ospitalità riceverebbe, eventualmente, questa mostra? Quella condizionata dalla legge della cattura oppure quella “incondizionata” (di Derrida) che offre ascolto senza prendere nulla in cambio; che consente all’ospite di mantenere la sua inappropriabilità?

Poco dopo la mia visita alla mostra, il 30 dicembre scorso, Nicoletta Dosio, insegnante e militante NOTAV, viene arrestata per la sua partecipazione a una manifestazione di protesta, nel 2012. Oggi – insieme a molte altre persone considerate “pericolose” in quanto espressione di un pensiero non allineato alle visioni eurocentriche e all’ordine capitalo-centrato – Nicoletta è ancora in carcere e la sua lotta continua nelle parole che scrive e nel suo modo di affrontare la detenzione. Fuori dal carcere delle Vallette di Torino e in tutta Italia, per le strade, nelle piazze, nel web, le sue compagne e compagni continuano a farsi sentire, chiedendo libertà per tutte e tutti. Il suo è solo uno dei casi più recenti che è possibile citare per argomentare la morsa repressiva e punitiva praticata dallo Stato-Nazione Italia nei confronti delle forme di dissenso e resistenza. Ed è un caso esemplare per affrontare questioni come l’impunità della politica e la complicità che essa riceve dalla stampa ufficiale, ogni qualvolta questa dipinge le forme resistenti come forme di violenza, terrorismo, criminalità. Rispetto a questo scenario, nell’Italia di questo 2020, anche la presenza di Altaf al PAV diventa un atto di resistenza.

Infine, a proposito di complicità e resistenza, ampliando il raggio dell’analisi potremmo legittimamente problematizzare il ruolo dei soggetti che supportano la mostra (Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, Regione Piemonte, Città di Torino), anch’essi responsabili o coinvolti nei processi (di trasformazione e sfruttamento) pocanzi citati. Gilardi stesso non dovrebbe sorprendersi se gli si chiedesse come è possibile conciliare l’attivismo militante e questa disponibilità all’incontro con tali soggetti. Io non ho voluto chiederglielo perché, sebbene rilevarla mi sembri doveroso, non era su questa ambiguità che volevo ragionare, quanto sul potenziale discorsivo/politico della mostra. Così, prefersico pensare che il fondatore del PAV viva questa conciliazione come una strategia di intervento “criminale” (alla maniera di Stefano Harney e Fred Moten), che non asseconda ma sfrutta il potere istituzionale per poterlo mettere in discussione. In altre parole, più che chiedermi quanto il PAV possa essere accusato di complicità ai poteri dominanti, mi soffermo sui contenuti che mi sta offrendo, sulle prospettive che sta aprendo, sul vantaggio di avere visto il lavoro di Altaf a Torino, sulla possibilità che la sua pratica diventi contagiosa.


 

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Frammenti di discorsi da Soul Breath Wind (2016), di Navjot Altaf

“Acqua, giungla, terra, insetti e animali”;

“il profitto si fa solo rubando la quota di qualcun altro”;

“non importa in che forma sia la vita umana o non umana”; la preoccupazione è come salvare e proteggere”;

“le comunità vengono colpite e vittimizzate”; “e dall’altra parte c’è il governo”;

“circa 1000 villaggi sono stati sommersi dall’acqua”; “nell’area in cui viviamo e quella in cui lavoriamo, le persone sono state trasferite non una ma tre volte; alcune sono a Odisha, mentre altre sono migrate a Chhattisgarh e di alcuni non si hanno notizie”;

“Dei problemi reali non si parla mai perché sono le imprese che gestiscono il governo, e le politiche sono fatte di conseguenza”;

“I miei anziani hanno subìto la terribile ripercussione dello spostamento della diga di Hirakud. Questo è stato il più grande progetto dell’India indipendente (…) L’area era conosciuta come Shree prima del 1957, per la terra fertile; era considerata una nobile civiltà; dopo il 1957 è diventata un deserto verde.”; “L’acqua qui rimane nei canali di Shasvat e Borgadh; le persone non hanno acqua potabile nonostante la riserva sia vicina; l’agricoltura è un sogno realizzabile; c’è acqua ma le fattorie sono asciutte”;

“su 22000, 18000 famiglie vivono in quest’area; non vi è alcun impianto di irrigazione qui.”; “La milizia Salwa Judum ha chiesto agli abitanti di lasciare i loro villaggi e andare al campo Salwa Judum. Gli abitanti hanno risposto che i loro terreni sono qui. Come si sfameranno nel campo? (…) Il governo ha detto che coloro che non andranno nei campi saranno considerati Naxaliti dallo Stato; sono Naxaliti perché vogliono restare. Noi [VCA] ci opponiamo a questa linea di pensiero. Che razza di dichiarazione è questa? Coloro che sono con il governo si raduneranno nei campi della Salwa Judum e coloro che non sono con il governo resteranno nei villaggi; solo perché gli indigeni preferiscono vivere nelle proprie case, vengono automaticamente considerati Naxaliti! E dopo verrà ordinato di ucciderli (…) Noi [VCA] lavoriamo per le persone; Anche quando ci siamo scontrati con i Naxaliti, hanno accettato noi e il nostro lavoro con le persone (…) Ma c’è stato un attacco da parte delle forze governative, che ci hanno ostracizzati nell’area. Queste forze vogliono occupare le terre di quell’area”;

“Il ministro dell’Ambiente Jairam Ramesh aveva anche dichiarato che in qualsiasi area con industrie e miniere ha visto aumentata la miseria. Prima delle miniere le persone erano più felici. Ora solo pochi hanno un lavoro. Hanno sottratto le risorse naturali agli altri. Se questi principi e condizioni continueranno a prevalere nella società e affrontiamo perennemente la povertà, sempre più persone imbracceranno le armi.”


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Navjot Altaf: vita-arte-attivismo

“Quando mi guardo indietro sento che le mie scelte hanno definito la mia estetica e la mia politica.”
(Altaf 2019)

Navjot Altaf è nata nel 1949 a Meerut; oggi vive e lavora a Mumbai e Bastar. Parlare della sua pratica senza richiamare la sua biografia renderebbe il racconto monco, perché quello che fa come artista è, da sempre, inscindibilmente legato alla sua quotidianità di attivista. In quasi tutte le opere esposte al PAV questo legame emerge in modo molto esplicito. Mi soffermerò principalmente su queste.
La prima sala oltre l’ingresso ci porta negli anni Settanta, con un’installazione del 2018: “Wheelers Book Stall Re-visited, una struttura di pannelli in cui sono esposti 63 manifesti fronte/retro, prodotti a partire da testi rielaborati insieme ad altri due membri del PROYOM (Progressive Youth Movement) – il collettivo politico universitario di Bombay al quale Altaf, “per la mancanza di giustizia sociale” che osserva tutti i giorni, si iscrive nel 1972.[1]

“Wheelers Book Stall Re-visited” (2018); 126 manifesti; stampe digitali originali su carta di riso da archivio Hahnemule, testi serigrafati. Sullo sfondo: “Patterns which Connect” (2018); sculture in gesso e argilla.

La pratica dell’attacchinaggio di manifesti politici sui muri della città era molto frequente in quegli anni, ed era un modo per comunicare con gli abitanti in modo immediato. Mentre oggi a Mumbai questa pratica è proibita e “la cultura del fare domande”, in India, è minacciata dai partiti di estrema destra dominanti, Altaf torna a riflettere sulle tipologie dei testi utilizzati per affrontare questioni come l’autoritarismo, il fascismo, la resistenza civile, i diritti, le questioni di genere, la violenza sessuale, la libertà di parola, la giustizia.[2] Sensibile alle politiche di sfruttamento della terra, la sua riflessione iniziale si concretizza dunque nella militanza politica a supporto delle minoranze e delle specie oppresse. Nel corso del tempo, poi, la posizione marxista viene declinata nelle istanze del femminismo, in chiave soprattutto ecologista.

“Wheelers Book Stall Re-visited” (2018).

A una lettura analitica dell’attività di Altaf ci pensa Nancy Adajania, teorica culturale che individua tre fasi principali tra gli anni Settanta e Novanta. La prima è connotata dalla realizzazione di dipinti a olio (1972-74); la seconda si distingue per la predominanza di disegni a penna e a inchiostro (fino al 1983); la terza per l’esplorazione di acquerelli e acrilici, fino alla metà degli anni Novanta.[3] Concluso questo decennio, poi, l’artista si rivolge anche ai mezzi offerti dalle tecnologie audio-visive, che le permettono di documentare i processi ai quali prende parte (dunque di diffondere queste storie altrimenti ignorate), ma anche di sperimentare un linguaggio visivo – poetico e simbolico – che può essere condiviso e compreso. Soprattutto, dagli anni 2000, Altaf cambia approccio. Quello che era iniziato come un gesto nominalista per rappresentare l’altro, diventa adesso una ricerca di comunicazione equa. Il suo interesse spazia tra contesti urbani e rurali e la sua pratica si sperimenta in progettualità sempre più ampie, complesse e a lungo termine.
Determinante in questo senso la scelta di trasferirsi, dopo il ’98, da Mumbai a Kondagaon, nella regione di Bastar (Chhattisgarh – India centrale). Qui, dopo il 2000, insieme a Rajkumar Korram, Shantibai e Gessuram Mandavi, tre artisti Ādivāsī (“abitanti originari” di Bastar), Altaf è co-fondatrice di un artist-run centre, DIAA – Dialogue Interactive Artists Association, un progetto di pratica sociale che permette di analizzare il sistema attraverso interventi artistici da realizzare insieme alle comunità locali. Parte dell’attività si realizza con il Dialogue Centre, che propone laboratori con i giovani delle scuole locali e l’organizzazione di seminari chiamati Samvad, in cui la popolazione locale come agricoltori, avvocati, attivisti è invitata a lottare assieme ad artisti, attivisti culturali e teorici, storici dell’arte, scrittori, giornalisti, funzionari pubblici, insegnanti. Le formule partecipative, collaborative e orizzontali, fondate sulla possibilità di creare relazioni democratiche e sostenibili tra gli esseri umani e con il resto del pianeta diventano così una sorta di proposta metodologica. Un metodo ‘rivoluzionario’ nella sua capacità di generare vere e proprie “comunità resistenti”, animate da “coloro che sono svegli, che comprendono i sistemi di dominazione, colonizzazione, espropriazione capitalista, idea di sviluppo e di interesse per profitti a breve termine per pochi e ad ogni costo.”[5] Come nella visione ecofemminista, a fare parte di queste comunità sono gli umani e i non-umani.

Il video “Soul Breath Wind” (2014-18) rende questa concezione molto esplicita. Al centro dell’attenzione sono le condizioni di vita nelle aree minerarie del sud del Bastar, dove l’artista ha lavorato per anni insieme alle comunità locali. Nell’arco di un’ora, Altaf ci fa assaporare la complessità delle vicende (umane, sociali, politiche) che stanno attraversando queste terre; ci informa sulle ricadute materiali delle scelte politiche sulle vite delle persone; ritrae i mutamenti; riporta i conflitti interni, passati e presenti, le resistenze attuali e le prospettive per il futuro. La proiezione è su doppio canale; da una parte scorre la visione dell’artista, resa attraverso riflessioni personali e citazioni.[6] Dall’altra, le voci delle persone intervistate. Tra queste incontriamo contadini, artigiani, funzionari pubblici. Ciascuno riporta il proprio punto di vista, le proprie ragioni, i propri timori e desideri (qui la trascrizione di alcuni frammenti di discorsi).

Quando non ritraggono i volti intervistati, le immagini ci fanno viaggiare tra panorami semideserti, terre pronte a essere sventrate, in corso di trasformazione o già trasformate; oppure ci offre il suo rapporto ravvicinato ed empatico con vegetali e animali, luci, suoni. Nel testo che descrive il lavoro, Altaf chiarisce anche la sua posizione estetica. Riprendendo il pensiero di Bateson (1978), l’autrice risponde alla cultura della non-sostenibilità, sempre crescente, con una “estetica della sostenibilità”, che indaga i significati e le implicazioni delle ingiustizie, in modo pluralistico, e promuove un approccio umile nei confronti dell’ambiente non-umano.”[7]

“Nalpar” (dal 2000); documentazione fotografica del progetto in corso nel distretto del Bastar.

I suoni dei paesaggi attraversati in questi anni di ricerca in Bastar sono diventati, in occasione dell’allestimento al PAV, anche un’installazione sonora che si può ascoltare all’aria aperta: “Reminescent (2019) è un montaggio di brani provenienti dall’archivio dei viaggi dell’artista, con conversazioni, suoni ambientali, urbani e non; ciascuna voce rimanda a un’altra e un’altra ancora, e tutte insieme alimentano il senso della simultaneità evocata nel titolo della mostra.

Nello stesso cortile dedicato all’ascolto c’è un’altra installazione, stavolta scultorea. Si tratta della riproduzione di un canale di scarico costruito nel distretto di Bastar da una comunità resistente di indigeni, colpita dallo sfruttamento governativo. Un processo a cui Altaf ha partecipato sin dal 2000 e che l’ha portata a contatto sempre più stretto con la tecnica: tecniche dell’artigianato, dell’edilizia, della tessitura, di coltivazione,ecc. Il processo è ancora in corso ed è documentato anche nel ciclo fotografico intitolato “Nalpar“. Oltre che nella partecipazione attiva alla trasformazione di pompe manuali per l’approvvigionamento dell’acqua, il gruppo di lavoro formato da Altaf e gli artisti indigeni Rajkumar Korram, Shantibai, Gessuram e Gangadevi, si è impegnato a “elaborare esteticamente questi spazi pubblici frequentati da donne, bambini e uomini di tutte le età.” Per il gruppo, ci spiega l’artista, è stato importante formalizzare l’estetica di questi luoghi collettivamente, sulla base dell’interpretazione del significato dei segni, dei simboli e degli oggetti utilizzati dalle comunità.

Parte di questo percorso lungo, tortuoso, faticoso e senza garanzie è sempre stata la presenza femminista, anche laddove essa non è enunciata. Altaf racconta che la sua comprensione del femminismo non è partita da letture teoriche, ma attraverso l’osservazione e le discussioni tra le donne partecipanti agli incontri politici. Più tardi arriva anche la teoria, con l’analisi delle femministe occidentali: Griselda Pollock, Rozsika Parker, Linda Nochlin, Lucy R. Lippard, Hélène Cixous, Luce Irigaray; ma poi anche Vandana Shiva e soprattutto gli studi femministi di Susie Tharu e K. Lalita, dedicati alle scrittrici indiane.
Nel video “Trail of Impunity” (2014) la questione femminista è particolarmente evidente – nella scelta delle persone a cui è affidata la narrazione (altre due donne si confrontano insieme all’autrice), ma anche nei sintomi patriarcali che emergono dalla discussione. L’oggetto del confronto è il massacro del Gujarat (India centrale). Qui, nel febbraio 2002 un quartiere musulmano venne invaso dalla comunità induista a seguito di un incidente attorno a cui il governo di Hindu Narendra Modi, oggi primo ministro dell’India, costruì il suo casus belli. Nel video, a parlare di questa trappola è Teesta Setalvad (giornalista e attivista dei diritti civili), la quale chiarisce che dietro all’azione molto bene organizzata ed equipaggiata della comunità induista si nascosero le intenzioni e gli interessi di soggetti molto più potenti. Ovvero, si trattò di una cospirazione architettata dai funzionari del governo, dalla politica e dalle forze di polizia, intenzionati a eliminare le minoranze. La testimonianza di Rupa Mody, l’altra interlocutrice, sopravvissuta al massacro, conferma questa tesi ricordando la totale mancanza di reazione da parte delle forze dell’ordine, nel momento in cui vennero chiamate a intervenire in soccorso dei musulmani. La sera del massacro, Mody si trovava infatti in casa di Eshan Jafri, membro del Congresso e mediatore tra comunità islamica e induista, oggi ricordato insieme alle altre 68 vittime.

Per Altaf, questo lavoro è una critica alla violenza, una riflessione sulle “forme di vita” e sulla “presenza di umanità nell’essere umano.” Il tema della ghettizzazione e oppressione delle minoranze offre lo spunto per introdurre nella conversazione una  prospettiva di genere; la questione dell’impunità della politica è centrale e si intreccia a quello della complicità che i poteri dominanti riescono a estorcere per soddisfare i propri interessi. La discussione diventa, così, un momento per ribadire la necessità di costruire forme di coinvolgimento in grado di generare una lotta unitaria, in cui artisti, operatori del sociale e membri delle diverse comunità siedono allo stesso tavolo e hanno lo stesso peso. La loro proposta femminista insiste sull’importanza di stimolare processi di collaborazione non finalizzati alla vendetta ma a un cambiamento radicale di prospettiva; fondati sul senso di empatia anziché su logiche identitarie e divisive.

 


[1] Gruppo affiliato al CPI (ML), il Partito comunista indiano, di orientamento marxista-leninista. Comprendeva studenti di vari college e università di Bombay, docenti e accademici, economisti, giornalisti, cineasti e alcuni artisti visivi. La genesi di PROYOM si fa risalire a una serie di eventi successivi alla rivolta di Naxalbari del 1967, una “rivolta contadina militante” organizzata nel nord del Bengala Occidentale.

[2] Navjot Altaf, Samakaalik: Earth Democracy and Women’s Liberation, libretto della mostra – PAV Torino, 2019, p. 7.

[3] Nancy Adajania, “Dreaming of the Revolution: How politics shaped the art of Navjot Altaf”, in The Thirteenth Place: Positionality as Critique in the Art of Navjot Altaf, Bombay: The Guild Art Gallery, 2016.

[5] Chiara Lupi e Elvira Vannini,Why do Indian feminists unlike the western feminists not voice the same anger? Intervista a Navjot Altaf”, in Hot Potates, 30.10.2019.

[6] “(…) il conflitto causato dalle potenti forze corporative e politiche, dalla polizia e dai Naxaliti (ribelli maoisti) è visibile (…)”; “(…) la terra si attorciglia dalla paura”; “Mi oppongo alla violenza perché, quando sembra produrre il bene, è un bene temporaneo. (Gandhi)”.

[7] Navjot Altaf, Samakaalik, cit., p. 27.


Per tutte le opere in mostra: Courtesy l’artista
Per il progetto “Nalpar”: Courtesy l’artista e DIAA.
Ringraziamo il PAV per avere concesso l’utilizzo delle immagini.
Dove non indicato diversamente, le foto sono di Alessandra Ferlito.


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Sciopero dell’8M – Appello al mondo della ricerca e della formazione.

Da più di un anno la marea transfemminista di Non Una di Meno si è alzata a livello globale, esondando inarrestabile. Anche in Italia, dopo un anno che ha visto al lavoro assemblee in circa 70 città, dopo 6 incontri nazionali, dopo lo sciopero globale delle donne dell’8 marzo scorso, e il progetto di scrittura collettiva di un piano antiviolenza, contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, la marea continua inarrestabile e si prepara al prossimo 8 Marzo.

In questi mesi a Napoli ci siamo incontrat* settimanalmente come assemblea cittadina NUDM, attraverso tavoli di lavoro per studiare insieme il Piano Transfemminista di NUDM e ad elaborare il nostro piano territoriale di mobilitazione. Un lavoro ancora tutto in itinere, ma che a ridosso dell’ultimo appuntamento nazionale a Milano vogliamo rilanciare, ripartendo innanzitutto dall’università, dai luoghi del sapere, in quanto luoghi primari per la produzione di un sapere critico e dunque anche dove vengono prodotti pensieri e pratiche per il contrasto alla violenza del genere.
Le riforme e anni di politiche di austerità e tagli hanno spazzato via dall’università centri e dipartimenti in cui venivano prodotti pensieri critici, impoverendo sempre più la didattica, ma soprattutto diminuendo la possibilità di incontro e confronto per creare e diffondere un pensiero trasformativo, soprattutto in una prospettiva femminista. Così, mentre vediamo che grazie al capitalismo che investe nel diversity managment fioriscono master o studi specifici rivolti alle donne, soprattutto in chiave d’impresa, la prospettiva femminista, intesa come pensiero critico e sfida agli apparati disciplinanti del sapere, viene scacciata malamente dall’università.
Gli studi di genere, in particolare, sono da anni sotto il peso di offensive ideologiche mirate a criminalizzare ed espellere dall’università i saperi delle donne e delle soggettività lgbt, che erano timidamente riusciti ad affermarsi grazie ad anni di lotte e non di certo per gentile concessione.Come affermato nel piano, riteniamo che il femminismo non sia una materia o un corso, ma un’inclinazione che interpella direttamente le discipline anche come sistemi di potere. Le università dovrebbero essere tra i primi mezzi di diffusione di un sapere critico, ma soprattutto sono i luoghi di divulgazione della cultura, la quale, per poter cambiare i contesti di vita quotidiani, deve necessariamente essere modificata. Il sessismo non può più essere giustificato con la copertura della neutralità dei saperi e dei linguaggi.
Inoltre, sebbene sia evidente che le studenti sono ben più della metà degli iscritti in molte facoltà, continuiamo a vedere che man mano che si risale la gerarchia delle posizioni accademiche, troviamo sempre meno donne, persone dichiaratamente omosessuali, per non parlare della totale assenza di persone trans, senza neanche voler sottolineare la bianchezza dei contesti di formazione. Riteniamo che questo sia da attribuire alla disparità di risorse materiali e aspettative sociali che, quando non rappresentano una barriera all’entrata sin dal principio, costituiscono un impedimento che costringerà in continuazione le donne e le altre soggettività a dover scegliere tra il proseguimento della propria formazione e carriera e il lavoro non riconosciuto di cura.
Questa condizione di ingiustizia e disuguaglianza ci rende da sempre più precari* e più vulnerabili, e dunque da sempre più oggetto di prepotenze di ogni tipo e molestie sessuali che non possiamo denunciare sotto il ricatto della laurea o dei rinnovi delle borse e dei contratti, rendendoci sempre più isolate e frustrate.

Anche per questo pensiamo sia necessario avviare una discussione all’interno delle nostre facoltà in materia di prevenzione della violenza di genere, educazione alle differenze, perché la scuola e le università non contribuiscano più a diffondere una visione stereotipata e sessista dei generi e dei rapporti di potere tra essi.

  • Vogliamo continuare a lottare contro i tagli affinché i saperi critici non si estinguano e il femminismo venga riconosciuto, senza alcuna distinzione tra settori disciplinari, materie scientifiche ed umanistiche, un valore da riaffermare, sottraendolo alle logiche d’impresa e produttiviste dell’università con cui ci confrontiamo.
  • Pretendiamo di riaprire gli archivi delle conoscenze e recuperare i saperi e le storie che sono condannate all’oblio, perchè considerate minoritarie: rivediamo i programmi, riscriviamo i manuali, torniamo a leggere ciò che ci viene precluso.
  • Siamo stanch* di non poter denunciare casi di molestie sempre più frequenti nelle università.
  • Vogliamo mettere al centro il non riconoscimento del lavoro di moltissime ricercatrici precarie e non strutturate, le cui forme di sciopero si limitano, dato che il loro lavoro non viene considerato propriamente un lavoro; generazioni di precari* che portano avanti un vero e proprio “badantato accademico”, spesso non retribuito e senza alcuna garanzia viste la totale precarizzazione delle condizioni di lavoro, a cui viene chiesto di produrre pensieri/saperi/ricerca spesso in una modalità di vero e proprio autosfruttamento, per la passione profusa e la speranza che un giorno le cose possano andare meglio.
Questi sono solo alcuni dei motivi che ci spingono ad aderire allo sciopero dell’8 marzo come student* dottorand*, persone impegnante nella ricerca ad ogni titolo e professoressi. E proprio per questi stessi motivi vorremmo invitare tutt* a scioperare con noi.

#WETOOGETHER

Le proposte per aderire allo sciopero sono le seguenti:

– Per le poche persone nell’università che sono nella posizione di poterlo fare di aderire allo sciopero.
– Diversamente, durante la mattinata dell’8 e nei giorni immediatamente precedenti, svolgere lezioni che permettano l’introduzione, l’approfondimento e la discussione dei temi che hanno portato alle numerose manifestazioni globali e allo sciopero internazionale.
– Sospensione totale della didattica.
– Sciopero dalle email.

– Partecipazione alla passeggiata serale Non Una Di Meno.

Queste sono solo alcune delle modalità di svolgimento dello sciopero, ma siamo aperte ad altre proposte che possano rendere il nostro percorso più largo ed attraversabile.

L’8 marzo rilanciamo i saperi eccentrici e liberiamo la didattica dal maschilismo.
Non una di meno – Napoli

ELENCO ADESIONI:

Milena Bernardo studente filosofia
Antonia Anna Ferrante
Francesca De Rosa – ricercatrice precaria
Giulia Follo – studente
Alessia Peca – studente
Francesca Galloni – studente
Arianna Boccamaiello – studente
Sofia Esposito – studente
Serena Mammani – Studente
Virginia Papaleo – studente
Tiziana Terranova – TRU Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Lidia Curti – Feminist Futures Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Marina Vitale – Feminist Futures Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Silvana Carotenuto – Feminist Futures Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Alessandra Ferlito – TRU Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Roberto Terracciano – TRU Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Iain Chambers – Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Olga Solombrino – Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Celeste Iannicello – Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Annalisa Piccirillo – Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Mara De Chiara – Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Alessandro Buffa – Centro Studi Postcoloniali e di Genere
Stamatia Portanova – TRU, Feminist Futures Centro Studi Postcoloniali e di Genere

 

Pratiche curatoriali e postcolonialità: EX NUNC, l’esperienza diasporica e il web.

Guardare le pratiche curatoriali più recenti significa dare ragione a chi, da una prospettiva ‘culturalista’, a partire almeno dagli anni Novanta del secolo scorso credeva che la curatela stessa, come specchio del mondo, non può essere letta separatamente dagli sviluppi tecnologici. Affermazione che chiama in causa lo specifico della cura dell’arte quanto il problematico ‘tema’ della rappresentazione.
Come si legge nell’introduzione al volume intitolato Curating Immateriality (non più così recente ma per diversi aspetti ancora molto valido), dalla nascita di internet, col passaggio da un modello di rete “centralizzata” a un modello di rete “distribuita”, anche l’ambito della produzione curatoriale, insieme a molti altri, si è decisamente esteso e trasformato; e il focus stesso della curatela si è spostato dall’oggetto verso i processi e le dinamiche dei network systems (Krysa 2006, 7-25). A partire da questa riflessione, e attraverso teorie e studi provenienti da più parti e ambiti, nel volume si osserva il ruolo del curatore (e le strutture del controllo curatoriale) in relazione alle attuali formazioni socio-politiche e tecnologiche. Si guarda, cioè, al modo in cui i network systems hanno cambiato e stanno continuando a trasformare la curatela, e si afferma che questa stessa attività, collocata nel contesto della immaterialità, non va intesa solo come pratica creativa e critica, ma anche e soprattutto come pratica politica. È proprio in questa direzione che le pratiche curatoriali online, dal mio punto di vista, diventano particolarmente interessanti; cioè quando le potenzialità linguistiche e formali messe a disposizione dalla rete vengono ‘agite’ in qualità di “interruzioni” (per usare un termine caro a Stuart Hall) capaci di contestare o contraddire le nuove forme di assoggettamento/controllo che la rete stessa è capace di produrre quotidianamente.

Su questi argomenti, di recente, mi è capitato di confrontarmi con Chiara Cartuccia, co-ideatrice e co-curatrice, insieme a Celeste Ricci, di EX NUNC, un progetto curatoriale pensato proprio per la piattaforma web (www.ex-nunc.org), nato nel 2014 e presentato in Italia lo scorso 5 novembre, all’interno del programma di NESXT (Torino). Di seguito riporto alcune delle osservazioni sui modi di agire della piattaforma che sono nate nel corso della nostra conversazione: concepite come appunti di una ricerca in progress, aperta, reciproca e finalizzata a una ‘verifica’ costante, più che alla formulazione di giudizi definitivi.


Chi, che cosa, come.

Per darne una descrizione sintetica, EX NUNC si pone come un tentativo di mappare, analizzare e interrogare le pratiche performative e la performatività, e opera nella doppia dimensione online/offline attraverso tre sezioni: Atlas, Journal e Curatorial. Quest’ultima, in particolare, fa della piattaforma digitale lo spazio privilegiato per l’esposizione e fruizione, dell’arte, proponendo un calendario di mostre dedicate a una tematica annuale (per il ciclo in corso, fatto di tre capitoli, il tema è Movement/History). Il programma si costruisce tramite invito diretto agli artisti, chiamati a confrontarsi con il focus tematico nonché con le necessità espositive dello spazio virtuale. Detto con le parole delle sue autrici, Curatorial è “un’area che noi leggiamo e interpretiamo come un vero e proprio project space, un luogo in cui presentare progetti curatoriali modellati per l’allestimento e la fruizione online. Finora abbiamo presentato solo lavori preesistenti, adattati al sito tramite un attento lavoro di collaborazione con gli artisti.” Nel caso della mostra M/H II Home, ad esempio, i disegni di Phoebe Boswell, originariamente concepiti come una striscia multimediale continua e lunga sette metri (“Tramlines” è il titolo dell’opera, realizzata nel corso di una residenza a Gothenburg, Svezia), diventano uno sfondo da scrollare verso il basso. In questa discesa si incontra la multimedialità (il tratto del disegno, a un certo punto, incornicia un’opera video che ha un suo sonoro), e i livelli della narrazione si sovrappongono, trasformano i modi della visione e influiscono sui tempi della percezione. Se pensiamo alle influenze reciproche tra ‘sistema-rete’ e utenza, il modo in cui le produzioni artistiche si ri-modellano e ri-formulano per rispondere alle esigenze della piattaforma digitale, da una parte, e a quelle della sua utenza, dall’altra (tempi, linguaggi, ecc) può essere certamente indicativo e significativo.

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Phoebe Boswell, Tramlines – screenshot dal sito EX NUNC

Ancora secondo le curatrici, “anche se è già molto interessante vedere come un lavoro ideato per altri contesti possa trovare una nuova forma sul web, nel futuro, condizioni economiche permettendo, ci piacerebbe avere delle opere concepite esclusivamente per la piattaforma, pensate avendo in mente, quindi, i linguaggi della rete e il suo pubblico. Pensiamo che lavorare con delle produzioni originali ci permetterà di capire meglio e più a fondo i limiti e le possibilità dello spazio online. Ogni intervento in Curatorial ci permette di capire meglio in che direzione ci siamo muovendo, quali sono i nostri strumenti, cosa dobbiamo affinare o evitare.”

In questo senso, dunque, Curatorial si assume l’impegno di utilizzare la tecnologia web per riflettere sui processi formali che stanno alla base delle metodologie adottate, mentre le si sta elaborando. “Siamo curiose di vedere cosa ci riserverà il futuro, soprattutto considerando la presentazione online di opere performance-based. Nel caso della performance il rischio più grande è presentare del materiale che abbia perso la sua natura temporale, presente, attiva, per ridursi a mera documentazione, materiale d’archivio, che deve essere necessariamente ri-attivato, perché soltanto un’ eco dell’evento che racconta. Penso che le possibilità d’uso del web per la produzione di opere d’arte siano infinite, i modi e strumenti in costante mutamento, e molti ancora da essere creati. Quello che posso dire è che per funzionare online un’opera originalmente modellata sul web deve saper conquistare le coordinate spazio-temporali caotiche, anacronistiche e vertiginose che questo non-medium consente. Quali saranno i risultati? Impossibile per me da dire, ma sicuramente li aspetto con ansia.”

 

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Curatorial, dunque, “è un assoluto work-in- progress, e siamo solo all’inizio.” Un inizio fatto di dubbi, più che di certezze, confessa Chiara Cartuccia. Un inizio rispetto al quale mi sembra importante interrogarsi sui rischi di subire/operare nuove forme di potere e controllo. Ancora dal punto di vista del duo curatoriale, “chi usa piattaforme online per la creazione e diffusione di materiale spesso vive nella gioiosa illusione d’essere totalmente accessibile, pienamente democratico e (potenzialmente) libero. In realtà lo spazio della rete è estremamente complesso e contraddittorio. L’illusione d’immediatezza porta a pensare che non ci siano barriere tra un contenuto internet e la percezione dell’utente, in verità la situazione è molto più complessa. Partendo dalla condizione in cui ci troviamo, da europei ben educati, che lavorano nell’arte e nell’accademia, diamo per scontate molte cose, dall’effettiva possibilità materiale di visitare un sito internet (ignorando molteplici fattori: disponibilità di connessione, mancanza di restrizioni censorie etc.) fino all’abilità dell’utente di comprendere le dinamiche della navigazione e la capacità d’analizzare criticamente un contenuto proposto. Parlando del nostro lavoro curatoriale online, trattandosi di un progetto artistico, abbiamo la fortuna di poter fruire del filtro mediatore delle opere stesse. Ogni nuova idea curatoriale per il sito ci permette di avviare una conversazione con gli artisti e i loro lavori, spesso capace di mettere in luce gli elementi problematici che l’abitudine rende invisibili. Il lavoro sul sito è una costante scoperta.”


Teorie nelle pratiche

Un ulteriore elemento di interesse, in relazione all’approccio della TRU, lo trovo nel focus tematico proposto quest’anno (Historical Body, da cui derivano i tre interventi curatoriali di Movement/History) attorno e attraverso il quale emergono molti dei topics riferiti alla “postcolonialità” come condizione attuale; penso alla migrazione, alla diaspora, al colonialismo e alla sua violenza ‘epistemica’, per citare Gayatri C. Spivak, ma anche all’archivio. Il ventaglio di problematiche che questi temi suggeriscono mi ricorda, ancora una volta, che anche nella dimensione ‘virtuale’ la rappresentazione audio-visiva gioca un ruolo di importanza cruciale, e prospetta nuovi scenari in cui la “performatività” riguarda innanzitutto gli immaginari (i significati, le narrazioni). Vorrei, allora, richiamare l’attenzione sulle potenzialità della rete di andare (di farci andare) oltre i regimi ‘normativi’ della rappresentazione, classificazione, catalogazione, selezione, ecc.
“Volevamo iniziare il cammino di EX NUNC analizzando l’elemento fondamentale per ogni pratica artistica basata sul gesto e l’azione: il tempo. E questo tempo, antilineare e antigerarchico, è, per noi, sempre esaurito e totalmente compreso in un istante che racchiude e illumina tutte le possibili temporalità. Un momento cosciente e attivo, quello agito, che parla di storia e storie, e funziona da cassa di risonanza anche (e tanto più) per quelle voci ammutolite del passato.
Postcolonial non è uno stato, una condizione ferma e definitiva, ma un processo ancora lontano dal compiersi. Identifichiamo come postcoloniale non un periodo storico, quello successivo la fine dei principali domini coloniali delle potenze europee in Africa e Asia, ad esempio, perché il regime di colonialità non ha avuto termine nell’interrompersi di certe dinamiche geo-politiche e militari. Si possono forse definire postcolonial tutte quelle riflessioni critiche e politicamente attive che hanno come obiettivo ultimo il realizzarsi di una piena decolonizzazione, quale liberazione da principi di dominazione, tanto economici/politici/sociali quanto culturali. In questo senso il nostro interesse per il postcoloniale trova le sue radici nell’attrazione per il negativo e il negato: narrative, immagini e voci che la storia occidentale, univoca e violentemente dominante, ha offuscato, ridotto e cancellato.”


Perché?: biografie della rete.

“Abbiamo scelto di lavorare anche nel virtuale perché volevamo essere nomadiche e instabili, ma conservavamo comunque il desiderio d’avere uno spazio tutto nostro cui fare ritorno. Fin dall’inizio, abbiamo sempre pensato di non volerci legare particolarmente alla città in cui ci troviamo ad abitare la maggior parte del tempo, Londra. Un po’ per la nostra naturale personale instabilità geografica, essendo tutte e due legate a diverse città e paesi, un po’ perché non riteniamo strettamente necessario né utile investire gran parte del nostro tempo nel tentativo di mantenere uno spazio fisico, in una città come questa. E non solo per ragioni economiche, ma soprattutto concettuali. Volevamo, appunto, essere potenzialmente ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo; vorremmo parlare a un pubblico molto più differenziato e mutabile di quello che una singola città europea possa offrire, o contenere.
Si, penso che la nostra esperienza di vita all’estero abbia indirizzato un po’ questo nostro interesse. In particolare vivere nella curiosa condizione di privilegio che la mobilità europea ci ha, fino ad ora almeno, garantito, e trovarsi a confronto con altri tipi di migrazioni (quelle che si possono definire “propriamente dette”) porta a domandarsi dove risiedano i nodi cruciali di certe differenziazioni. Inoltre penso anche che la nostra distanza dall’Italia, per diversi anni ormai, ci abbia reso forse più consapevoli delle nostre radici mediterranee, e abbia quindi rafforzato la nostra connessione (non solo intellettuale e culturale, ma anche romantica) con tutte le realtà che quel nostro mare lontano bagna, incontra e spesso respinge.”