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#hope 2026. Allerta transfemminista dalla sera alla mattina

 

“Alleeeeeertaaaaaaaaa… Alleeeeeeertaaaaaaaaaa…

Allerta transfensfemminista dalla sera alla mattina…”
Lo dovevo sapere che non era una buona idea insegnare questo slogan ai piccoli mostri di casa, ormai è un mese che ci svegliano sempre così. Oggi poi sono arrivat* saltando sul letto, non stanno nei panni per la partenza: partiamo con la s/family per il mare e loro stanno facendo le cose folli. Questo è il momento dell’anno più bello per loro, ma anche per noi, in cui riusciamo a prenderci del tempo fuori dalla routine e dalla quotidianità e stare tutt* insieme, compagn*, amich* amanti. Certo per noi non è sempre facile, abbiamo caratteri diversi e poi noi comunque siamo cresciut* in queste famiglie nucleari, gelosie, gerarchie dei rapporti, abbiamo avuto una socializzazione al lavoro di genere e degli affetti che probabilmente ci porteremo dietro per sempre… ma con loro mi sembra che stiamo facendo un buon lavoro. O forse loro con noi!
Abbiamo deciso di non smettere mai di raccontargli di quegli anni bui, come avevano fatto con noi le nostre nonne nel raccontarci la guerra; così stiamo provando noi a raccontare quanta fatica ci è costata resistere al fascismo. Forse sono ancora troppo giovani per capire cosa siano i confini… ma in realtà neanche io avevo mai capito cosa fossero. Ma devono saperlo che la gente moriva in mare, che si sparava per strada a chiunque fosse divers*; devono saperlo che la libertà che abbiamo oggi non ci è stata data, e che spetta a loro continuare a lottare lottare lottare per esser felici. Questo slogan poi a loro piace da morire, ma maledizione mo ci buttano giù dal letto con sta roba qui.
Andiamo a trovare le vecchie al mare. Le compagne che si erano cacate il cazzo di stare in città hanno fatto la domanda e hanno avuto ‘sta bella villa di questi ricconi di un tempo e vivono tutte insieme, chi zappa, chi prende il sole, chi cucina… certo ogni tanto attaccano la pippa, ma ai nostri mostrini piace sentire le storie di quando avevamo tutti un display nelle mani per fare qualunque cosa, pure per trovare la strada, fare i conti. E pure per scopare.
Forse in quegli anni mi sarei spaventata troppo a pensare di impiantarmi e fare impiantare alle persone che amo un chip sottocutaneo, ma il problema non era mica la tecnologia, era la società in cui vivevamo. Cazzo eravamo così razzisti, credo che abbiano molta più consapevolezza i mini di casa di cosa fosse stato il colonialismo che i miei coetanei nel 2018. E poi che vita di merda, sempre a lavorare lavorare lavorare, sempre senza una lira, sempre a fare i salti mortali. In quel momento ero incapace di immaginarmelo anche un mondo basato sullo scambio solidale, in cui avrei potuto prendermi il tempo per fare ricerca e dedicarmici con passione e tempi umani, perché era la mia esistenza a meritare reddito e non le ore o la quantità prodotta. No, ero proprio incapace di immaginarmi che potesse essere davvero così. Ad un certo punto avevo talmente smesso di crederci, che ormai mi sentivo pure in colpa di continuare a fare politica e pronunciare cose giuste, perché mi sembravano solo utopie naif ed ideologismi.
Io oggi le guardo e mi viene orrore solo a pensare che quando io avevo la loro età avevo il grembiulino bianco o rosa a scuola e che quella fosse quasi una liberazione rispetto a quando mi chiedevano “ma sei maschio o femmina?”. E giù di cascate di lacrime. Il più grande di loro ieri ha avuto le mestruazioni, grazie alla dea, perché non lo sopportavamo più così nervoso ed emotivo. Stasera ci ha chiesto di andare tuttu insieme al mare e fare il bagno con la luna piena. Spero che con gli anni impari a fare quello che non sono mai riuscita a fare io, ricordarmi che quella smania di suicidio che mi prendeva una volta al mese erano in realtà le mestruazioni. Ma credo che loro siano stat* abiutuat* sin da piccoli, anche con le persone adulte che si occupano della loro educazione, che sono parte di un ecosistema molto più complesso, in cui, per esempio, il tempo non è una convenzione lineare, ma l’accordo con il ciclo delle lune e il ritmo stagioni. Pensare che una volta dicevano che queste erano credenze da streghe, crune… janare. Invece guardando loro che si concepiscono come parte della natura sono riuscita a capire come siamo parte di un assemblaggio super-materialista con tutto quello che ci circonda. Insomma, io da quando ho il chip riesco a riconoscere come le mie capacità siano diventate incredibilmente post-umane, ma credo che non mi basterà tutta la vita che ho davanti per diventare superempatica come loro. Io mi fermo dove si ferma la tecnologia, le mie connessioni si limitano all’hub a cui sono connessa, loro vanno ben oltre il nostro hub, ben oltre il linguaggio della macchina, sentono ciò che cambia intorno a loro e loro stess* cambiano. E insomma lui dice che stasera c’è l’eclissi di luna piena, che si vedrà anche marte rosso, che il cielo sarà pieno di sangue e così pure lui e che nel mare potremo sentire tutti più forte questa cosa. Chissà lui cosa sente, ma io mi fido. Del resto ancora prima che nascesse mi chiedevo cosa sarebbe stato che non avrei capito delle persone che avrei messo al mondo. Ero terrorizzata che potessero essere razzisti, che fossero machisti, che volessero sposarsi in chiesa… militari… invece sono delle persone fantastiche e certo non potrò capire mai il loro materialismo, riderò di loro per sempre, e loro di me, perché sono così novecentesca in questa mia smania di controllo della natura e della tecnologia… io? Io? Vi rendete conto? Avrei dovuto saperlo che so…8 anni fa…
Ma tutt* possono sbagliare, tutt*, anche l’algoritmo sbaglia in continuazione, ma che libertà averlo scoperto, aver scoperto che la macchina sbaglia, come noi sbagliamo, che noi non possiamo controllare loro, che loro non possono controllare noi, ma che insieme, con tutto ciò che ci circonda, siamo meglio, ma ci vuole così tanto coraggio per lasciarsi andare, perché il cambiamento cambi noi.
Abbiamo sbagliato, continueremo a farlo, ma una sola cosa abbiamo fatto giusta: lottare. E continueremo a farlo, verso l’orizzonte delle utopie.
“Alleeeertaaaaaaaa…” Cazzo hanno ricominciato… vi prego possiamo abbandonare i mostri in autostrada? Vi prego!!!

Fare un salto al seminario: come praticare l’arte del fallimento nell’Università.

Questa è una lunga analisi sul perché non ho scritto un post per invitarvi tutt* a discutere intorno al testo di José Muñoz “Cruising Utopia”. Giovedì 3 Maggio ore 16,30 all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici con Renato Busarello, Mara De Chiara, Roberto Terracciano e me… forse.

È dai tempi della scuola che ho imparato a confrontarmi con il fallimento. Il fallimento anche oggi arriva all’ultima fase. All’ultima frase. Facevo traduzioni perfette, forse non giuste, ma sempre appassionate; non era questione di grammatica e di studio, ma l’esercizio di cercare le parole giuste per dire le cose. Amavo scegliere le parole; ancora adesso. Brava: brava per i professori che mi premiavano con ottimi voti; brava per i compagni di classe che mi riconoscevano più la generosità del far copiare che una qualche dote; brava per i miei genitori che potevano raccontarmi come la figlia perfetta. Eppure tutto questo pesava su di me come un macigno: il peso delle aspettative. Non tanto quelle delle persone intorno a me, ma quelle di cui mi caricavo io stessa. Nata sotto il segno della Vergine, sempre in competizione con me stessa per essere all’altezza dell’ideale che mi pongo. L’ascendente in Pesci mi ha dotata del dono della creatività e la luna in Sagittario mi ha infuso l’arte della fuga. Ho iniziato molto presto a conseguire il fallimento come pratica militante di boicottaggio, e ho continuato con una certa perseveranza per il resto della mia vita. Una lunga carriera di esami a cui mi sono presentata senza aver studiato l’ultimo capitolo. L’esercizio del fallimento l’ho praticato con più dannazione che orgoglio, aggiungendo al peso delle aspettative l’ansia e i sensi di colpa.

Sono qui a cercare l’idea migliore per il prossimo post di Technocultures. Non devo solo essere all’altezza dei post precedenti, tutti un successo di visualizzazioni, devo essere più in alto di essere all’altezza. È l’ultimo, quindi devo spaccare. Lasciare il segno non è solo un desiderio narcisista oggi; mi muovo nel paradigma della precarietà dell’università neoliberista. Non ho neanche un nome per descrivere la mia posizione: non più dottoranda, non (ancora?) post-doc. La mancanza di una parola non è solo la ricerca di una collocazione lavorativa ma il bisogno di un posto esistenziale. Devo accumulare voucher visibilità: non dire mai no ad alcuna proposta di scrittura, intervento, organizzazione e non perché mi abbiano mai pagato per questo, ma con la speranza di poter impressionare qualcuno, trovare un contatto, lasciare un segno, non sparire mentre aspetto che arrivi il mio turno.

Ma questo è il momento dell’ultima frase e io, come al solito, non posso scrivere. Niente. Riprendo in mano il libro di Muñoz, l’ho già riletto quasi tutto, ma sono ancora in cerca dell’idea perfetta. Mi manca sempre lo stesso capitolo: A Jeté Out of the Window. Fred Herko’s Incandescent Illumination. Avevo scelto di non rileggerlo sebbene fosse il primo testo che avessi mai letto di questo autore che dopo mi ha tanto appassionata. Era agosto e mi preparavo per una summer school, lo aveva dato da leggere Jack Halberstam, entrambi grandi amici si sono molto influenzati nelle loro scritture. Sin da subito ho esorcizzato il pugno nello stomaco ricevuto da questo testo, scherzando con un mio amico sul destino di una dottoranda, costretta a leggere di uno che fa un salto fuori dalla finestra, mentre gli altri sono con le chiappe al mare. Questa volta me lo sarei risparmiata, infastidita dall’apologia di un suicidio in un testo che nasce dichiaratamente come risposta alle teorie nichiliste della svolta antisociale del pensiero queer. Cosa cazzo c’entra il suicidio mentre parliamo di utopia, speranze, relazioni guardando al futuro?

Questo capitolo ha la potenza di un pensiero intrusivo. I pensieri intrusivi, in un linguaggio patologizzante, sono quei pensieri ed immagini, percepiti come esterni, che attivano le crisi ossessivo compulsive: idea di morte, droga, contaminazione… L’idea di qualcosa di estraneo, introdotto dall’esterno, per mandare in frantumi l’equilibrio. Come questo capitolo che attiva con potenza una catena di pensieri ansiogeni rispetto all’ideale di utopia che si sta delineando. Mi decido a riaffrontarlo e resto colpita immediatamente dalle prime parole “Surplus is a loaded concept”. Prosegue introducendo la teoria del valore prima in una prospettiva marxista; dunque il surplus inteso come quella parte di ricavi superiore al costo del lavoro, quindi il profitto del capitalista. Prosegue, successivamente, introducendo questo concetto nel campo dell’effimero, attraverso la produzione artistica. Solo a questo punto mi rendo conto che Muñoz, ancora una volta attraverso l’analisi dell’estetica delle pratiche, sta introducendo i suoi elementi di elaborazione di una teoria del valore queer. Un’analisi che non è dello sfruttamento da parte del potere, ma della potenzialità della performance come atto che produce l’esodo.

Forse occorre un passo indietro. Fred Herko è volato fuori dalla finestra di un appartamento del Greenwich Village nel 1964. Il suo consumo di speed era noto e imbarazzante perfino per le altre persone della Factory, che com’è altrettanto noto, non consumavano tè e biscottini ai loro incontri. Lamentava in continuazione la lentezza del mondo – sono le anfetamine, darling – in un corpo accelerato dal consumo di sostanze. Una lurida puttana, come fu definito da altri artisti dello stesso entourage, senza fissa dimora, una frocia sfranta che si bruciò troppo velocemente all’ombra della Factory di Wharol, che ha prodotto più rifiuti che arte. Il grande artista, com’è altrettanto noto, era un sadico di merda e sfruttò Herko per molte delle sue produzioni, tra queste probabilmente la più famosa è Roller Skates, alla fine della quale, dopo giorni a giare scalzo per New York, a Herko sanguinavano i piedi. Questa è grande arte signori. Fred Herko si spoglia nella casa di un suo amico; inizia a ballare, come sempre, nel suo stile sopra le righe; non è mai stato chiaro se volesse davvero suicidarsi o letteralmente stava fuori come un balcone. L’unico spettatore presente si rammaricherà per sempre di non aver filmato il suo capolavoro definitivo.

Muñoz riprende la nozione negriana di plusvalore, come quella parte incontrollabile e potenzialmente distruttiva integrata all’interno della formulazione del lavoro in questa configurazione del capitalismo contemporaneo. Sviluppando questo pensiero con quello che abbiamo analizzato nei seminari precedenti possiamo provare a formulare una nostra nozione di plusvalore queer: all’interno della produzione immateriale esiste una componente personale, che non è solo quella che produce il profitto, è anche e soprattutto quella componente sessualizzata che rappresenta la potenzialità di hackerare il sistema.

È impossibile seppellire o ignorare i pensieri intrusivi, bisogna attraversarli e provare a trovarne un senso, e comincio a intravederlo all’orizzonte. Leggo questo testo accanto a quello di Mark Fisher, un suo pensiero sulla depressione in cui racconta della sua esperienza; un testo che ha acquistato, piuttosto che perso, significato al momento del suo suicidio, anche grazie alla larghissima diffusione. In questo testo Fisher insiste sulla necessità di rileggere la depressione, che comunque ha segnato la sua personale esistenza, in una prospettiva politica più ampia di crisi generalizzata e malessere sociale. Rileggo questo pezzo di Muñoz non più come una resa al nichilismo, quanto piuttosto un ulteriore modo di tracciare delle mappe relazionali anche nei momenti più cupi dell’analisi queer. La sua tesi sull’utopia non è, infatti, la produzione di un ideale naif delle potenzialità del futuro. Tutt’altro. Questa temporalità proiettata all’orizzonte ancora da venire non è bonificata dalle memorie, è piuttosto un momento estatico in cui tutto questo può essere percepito, popolato anche di fantasmi e momenti difficili.

Il potenziale trasformativo della costruzione di relazioni ha radici piantate in un mondo percepito come insostenibile così com’è. Da qui la necessità di smettere di pensare al qui e subito e l’urgenza di direzionarsi verso l’allora altrove. Nell’analisi dell’estetica delle pratiche queer risiede la via di fuga ma anche la possibilità di fare mondi. Dunque non è corretto continuare a tracciare la vecchia riga che separa l’esodo praticato dall’artista dalla radicalità delle esperienze politiche collettive. Tutto ha radici in un mondo da trasformare. Queerness is not yet here, la frocianza non è ancora qui.

Guardare all’orizzonte come luogo e tempo delle speranze ci costringe a dover scrivere anche storie di delusioni e disillusioni, ma affrontare le aspettative significa anche abbandonarsi all’arte queer del falimento. L’utopia stessa, come mancanza di pragmatismo, è il fallimento del desiderio di essere normale, un colpo al cuore del produttivismo. Dalla teoria postcoloniale queer ho imparato che il fallimento ha un’aura di privilegio che chi deve pagare le bollette non può permettersi, ma per me, in questo momento, accogliere il fallimento mi libera dall’ansia di essere all’altezza del reach-out di questi post e mi permette di prendere parola, politicizzare e inserire in un contesto più ampio questa ansia. Mica poco per una giustificazione di non aver fatto il mio dovere?

Muñoz analizza il fallimento accanto al virtuosismo, poiché nella sua stessa matrice c’è la potenzialità: quello che poteva essere e non è stato; quello che ancora un giorno potrà essere… incluso un nuovo fallimento!

Chiara Fumai è morta, Mark Fisher è morto, Muñoz è morto, Herko è morto… e anche io non mi sento tanto bene.

Paul Preciado Testo Junkie

Le streghe son tornate incinte. Di giustizia riproduttiva, ormoni e resistenza transfemminista.

A blizzard of hormones,
for months,
undersea volcanoes spewing hot affects
tectonic emotional swings
intense food cravings
my body is foreign to me
it’s changing, in ways I don’t like,
shape, texture
and so many little blacks hairs coming back,
despite being tortured out of existence,
on my cheeks, in my cleavage,
I have to wear baggy clothes,
all my underwear was too tight
for gamete making temperatures,
I have to take my vitamins every day,
all to make a baby.
I’m a trans woman
and I’m pregnant.

 

Sullo schermo lentamente mettono a fuoco, da un lato le immagini da un microscopio, dall’altro le parole. Lentamente viene alla luce questa gravidanza di donna trans, in un progetto che mette in versi l’appropriazione della scienza per realizzare allo stesso tempo un desiderio e un atto di giustizia riproduttiva.

In Italia ci stiamo organizzando per i 40 anni della legge 194. Più che una celebrazione, un momento di condivisione di lunghe resistenze e nuove lotte, per la contraccezione consapevole, l’aborto libero e gratuito, per una visione non medicalizzata dei corpi. La difesa dei consultori non guarda al passato ma abbraccia le esperienze delle consultorie autogestite in cui i soggetti stessi possano produrre e far circolare strumenti e conoscenze per il proprio benessere.

Intanto arrivano in Europa donne dai Sud, dove i governi occidentali e le case famraceutiche sono ben liete di impiantare contraccettivi sottocutanei che le donne si fanno installare con la certa disperazione di subire stupri durante il lungo viaggio che le separa dall’Occidente. Molto spesso i medici che incontreranno una volta arrivate si rifiuteranno di rimuoverli “per ragioni di sicurezza”. La lotta per la giustizia riproduttiva ha molti volti, tutte istantanee dell’autodeterminazione oggi. Uno di questi volti è quello di micha cárdenas, teorica, ma soprattutto bio artista e hackttivista, cioè a partire dalla riappropriazione della tecnologia, soprattutto fai da te, produce interventi critici usando anche il corpo come un’opera d’arte. Nei suoi versi ci racconta l’odio per i peli, la frustrazione che aumenta con il livello del testosterone da quando ha smesso di assumere estrogeni e T blockers. Lei non è testo junkie, non ha iniziato ad assumerli per sperimentare, né smette di assumerli per lo stesso motivo. Lo fa e l’ha fatto per necessità, lo ripete più volte tra le parole che scorrono, per il bisogno che esprime un incontenibile desiderio di vita, una pratica di resistenza alle aspettative sociali che segnano il suo destino in modo violento. Un desiderio di vita comprensibile solo a chi non conosce privilegio alcuno.

 

micha cárdenas

Pregnancy, dunque, non è una sperimentazione, ma un lavoro di scienza degli oppressi, un intervento poetico militante da parte della trans women of color. Per realizzare la gravidanza produce una banca di tessuto criogenico aka banca del seme. Vediamo sui vetrini il materiale organico in modo sempre più chiaro, attraverso la poesia si fa chiaro il suo progetto. I gameti aumentano e aumenta la loro attività fino a prendere tutto lo schermo, esplodendo in una vera e propria festa danzante negli ultimi fotogrammi. Un party in barba ai medici, ai bugiardini, alle bugie della scienza che l’ha obbligata per anni al lutto di un futuro riproduttivo da cui sarebbe stata esclusa con l’inizio della terapia ormonale. In molti paesi – compresa l’Italia e la Francia da cui scrive Paul Preciado di Testo Tossico – la procedura ufficiale per iniziare una transizione passa per una diagnosi di pazzia o, in modo più sofisticato disforia di genere, e prosegue con la sterilizzazione.

 

Pregnancy – from fembot collective on Vimeo.

 

Da questa prospettiva micha ci invita a rileggere le questioni della giustizia riproduttiva come un fallimento del femminismo e delle culture queer bianche nel guardare al futuro. Ed è da questa prospettiva che lei si attiva per riscriverlo a partire dal suo corpo. La sci-fi, new media art, le tecnologie digitali e il design speculativo, a chi spetta scrivere il futuro? Ci chiede. L’imperativo del No Future ha relegato ad anatema il desiderio riproduttivo queer, leggendolo solo attraverso le lenti miopi dell’occidente cisgenere. Dai suoi versi sputa sulla filosofia occidentale, anche quella considerata più all’avanguardia e critica, e si fa prestare parole e sangue da Gloria Anzaldua, invece, per celebrare la resistenza vitale, il suo lungo sguardo volto agli orizzonti futuri, per sciogliere i cappi che da sempre legano le donne trans ad immaginari mortiferi. “I want more than just to live”.

Il video mette a fuoco lentamente e fa molto di più che trovare parole a tutte le domande che ci stiamo ponendo. Le immagini si susseguono insieme ai versi e intanto micha sente la vita crescere dentro di sé, 9 milioni di vite. Quante persone ci sono dentro di me? Una moltitudine. E ce la mostra. Sadie, un’altra donna trans conosciuta su un forum per la gravidanza di donne trans, le consiglia di non pagare nessuno specialista, quello di cui ha bisogno per portare avanti il progetto è un microscopio giocattolo e dei vestiti larghi. L’esperienza e la condivisione orizzontale sono la vera sfida alla scienza. Per conoscere la strada del Pharmacon e delle droghe bisogna battere le strade delle streghe, ci racconta Preciado, accompagnato da Silvia Federici. Dobbiamo infatti tener presente che la persecuzione delle streghe è la storia del capitalismo e del colonialismo, una storia fatta di appropriazione di terre, risorse, forza lavoro e annientamento delle resistenze. Le donne che curano, a partire da conoscenze autoprodotte e tramandate orizzontalmente, restano la più grande resistenza alla medicina, intesa come potere di disciplina dei corpi. Così tutti i saperi femminili, froci e non occidentali sono da espellere con violenza da dove si produce il sapere tradotto in scienza. I roghi sono così il tentativo di porre fine ai “saperi narco-sessuali”, ma ancora oggi, proprio come ci mostra micha cárdenas, il fuoco brucia sotto la cenere. La scienza e la tecnologia sono state utilizzate per patologizzare le esperienze di cura collettiva, bonificare del potenziale erotico i processi di soggettivazione collettiva e distruggere definitivamente l’ecologia di corpi, territori e risorse. Ed è prorio da qui che monta la resistenza.

Copertina dell’edizione in inglese di Testo Junkie

Paul B. Preciado, nel suo saggio/memoire sull’esperienza della transizione, Testo Tossico, colloca la questione degli ormoni all’interno della tecnologia dei generi. L’ormone non produce genere, ma ne apre le porte. Se Judith Butler definisce il genere come imitazione senza modello, l’ormone per Preciado realizza il sogno di transitare da una finzione all’altra. L’estrogeno non è la femminilità, che è un effetto della tecnologia sociale, ma è vettore per il divenire molecolare che apre la porta ad infinite possibilità narrative. Ormone, sin dalla sua etimologia è ciò che scatena; una frattura epistemologica che ci obbliga a dover pensare i confini tra dentro e fuori. È a tutti gli effetti una tecnologia di trasmissione wireless, che ci obbliga ad espandere i confini del corpo e della biopolitica ben oltre i confini della pelle. Allo stesso tempo a ripensare al modo in cui il potere scrive sui nostri corpi e a noi spetta appropriarcene per produrre e narrare nuove resistenze.

Giovedì 22 marzo, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, per il ciclo di seminari “Postcoloniale, queer e femminista: percorsi di lettura per una vita non fasista“, discuteremo intorno a Testo Tossico di Preciado per ragionare sul regime post-industriale “farmaco-pornografico”, che prende in considerazione, cioè, i processi molecolari di governo della soggettività sessuale, così come le tecnologie di produzione e rappresentazione del corpo. “La verità sul sesso non è svelamento, ma sex design”.

Nina Ferrante

 

Questione di sguardi. Il postporno dagli occhi di Lasse Långström e i miei

Questo articolo è già stato pubblicato su Leggendaria. Libri Letture Linguaggi nel numero intitolato “Corpi Sguardi Desideri”, dedicato ai nuovi scenari nella pornografia. Ringraziamo la rivista per aver condiviso l’articolo e ancora di più chiunque avesse voglia di sostenere un progetto che è molto di più di una rivista culturale femminile e femminista.

Contempt Warnings: Nell’articolo è descritto con linguaggio esplicito un rapporto S/M.
“Robert Frank Robert Frank Robert Frank Robert Frank Robert Frank. Io mi rispecchio in lui per tutta la storia. Robert Frank, Robert Frank. Questa è grande arte. (…). È un mostro talmente immenso della storia dell’arte, lui è talmente grande che non possiamo neanche comprenderlo. Robert Frank è talmente grande e continua a diventarlo sempre di più, che perfino io mi sento diventare più grande con Robert Frank… Robert Frank… Robert Frank…”
Va avanti così per pochi minuti che mi sembrano durare troppo, troppo. Questo è l’incipit del video Robert Frank, un cortometraggio di Lasse Långström regista e attivista transfemminista queer svedese. Intanto il professore sullo schermo parla, parla, parla, decanta le doti, venera l’immagine proiettata, sfiora la parete, raggiunge l’eccitazione.
“Uomini che ammirano uomini che ammirano uomini che ammirano uomini. È sempre stato così privo di interesse. Io sono il frocio, la donna, il bambino, che ci faccio qui?”
Che ci faccio qui? Le dita tamburellano annoiate sulle file di sedie davanti. Mi do una controllata allo smalto rosso. Mi annoio. Io sono protagonista, favorita dalle riprese in POV, point of view. La telecamera sono i miei occhi, l’impazienza delle mani la mia, la voce fuori campo sono i miei pensieri a troppe lezioni, seminari, convegni. Le recenti tecnologie di ripresa, come piccole telecamere da vestire o gli stessi cellulari, hanno diffuso le riprese in soggettiva nel cinema e in modo esponenziale nel porno. L’ultima frontiera è quella del POV combinato al 3D grazie ad una mascherina che da l’illusione di stare direttamente sul set, portando le fantasie ai limiti della frustrazione. Estrema frontiera della scopofilia (Mulvey, 1975): il piacere visuale non è più quello del voyeur, ma la totale identificazione. Da questa prospettiva, l’esperienza del porno come “embodied image” così come definita da Annie Sprinkle (2001) è condotta alle estreme conseguenze. Nel porno, infatti, l’immagine cattura il corpo attraverso il desiderio, ma la tecnologia permette in modo totale questa convergenza. Sprinkle ha portato oltre i confini del genere la teoria della performatività di Butler, spiegandoci come la sessualità stessa sia una coreografia regolata da meccanismi di imitazione, ripetizione, aspettative e vie di fuga.
La pornografia permette di portare in scena – o sarebbe il caso di dire fuori scena dall’etimologia di osceno – la sessualità nel pubblico, portandola via dal privato; ciò significa anche renderla commercializzabile. Il capitalismo, in questo modo, riesce a capitalizzare anche la potenza masturbatoria dei corpi. Da qui l’invito di Paul B. Preciado a produrre nuovi porno, che creino sessualità comuni, collettive, condivise, copyleft, che siano liberate, ma soprattutto liberanti rispetto al mercato del porno mainstream e ai discorsi egemonici su sessi e generi (Preciado, 2013). E muovendosi su questa traccia che nascono e si diffondo porno queer, femminili o femministi, terroristi e tutto ciò che oggi viene messo nel contenitore post-porno.
Parlavamo di vie di fuga: mi alzo, raggiungo il professore, nella sala scura l’unica fonte di luce è lo scettro lunare fuxia, con cui lo zittisco. È in questo momento che il topos del porno da aula, quello del professore o della professoressa con lo/la studente, viene ribaltato. Le potenzialità del porno sono espresse principalmente dall’estetica che sollecita le fantasie, piuttosto che il contenuto in sé, che può essere anche abbastanza ripetitivo. È intorno a queste estetiche che si producono comunità e soggettività. Battezzo il professore lasciandogli il una striscia di glitter fuxia con il pollice sulla fronte, preparo il rito, peluches e fiori rosa. Lo schiaffeggio, intimandogli ancora il silenzio. Riempio finalmente la sua bocca con le mie dita, esploro, penetro. Nei suoi occhi la meraviglia. Impartisco ordini. Scrivo sulla sua pelle con il rossetto, scrivo ancora con gli schiaffi, scrivo sulla sua pelle in modo esplicito quali siano le relazioni di potere in questo amplesso. Scriverle in modo esplicito non significa solo sovvertirle, ma poterle negoziare, esprimere consenso, prendersene cura. Questa operazione di scrittura è parte della somatopolitica, un modo di ripensare le relazioni di potere a partire dai corpi, l’estetica del dolore è pratica sovversiva di cura. Sui nostri corpi è scritto da sempre l’ordine della medicina, l’imperativo della produzione e l’aspettativa della riproduzione, sono scritte frontiere materiali e immateriali tra nazioni e generi, i nostri corpi sono luoghi di battaglia ed in questo senso, luoghi di resistenze. È a partire dai corpi, dunque, che ribaltiamo la tavola, o in questo caso, la cattedra. Questi porno rappresentano l’interruzione nella storia delle rappresentazioni della sessualità – in cui le relazioni di potere erano trasparenti e il romanticismo una forma di disciplina – utilizzando una tecnologia di resistenza e sovversione. Nel dare consistenza alle relazioni di potere prendono forma le asimmetrie del sistema di produzione/riproduzione, mentre questa specifica performance punta il dildo contro la cattura dei corpi nel capitalismo cognitivo.
Lo metto a pecora e lo tengo con una presa forte per i capelli, mentre lui geme e gode. La voce fuori campo è ancora la mia voce interiore, che pronuncia lentamente ciò che non ho mai osato agire. “Il disperato bisogno di riempire di significato ciò che non ne ha, di riempire il vuoto dentro con l’autocompiacimento di ego smisurati, solo per riflettere sé stessi, è solo un desiderio di penetrazione mal canalizzato. Di essere riempito da qualcun altro.” Così lo spingo dietro, e schiaffeggiandolo ancora gli do questa lezione. In questo erotismo esiliato dalla sola genitalità, disseminato, ogni parte del corpo è penetrante e penetrabile, tutti i corpi e gli oggetti risignificati, esaltando l’incongruenza tra la biologia dei corpi e tutto ciò che possono performare. Nel porno mainstream la rigida divisione tra corpi penetranti e penetrati riproduce la divisione biopolitca che regge la stratificazione della nostra società. È a questo punto che avviene la sovversione: “sono il frocio, la donna, il bambino, sono sempre dentro di te”.
Il professore è a terra in posizione fetale e io raggiungo l’orgasmo e inizio a coprirlo del mio sperma. Secondo lo schema che Preciado definisce “platonismo spermatico”, l’eiaculazione è l’unica cosa reale del porno ed è spesso progettato per coincidere con l’eiaculazione dello spettatore (Preciado, 2013). Nulla di più vero di questo sperma vegano che cade da un corpo ignoto, queer, in cui lo sperma cade a pioggia, abbondante e imprevisto, come pratica di riappropriazione e destabilizzazione. Preciado chiama potentia gaudendi la forza orgasmica che conduce a compimento il potenziale desiderante; non ha alcun altro fine se non quello di realizzarsi, in modo incontenibile, oltre il tempo e lo spazio, l’assegnazione dei corpi ad un genere. L’unica energia che non può essere in alcun modo catturata.
Nel momento dell’eiaculazione avviene la mia desoggetivazione dal protagonista, eppure nulla è più desiderato e catartico di quello sperma che sommerge il professore che intanto spalanca la bocca per accoglierlo e chiederne sempre di più. “devi essere penetrato, profondo, lungo, forte. Profondo, lungo, forte. Sono il frocio, la donna, il bambino e sono sempre dentro di te. Ma tu non vuoi mai ammetterlo. Per questo devo penetrarti con violenza, forzarti, per sentirmi finalmente a mio agio. Farti sentire che ti sto dentro. All’inizio fa male, ma poi passerà. Imparerai a fartelo piacere. Questa è la catarsi. Sei rinato. Questa è grande arte.”
Lasse Långström è anche studente di cinema. Dopo una serie di seminari intensivi su Robert Frank è stato invitato a produrre un film ispirato al fotografo e regista statunitense. Il giorno della proiezione pubblica dei lavori assegnati ha presentato il suo film con i professori che avevano tenuto i corsi e avrebbero dovuto giudicarlo sul palco accanto allo schermo. Riaccesa la luce in sala, silenzio.

Archeologia della rete frocia: memorie della ‘Lista Lesbica Italiana’

Qualche settimana ho avuto modo di conoscere Katia, che mi ha ospitato insieme ad altre “queers” come ci chiamava lei. Ci ha coccolatu e viziatu e ci ha persino fatto dormire nelle lenzuola stirate. Eravamo lì, a Milano, per la presentazione di un libro e più in generale per parlare di transfemminismo queer a Lesbiche Fuori Salone.

Lista Lesbica Italiana Herstory

E’ stato in questa occasione che ho sentito parlare, a cena, di Lista Lesbica. Fino a quel giorno per me Lista Lesbica era uno striscione enorme che avevo visto a delle manifestazioni di movimento. Durante l’enorme manifestazione a Roma di Non Una Di Meno, quando la folla minacciava di disperderci in continuazione, lo striscione era diventato il nostro punto di riferimento per darci appuntamento e ritrovarci nello spezzone transfemministe. Credevo fosse un pezzo storico dell’attivismo lesbico italiano, mi immaginavo più radicale dell’associazionismo mainstream, ma neanche rivoluzionario. Vengo invece a sapere che era una mailing list per lesbiche molto attiva negli anni ’90. Rachele quando incontra la mia curiosità mi consiglia di chiedere a Katia se è interessata ad una discussione su lesbiche e criminalità. Non aggiunge altro. Appena torniamo a casa, ormai notte, chiedo a Katia: “Katia, sarei interessata ad una discussione su lesbiche e criminalità” e lei scoppia a ridere. Inizia il racconto delle storie: le lesbiche in lista cercavano in continuazione occasioni per incontrarsi, dare volti ad i nomi, molto spesso avatar, che leggevano in lista. E così inventavano in continuazione discussioni astruse come pretesti (tipo le lesbiche e la criminalità).

La Storia, però, quella ufficiale, è raccolta in “M@iling Desire. Conversazioni in una comunità lesbica virtuale”, un testo ibrido tra il saggio, la letteratura, ma soprattutto un’ inconsueta forma di oralità, a cura di diverse autrici, ed edito nel 1999 da Il dito e la Luna. La Storia, appunto, inizia nel 1996, quando durante la seconda settimana lesbica a Bologna, in un tavolo tematico sul rapporto tra donne e nuove tecnologie, nasce la Lista Lesbiche Italiana. È ancora Katia Acquafredda, nell’introduzione del libro, a chiarire, “Ospitata da Orlando, il Server del centro Documentazione delle Donne di Bologna, LLI avrà il suo inizio ufficiale nel novembre ’96 col proposito di facilitare, tra l’altro, la diffusione di informazioni tra diverse realtà del movimento lesbico italiano e stabilire connessioni stabili tra singole e gruppi”. In realtà la lista si trasforma molto presto in un primo esperimento di cyber socializzazione che precede la nascita delle community, dei forum e e un’era giurassica prima di Guapa, Brenda e le altre hook up apps.

A raccontare tutto è soprattutto Katia, la listowner, o la listauner, come viene chiamata in alcune mail raccolte nel libro, che conservano anche off topic ed errori di battitura, tracce della fretta, delle stanchezze, dei fusi orari o semplicemente della poca dimestichezza con una tecnologia con cui, all’epoca, toccava ancora familiarizzare. Intanto a Milano, spiaggiate sul divano insieme a me, anche alcune Llilline – così si chiamavano le iscritte – che avevano conosciuto sulla loro pelle il terrore de “La Telefonata”: per iscriversi bisognava mandare un numero di telefono per farsi contattare da una delle amministratrici che spiegava a voce tutte le raccomandazioni per tutelare la lista e la safety delle partecipanti, per esempio non far leggere le mail a persone indesiderate e quali accorgimenti usare prima della diffusione degli smartphone e quando i computer non erano così personal.

Com’è che le zebre finirono a limonare con gli unicorni

“Anche se i classici comunicati inviati dai gruppi non hanno mai smesso di circolare, la conversazione in lista si è fatta progressivamente più articolata e personale, generando così uno spazio di ricerca e riflessione, ma anche un luogo di incontro e aggregazione” ricostruisce ancora Katia, o altrimenti detto, è vero che la lista diviene una delle prime sperimentazioni di dispositivi tecnologici di rimorchio, ma è anche vero che ha attivato una serie di discussioni che hanno contribuito alla soggettivazione politica, individuale e collettiva, delle lesbiche italiane. Un pezzo di queste discussioni sono restituite pubblicamente nel libro, organizzato per thread/capitoli: presentazioni, coming out, fedeltà, maternità e lesbiche sposate. Particolarmente interessante è stata la lettura del thread “Cos’è una donna?”, in cui, a partire dall’opportunità di accettare in lista Helena Velena (un nome chiave delle controculture cyber e punk in Italia) si discute il posizionamento delle lesbiche rispetto alle trans e più in generale si pone la sfida all’identità lesbica oltre il femminile essenzializzato. Alle spalle, ma non troppo, di questa sfida c’è anche un dibattito molto aspro sulla democraticità dello strumento e su come vengano prese le decisioni. All’epoca la sfida non viene raccolta e Katia decide per tutte, scaricando Helena Velena. Non so se loro si siano mai rincontrate per riaprire quella discussione. Tuttavia, nello scambio di messaggi è possibile riconoscere quello che Liana Borghi, nella mail di postfazione indirizzata alle Llilline, definisce un “lavorio rizomatico” di una coscienza politica in formazione, tra la necessità ancora stringente di soggettivazione lesbica, ma anche la profezia di un processo creativo che produceva nuovi cyber-terreni di sfida alle politiche identitarie, quando queer era ancora solo una parolaccia. E noi eravamo lì, invitate da Katia, che ci regalava una spilla con una zebra e un unicorno che limonavano, la sfida di uno nuovo terreno di incontro tra il lesbismo storicamente separatista e il transfemminismo queer.

Archeologia dell’interfaccia frocia

Tra i suoi racconti mi hanno colpito soprattutto quelli in cui la lista ha funzionato materialmente da rete di supporto e cura per le ragazze che venivano sbattute fuori di casa, provvedendo in alcuni casi a trovare perfino un tetto e un lavoro. La rete, insomma, era davvero una rete tutt’altro che virtuale, ed è ancora Liana Borghi a sfidare questo confine: “Chi lo dice che la Rete è solo un simulacro del reale? La Lista, non vi sembra un luogo reale di scambio? Non è forse lo spazio interattivo del nostro desiderio? Una nostra polis? Dicono che la Rete sia un ambiente tattile dove la scrittura multimediale traduce il desiderio in simbolico”. Emerge il divenire consistente di una comunità di affetti e politica tra i racconti di Katia e le mail raccolte nel libro, che ancora conservano le mail attive delle Llilline, proprio per permettere di poter riattivare il thread con nuove risposte, rendendo ibrida la carta stampata attraverso questi collegamenti. Già nel 1999, anno di pubblicazione del libro, la retorica cyber pessimista parlava molto della distruzione della socialità negli spazi pubblici e delll’isolamento, ma quello che leggo in queste pagine è invece la possibilità di costruire soggettività, politica anche molto identitaria, addirittura non sempre esplicitamente politicizzata, ma soprattutto forse reti di neo-mutualismo a partire dalla relazione tra ‘virts’, le llilline. Ho ripensato a tutto questo mettendolo in relazione a quello che Roberto Terracciano ci ha insegnato sulle nuove interfacce delle hook up che lasciano aperto il canale esclusivamente allo scambio uno ad uno. E così questa archeologia della rete frocia non ci invita ad alcuna malinconia del tempo passato, ma piuttosto ci obbliga ad interrogarci sull’architettura dello spazio cyber da cui non possiamo lasciarci isolare poichè con sempre maggiore insistenza investiamo i nostri desideri di riconoscimento e di rimorchio.

LOTTO MARZO. Sciopero Ricercatoru e Docenti

Un’ondata di femminismo si è generata a sud, dalle donne (cisgenere e trans) che al grido di “ni una menos” hanno sollevato la questione della violenza e degli omicidi, diffondendosi in tutta l’America Latina. Questa onda si è propagata in Polonia, dove le donne hanno bloccato per giorni il paese per difendere il diritto all’aborto e all’autodeterminazione. Si è fatta marea, inondando le strade di Roma e portando in tutta Italia una mobilitazione di donne e soggettività queer a protestare contro la violenza di genere. Negli Stati Uniti le donne hanno inondato la capitale e le maggiori città contro l’insediamento di Trump e contro il razzismo e il sessismo che hanno preso il sopravvento nel paese. Soltanto quando la marea ha travolto e bloccato i maggiori aeroporti degli Stati Uniti i media internazionali si sono resi conto della portata di queste proteste, tacendo però il carattere transnazionale della rivolta di donne di paesi distanti, ma unite nella lotta contro il patriarcato e il capitalismo.

L’otto marzo 2017 sarà una giornata di lotta e mobilitazione transnazionale e le donne di 22 paesi hanno indetto lo sciopero per bloccare il lavoro di produzione e riproduzione nel Capitalismo che assegna valore diverso alle nostre vite, invisibilizza il lavoro di cura, crea disparità di salari e produce profitto dalla capitalizzazione delle differenze. Il sistema del genere, riprodotto attraverso l’eterosessualità obbligatoria, impone ruoli e assegna aspettative (una violenza in sé), generando e alimentando la violenza contro altri corpi più vulnerabili. In questo contesto, le frontiere rappresentano una ferita sanguinante sui corpi delle persone migranti, sulle quali si produce profitto senza reputarle degne di vivere.

Da sempre l’Università ci ha spinto a produrre il doppio per aver riconosciuta la metà: numerosissime studenti affollano le aule e mandano avanti le ricerche nei dipartimenti sfidando il soffitto di cristallo che le divide dalle posizioni di presitigio, o dal miraggio di un contratto. Ma oggi, dopo anni di riforme e tagli la situazione è collassata. Il patrimonio di conoscenze di pensieri divergenti sono considerati minoritari, inutili e addirittura dannosi all’interno di un paradigma della conoscenza finalizzato al profitto: una vera e propria condanna a morte per gli studi di genere, femminili, queer e postcoloniali che vede l’accorpamento (leggi chiusura) del dottorato di studi culturali e postcoloniali in cui molte di noi si sono formate e in cui tutte noi avevamo trovato una comunità orizzontale di crescita e scambio. Dal femminismo abbiamo imparato a partire da noi per produrre un pensiero che potesse cambiare il mondo. Le pensatrici e scrittrici postcoloniali ci hanno insegnato ad ascoltare e pensare accanto, non parlare “al posto di”. Il pensiero queer ci ha mostrato come praticare l’arte del fallimento e del tradimento delle epistemologie monumentali. Mai come in questo momento crediamo che le conoscenze debbano servire per prendere posizione, mettendo in discussione i nostri privilegi ed esprimendo un pensiero divergente contro la violenza del sistema dei generi, le misure di austerità e tagli che hanno condannato a morte l’Università e le conoscenze, contro il razzismo isituzionale e le politiche securitarie che in nome della difesa delle donne e delle persone LGBTI perseguitano e deportano le persone migranti, ma soprattutto contro ogni tipo di confine, materiale e immateriale, tra nazioni e generi.

Per questi motivi aderiamo allo sciopero dell’8 marzo. Alcune sciopereranno regolarmente, ma la maggior parte di noi, senza contratto, riconoscimento e tutela alcuna all’interno dell’università, dovrà inventare nuove forme di assedio al capitalismo cognitivo. Nelle aule dove insegniamo, spesso gratuitamente, incroceremo le braccia dal lavoro non riconosciuto e non retribuito. Diserteremo dall’obbligo autoimposto di dover essere sempre visibili e produttive che ci spinge in continuazione all’autosfruttamento. Rifiuteremo di praticare ogni forma di cortesia verso chi scambia la nostra precarietà come la legittimazione ad una totale e perenne disponibilità. Troveremo nuovi ed imprevedibili modi per prendere parola e manifestare la nostra rabbia contro questo sistema ed esprimere la nostra solidarietà con chi lotta per un mondo senza disparità, violenza e confini.

Il trono gay di Uomini e donne. Appunti sul regime di visibilità omonormativo in Italia

 

Marò so troppo belli quei ragazzi. Maria ha fatto troppo bene ad invitarli. Ha fatto vedere che lui era fidanzato per cinque anni, hanno vissuto insieme… proprio come i fidanzati. Sono bellissimi, tanto rispettosi. No, non vanno travestiti, proprio come i maschi. Sono persone normali come tutti quanti gli altri. 

scelta-claudio

È la parola “normali” ad autorizzarmi a seguire a bocca spalancata e occhi sgranati la conversazione tra le due signore in Circumvesuviana. In generale non riesco a resistere alle conversazioni altrui sul treno, ma solitamente provo a seguire con maggiore discrezione; questa volta però, la parola normalità, fa scattare quel campanello che mi autorizza a non provare vergogna per i miei guilty pleasure: “interesse di ricerca”. La stessa scusa che uso ogni volta che devo giustificare in certi ambienti la mia passione per la televisione e la cultura pop. “Interesse di ricerca” è quello che mi ha autorizzato a tornare a guardare dopo anni Uomini e donne. Evidentemente non riesco proprio a contenermi e la signora, che mi trova a fissarla a mandibola slogata, m’ interpella con lo sguardo: che guard a fa?! Ed io: Signora scusate ma mi ero persa la puntata di ieri; mi potete dire che è successo?

In realtà ho seguito questa vicenda dall’inizio dell’estate scorsa, quando si rincorrevano prima i rumors, poi notizie più fondate, su un possibile trono gay ad Uomini e donne per celebrare in tv le unioni civili. Ad onor del vero ci sono dei – se pur non illustrissimi – precedenti. È già nel 2012 va in onda sull’emittente privata Napoli TV Made in love, che ricalcando il format di Canale5, invita “cacciatori” gay a corteggiare i “protagonisti”, in studio e in esterne, sotto gli occhi di una “giuria” di opinionisti, che ha visto sfilare –questa volta sì- illustri nomi, come Anna Paola Concia. Certo NTV non può vantare la stessa distribuzione di Canale5, ma la trasmissione ottiene un discreto successo attraverso la sperimentazione della distribuzione on line, grazie ad un sito e un canale Youtube. Di certo non avrà contribuito come Uomini e donne per un nuovo senso di accettazione nella comunità nazionale, ma di fatto la trasmissione non rimane un fenomeno folkloristico e va letta come una prima esperienza nella produzione di una comunità di froci che si riconoscevano negli stessi valori e nello stesso desiderio di rappresentazione.

Alla fine di agosto il mio viaggio in bla bla car Messina Napoli (quattro froci e una frociarola) ha avuto al centro della nostra chiacchierata proprio questo hot topic. Abbiamo letto e commentato diversi articoli da diversi siti in cui erano segnalati papabili tronisti, tutti sbagliati, ma una sola grande verità, la redazione cercava un vero uomo: MxM come si scrclaudio-sonaive sulle applicazioni da rimorchio gay, maschio che cerca maschio. Se in generale ci sarebbe molto da riflettere sulla misoginia espressa all’interno dello spazio gay, nello specifico di questa trasmissione televisiva, la produzione di un modello di gay egemonico viaggia di pari passo con la riaffermazione costante della mascolinità egemonica, con continui riferimenti al vero uomo, un modello a cui per la prima volta anche i gay hanno accesso. Claudio è un vero maschio, e tra i suoi corteggiatori no femminelle, tutti con le barbe, molti risvoltini, ma nessun polso piegato, nessun accenno, nessuna eccedenza dal modello antropologico “corteggiatore”. Distinguerli dai corteggiatori che sono lì per l’altra tronista infatti è impresa difficile, anche perché la parola gay non è mai pronunciata, raramente quella omosessuale. Mi confondo definitivamente quando scopro che nella puntata ci sono due tronisti omonimi e per distinguerli usano l’espressione “l’altro Claudio”.

È interessante notare come la mascolinità esploda nel momento in cui viene messa in scena nella sua rappresentazione più stereotipata; durante una delle puntate Mario, uno dei corteggiatori, invita Claudio a conoscere la sua squadra di calcio e, raccontando il suo coming out, lanciano due tiri in porta. I corpi sudati in quello spazio omosociale[1] non permettono tanto ai protagonisti di iscriversi nel maschile egemonico, ma mostrano come la mascolinità stessa sia un insieme di dispositivi che forniscono strumenti di narrazione a chiunque voglia posizionarsi in quello spettro[2]. In questo modo la mascolinità come dato essenziale esplode, rendendo inoltre manifesto il desiderio omoerotico in uno spazio solitamente molto rigidamente segnato da argomenti machisti.

Se alcune parole rappresentano un vero e proprio tabù altre sono al centro di questa messa in scena televisiva: uguale e normale. Questo mantra è ripetuto da chiunque prenda parola dalla prima puntata in cui viene presentata questa sperimentazione, fino alla fatidica scelta, in cui la senatrice Monica Cirinnà, autodefinitasi “umile legislatore”, ringrazia Maria De Filippi per aver presentato questa questione al grande pubblico: “Grazie per il senso di normalità. Questa è la parola più importante”. Sono d’accordo: normalità è la parola più importante. Il perimetro della norma che disciplina lo spazio pubblico non produce la sua forza nell’autorità di escludere ciò che sta fuori, ma nell’autorevolezza di allargare i propri confini mobili portando al suo interno sempre nuovi soggetti, ma solo dopo averli resi docili, bonificati. La norma funziona solo in parte attraverso i dispositivi legislativi, gran parte del suo potere è nella sedimentazione di dispositivi culturali che la ribadiscono e legittimano fino a renderla trasparente, fino a renderla la normalità[3].

Credo che sia banale dire che la trasmissione partecipi allo stesso progetto di normalizzazione dell’omosessualità in Italia, che ha prodotto nei mesi passati una legge che permette anche al nostro paese di mettersi al passo con gli altri nella retorica “è l’Europa a chiedercelo”. In questa prospettiva progressista, proprio nel senso che ci sono paesi che stanno più avanti ed altri più arretrati rispetto al modello liberale omosessuale, l’Italia non aveva da recuperare solo da un punto di vista legislativo; molto ancora resta da fare nella creazione di una cultura nazionale che permetta l’assimilazione e soprattutto nella fabbricazione di un modello di gay tollerabile, proprio perché assimilabile. Partendo da queste considerazioni credo che il trono gay sia stato il programma che più ha contribuito negli ultimi anni alla produzione di un “regime di visibilità omonormativo”. Se il regime di visibilità è l’insieme delle norme che regolano la rappresentazione di alcuni soggetti, questo può essere definito omonormativo descrivendo la traiettoria di assimilazione dell’omosessuale nel mainstream, in un regime culturalmente e politicamente egemonico[4]. Gay e lesbiche, un tempo tra i soggetti più destabilizzanti per l’ordine della società, oggi sono assimilabili, perché funzionali, al progetto di rifondazione dell’Occidente nel sistema neoliberista. Il regime di visibilità omonormativo in Italia, ed in questo senso il trono gay, è evidentemente parte del progetto di normalizzazione della comunità LGBT nella retorica europeista dei valori liberali.

Tuttavia la parte più interessante di questo discorso gira intorno alle contraddizioni di questo regime di visibilità omonormativo italiano, fondato per lo più su ciò che deve restare invisibile. Nelle prime esterne i corteggiatori continuavano a parlare del loro coming out, raramente pronunciato in questi termini, molto più spesso si utilizzava l’espressione “come hai detto quella cosa lì?”. Queste narrazioni mi hanno presto disaffezionata, ormai bruciata dall’esperienza. Infatti fino all’arrivo delle prime serie completamente dedicate alla rappresentazione di comunità gay e lesbiche (penso a Queer As Folk e L World), i froci nelle serie televisive avevano spazio nella trama solo per tutto il tempo in cui vivevano le tribolazioni dell’accettazione. Arrivat* al coming out rimaneva giusto lo spazio per trovare un partner, magari fare un figlio, per poi morire in modo tragico o essere convocat* da improrogabili impegni all’altro capo del mondo. Addio Nancy, la prima lesbica a fare coming out in Roseanne (Pappa e Ciccia in italiano), addio alla dottressa Weaver in ER. In Italia è ancora così: qualcuno ha notizie su come stia Sandrino Palladini di Un posto al sole?

Temevo che anche in Uomini e donne avesse preso quella china, fino a quando la signora in Circumvesuviana non mi ha convinta a risintonizzarmi e sono stata rapita da diverse (noiosissime) puntate in cui Claudio, Mario e Francesco, i suoi corteggiatori, litigavano sull’opportunità di mezz’ora di esterna senza telecamere. Francesco, aveva beneficiato di questo privilegio per poter baciare Claudio, e Mario, furioso di gelosia, continuava a rifiutare questa possibilità, sognando un bacio al supermercato. Ma è proprio Claudio a ribadire più volte che l’espressione dell’affettività è qualcosa di privato, da sperimentare solo negli spazi appropriati. Si crea nel mio cervello un corto circuito tra quello che diceva la signora, e in buona sostanza festeggia l’intera opinione pubblica, cioè la possibilità di vedere i gay come uguali e normali, e ciò che si poteva vedere concretamente nella messa in scena televisiva: niente! In una trasmissione che solitamente non è avara nell’espressione di un erotismo anche molto esplicito; ma ciò che trovo degno di nota è che l’argomento utilizzato da Claudio in trasmissione, osannato dagli applausi del pubblico in studio (vera e propria tifoseria del tronista) è esattamente lo stesso che in modo rabbioso hanno utilizzato gli omofobi per commentare la trasmissione: “certe cose le fai a casa tua”. Dentro e fuori la trasmissione, protagonisti, fans e detrattori si sono allineati nella ricostruzione di un muro invalicabile tra il pubblico e il privato, e la costruzione di uno spazio appropriato per la manifestazione dell’affettività.

La normatività della cultura eteropatriarcale ha da sempre barricato l’intimità nella sfera del privato, rendendola l’istituzione esclusiva e privilegiata per rapporti che non possono essere considerati nudi del loro valore politico[5]. La retorica di un’intimità serena nasconde in realtà un discorso ideologico di disciplinamento, assicurando un rifugio, un nido sicuro, per colorclaudio-e-marioo che adottano un stile di vita “proprio”. L’intimità è un premio/una consolazione per chi accumula frustrazioni nella quotidianità dell’oppressione e dello sfruttamento della vita pubblica. Questo nido è la prigione in cui confinare ogni forma di sessualità non conforme, soprattutto quelle che hanno ripercussioni nello spazio pubblico e s’impongono con la visibilità, pretendendo riconoscimento. Normalizzare, dunque, significa bonificare tutto ciò che evade dallo spazio del privato creando la convenzione per qualunque narrazione di affetti. La matrice eteronormata, attraverso il rispetto più o meno consapevole delle forme di relazione istituzionalizzate, si radica nella struttura della nostra società fino a farsi trasparente; in questo modo essa può continuare a regolare la normalità oltre i confini del sesso e della pratica eterosessuale in un regime di visibilità che anche in questo senso può essere definito omonormativo.

Con un balzo indietro di 40 anni rispetto all’irruzione del femminismo, che ha sfidato i confini tra pubblico privato, e con la completa cancellazione di altrettanti anni di lotta per la visibilità frocia, la questione viene riproposta esclusivamente attraverso il coming out: il gay italico viene allo scoperto in questa pratica performativa che produce se stesso come docile cittadino e ringrazia il mondo intorno per lo sforzo d’accettazione. In questa prospettiva fa la differenza quella che nel corso della trasmissione può essere definita la “questione madre”. Le madri dei corteggiatori, infatti, sono molto presenti e hanno un ruolo centrale nello svolgimento della narrazione e nella costruzione della parte più emotiva del format. Entrano nello schermo della rappresentazione portando con sé vecchie foto, raccontano il passato, le storie più dolorose, augurano un futuro d’ amore romantico, auspicano un matrimonio, sognano nipoti. Sono portatrici di memoria e custodi della tradizione, rappresentando la possibilità di un cambiamento rassicurante, di una trasformazione personale che non cambi le regole d’ intellegibilità sociale dei valori tradizionali e familisti. Ma il segno che qualcosa è cambiato nella società è proprio nella puntata finale, nel catartico bagno di folla partenopeo. L’ultima esterna prima della scelta si svolge proprio a Napoli tra mandolini, sfogliatelle, pastori e un panorama umano che nulla ha da invidiare ai personaggi dei presepi. La rappresentazione del centro storico è quella solita dello zoo umano in cui orde inseguono la bellissima coppia di stranieri, regalano dolci, corni benauguranti, formulano riti propiziatori. Tutto rigorosamente sottotitolato, anche quando è in italiano, a sottolineare come si tratti di qualcosa di incomprensibile, culturalmente diverso. La folla urla diverse volte “Claudio, Napoli ti ama”. Dunque anche il Meridione, che nella rappresentazione televisiva è ancora legato alla narrazione di una comunità barbarica presente sul suolo nazionale, irriducibilmente legata ai valori più retrivi, è ormai pronto al cambiamento: se la madre può cambiare, se Napoli può cambiare, tutto il mondo può cambiare.

Questa idea di cambiamento è però completamente epurata da qualunque progetto di trasformazione sociale, in cui le froce possano destabilizzare il paradigma delle mascolinità egemoniche, in cui altre intimità possano sfidare i valori della famiglia tradizionale, in cui la rappresentazione di altre sessualità non conformi possano fare esplodere i confini di disciplina dello spazio privato. Forse allora dovremmo collocarci proprio sul margine meridiano nella sfida al regime di visibilità omonormativo, per recuperare le storie di resistenza dei femminielli al fascismo e alla disciplina dei generi; dovremmo narrarci come queer terrone, praticare l’abiezione come un atto terrorista contro il modello progressista dell’Europa liberale, che cancella un passato di resistenza e tenta di riscrivere un futuro disciplinato da nuovi paradigmi di assimilazione; dovremmo resistere alla tentazione di spostare un po’ più in là l’asticella dell’accettabilità e distruggere qualunque tipo di confine, materiale e immateriale.

 

 

 

[1] Sedgwick Kosofsky, Eve. 1985. Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire. New York: Columbia University Press.

[2] Halberstam, Jack (Judith). 1998. Female Masculinity. Durham: Duke University Press.

[3] Butler, Judith. 2014. Fare e disfare il genere. Milano: Mimesis Edizioni.

[4] Duggan, Lisa. 1994. «Queering the State». Social Text 39 (39): 1–14.

———. 2004. The Twilight of Equality?: Neoliberalism, Cultural Politics,

and the Attack on Democracy. Boston, MA.

Puar, Jasbir K. 2007. Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times. Durham: Duke University Press.

Stryker, S. 2008. «Transgender History, Homonormativity, and Disciplinarity». Radical History Review

[5] Berlant, Lauren, e Michael Warner. 2007. «Sex in Public» 24 (2): 547– 566.

 

 

Amanda Knox oppure le molteplici verità della neo-televisione

Di chi è il documentario? Di chi è la verità? Chi è colpevole e chi vittima? Chi è protagonista di questa narrazione? In che rapporto è con la verità? E con il realismo? Questo film, il titolo, il trailer, tutto si posiziona nel punto di vista di Amanda. Dopo Guedé, dopo Sollecito, anche Knox utilizza la televisione come dispositivo di produzione di verità. Una verità non definitiva, ma sicuramente più vera di quella delle aule processuali e del primo clamore mediatico. Il realismo della televisione produce una verità che è universale ed assoluta, cioè assolutamente vera fino a quando un’altra non prende il sopravvento, che non ammette contraddizione all’interno della comunità che la condivide. In questo senso la televisione produce un regime di verità, ma anche comunità; allo stesso tempo le comunità producono la televisione stessa, rendendo reciproco questo lavoro di chi plasma e chi è plasmato. Guedé ha la sua verità, universale ed assoluta, condivisa dalla comunità di Leosiners, un pubblico un po’ più ampio, più giovane, più social di quello che solitamente guarda Rai3. Certamente un pubblico di italian* disponibili a cercare tra l’inopinabilità degli atti processuali la verità di un giovane nero condannato perché più sfigato degli altri coimputati. Sollecito ha la sua verità e la condivide con un altro pubblico di italiani, forse più di italiane, che stirano guardando la televisione il pomeriggio (l’espressione è di Barbara D’Urso in persona che continua ad invisibilizzare la mia presenza davanti allo schermo!). La verità di Knox, invece, non punta alla sua assoluzione, ma alla condanna di chiunque altr*, compresa me che guardo lo schermo. Questa verità è condivisa da un pubblico di cui è difficile tracciare un unico profilo, sicuramente non nazionale, ed è l’unica tra queste narrazioni che rimette al centro la vicenda nella sua prospettiva internazionale. La cosa che colpisce, infatti, è l’ipersessualizzazione della studentessa americana-dolce-vita (Foxy Knoxy) nell’Europa che la vuole carnefice ad ogni costo e la speculare vittimizzazione di cui ha goduto negli Stati Uniti. Il film mette al centro questa divergenza prendendosi una rivincita nel mettere in scena la grossolanità del sessismo del vecchio continente ricordando anche il ruolo dei media inglesi che rivolsero grande attenzione alla dimensione più scandalistica della vicenda. Per inciso, questa verità è oggetto di proprietà, da un lato dunque il punto di vista si trasforma in una proprietà: la verità DI Guedé, DI Sollecito, DI Knox, la verità DI quella e quell’altra comunità. Dall’altro lato una proprietà, che in quanto tale, ha un valore e può essere venduta come un bene. Guardando gli acquirenti è evidente quanto valga la verità di Guedé, quanto sia bravo a venderla Sollecito con libri e comparsate, mentre il film mostra quanto valga economicamente la verità di Amanda. In una delle sequenze interviene suo padre per aiutarla ad affrontare giornalisti e paparazzi che non le danno tregua. Gli “avventori” lo incalzano ricordandogli che col tempo qualunque dichiarazione della giovane varrà sempre meno; lui sembra non comprendere. Oggi l’introduzione di questa scena nel film prodotto e distribuito da Netflix ha il valore di uno sberleffo!

I titoli di giornali e tabloid passano sullo schermo riproponendo l’aggressività con cui viene caratterizzata la sessualità predatoria di Amanda, una sadica manipolatrice che avrebbe sacrificato la coinquilina inglese. Questa ricostruzione stride con il romanzo a tinte rosa confetto (come il suo golfino) con cui viene raccontata la tenera storia d’amore tra Amanda e Raffaele. Lei negli anni ha acquistato fascino e candore, lui sembra ringiovanito e molto meno macho rispetto al codino gelatinato di Domenica5: sfiora la sua chioma bionda più con imbarazzo che con vezzo, mentre esprime l’incredulità che la bella straniera possa aver guardato proprio lui, la speranza che possa baciarla davanti al panorama più bello e il finale felice di quella magica serata. Stacco. Colombi contro luce al tramonto che si scambiano effusioni formando un cuore. “Che americanata” chiosa mia madre. Due giovani teneri e scapestrati, che si fanno qualche cannetta per togliere l’imbarazzo e passare dalle letture alle coccoline, mentre altrove, nella villetta, si consuma il lugubre supplizio della giovane studentessa inglese. Perugia, tra gli sbandieratori, i colli e i panorami è il tropico italiano. In più momenti tornano delle immagini di scogliere, case bianche e mari blu. “Mamma arò sta stu mare a Perugia?” “No quello Sollecito è Pugliese”; quel mare crea un contrasto con lo specchio di piombo in cui Knox troverà pace. Le immagini inoltre restituiscono altro che non mi era mai stato raccontato e anche qui è taciuto: Meredith non era solo la mora contro la bionda era la mora inteso come soggetto razzializzato. Lo capisco guardando sua madre, ricostruisco ad intuito la biografia meticcia che non ha avuto parola in nessuna delle narrazioni della vicenda. Sollecito e Knox sin dal primo momento danno in pasto ai media, Patrick Lumumba, così come a rimanere in carcere, unico colpevole di un delitto che non conosce giustizia è Rudy Guedé. Mentre la negritudine è al centro della narrazione di chi accusa e difende Guedé, il mostro, rimane nel silenzio la trasparenza di Meredith, forse per non togliere candore ad entrambe le studentesse rimaste invischiate in una storia lussuriosa più grande di loro, in cui sono tutte vittime.

Ritorniamo all’inizio. Il documentario è il film di Amanda, sicuramente lei non è la colpevole, comunque non la sola, vittima di una vicenda mediatica, narratrice di questa verità. Poi ci sono i protagonisti della messa in scena Giuliano Mignini, aka l’investigatore, uomo di Dio, padre di famiglia, con la passione per Sherlok Holmes e Nick Pisa, aka il giornalista narcisista, ricostruisce la vicenda come un’enorme montatura mediatica, dipinge i tratti dell’esotico italiano dove la procura ci tiene a “fare bella figura”, i poliziotti pensano “caspita un giornalista si è rivolto a me” e ottenere uno scoop in questo modo è “fantastico come fare sesso”. Due archetipi del vecchio continente: la grossolanità e il pressappochismo tipico italiano, con cui sono state condotte le indagini; l’aggressività tipica dei tabloid inglesi, con cui è stata raccontata l’intera vicenda. Osservatori privilegiati del tempo, in carico dei documenti ufficiali, protagonisti della restituzione pubblica e mediatica dei “fatti”, ma anche gli unici attori del documentario che non si limitano a narrare, ma anche a recitare, rendendo confusi e diluiti i confini tra la fiction e la puntuale ricostruzione degli eventi. In questa cornice l’unica storia narrabile è la rivalità tra donne e l’intrigo sessuale, ciò dà appeal alla vicenda, il racconto che riscrive la verità. Così le prove circostanziali, i bacetti tra Knox e Sollecito, lo sguardo algido di Amanda, vengono narrate come le uniche prove a trascinarla sul banco d’accusa. Dopo che la giustizia è ristabilita, confondendo l’innocenza con l’insufficienza di prove, la drammaticità catartica della scena finale – in cui Amanda si allontana nel mare lasciandosi alle spalle la città e i brutti ricordi – diviene subito grottesca nei titoli finali: Knox si è laureata, Sollecito è opinionista televisivo, Mignini e Pisa hanno ottenuto un avanzamento di carriera… perfino Guedé ha ottenuto un permesso premio!

La verità di Amanda è una verità caratterizzata da un forte grado di entropia, in cui i dubbi servono più delle certezze per affermare una giustizia che in fin dei conti sembra premiare tutti. Ma soprattutto la verità di Amanda è la verità di Netflix, il potere di produzione e distribuzione di egemonia della narrazione, in cui i mezzi non servono solo a plasmare la verosimiglianza del racconto ma ad affermarla in comunità transnazionali, mobili che si raccolgono di volta in volta in modo fluido intorno a delle narrazioni piuttosto che nell’identità del pubblico di affezionati.