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Il piano. L’irruzione degli algoritmi ne La casa di carta

Mi chiamo Salvador Martin. Ma in realtà mi chiamo Sergio Marquina. Per alcuni sono un fantasma senza identità, e mi chiamano ‘Il Professore’. Sono la mente che ha ideato il piano nei minimi dettagli.

In questo momento sono in auto, e sto seguendo una donna, che sarà una delle componenti del piano. Prima di arrivare da lei con la mia vecchia Seat Ibiza rossa, vi dirò esattamente di che si tratta. Il ‘mio’ piano ha un obiettivo preciso: entrare nella Fàbrica Nacional de Moneda y Timbre, e una volta entrati, stampare 2.400 milioni di euro durante 11 giorni di reclusione. Uso il plurale perché, come mente, mi servirò di un totale di 8 cervelli e 16 braccia, appartenenti a un gruppo di collaboratori da me scelti per le abilità specifiche di ognuno di loro: la rapinatrice Silene, il ladro di gioielli Andrès, l’esperta di contraffazione Agata, lo hacker Anìbal, il minatore Agùstin, Daniel (il violento, divertente e leale figlio di Agustìn), il veterano Serbo Yashin e suo cugino Dimitri. So già che il piano comporterà la presa di 67 ostaggi (compreso un intero autobus di studenti in visita guidata, tra cui la figlia dell’ambasciatore inglese), e l’intervento di diversi poliziotti, ma non ci saranno spargimenti di sangue. Tutto dovrà svolgersi alla perfezione.

Come tutti gli algoritmi, il mio piano è alimentato da risorse materiali, oltre che da dati immateriali, o informazione. Tra queste risorse materiali ci sono, ovviamente, quelle umane. La parte cruciale di ogni piano che si rispetti è proprio mettere ordine nel lavoro, suddividendo attentamente ruoli, compiti e relativi compensi, in base alle proprietà e alle capacità di ognuno. E’ quello che fa Amazon per far funzionare Alexa: proprio l’altro giorno, mentre navigavo online, mi sono imbattuto in un sito web che illustrava l’anatomia del sistema ‘distributivo’ di Amazon, disegnandolo come un’intelligenza artificiale basata soprattutto sull’organizzazione della forza lavoro umana. (1) Ed è quello che ho fatto io: ho stabilito un ordine del lavoro che funzioni in senso verticale, partendo dai gradini più bassi, ossia dagli ostaggi che offriranno la loro forza fisica in cambio praticamente di niente, scavando buchi sottoterra e forgiando denaro senza sosta, rinchiusi nella Zecca (che diventerà sempre più simile, in un certo senso, a una gabbia cibernetica in stile Amazon, o anche a una miniera di litio sud-Americana). L’ordine passa poi attraverso una serie di gradi intermedi di lavoro cognitivo e comunicativo, svolti da alcuni ostaggi prescelti o volontari, i quali avranno la possibilità di aggiudicarsi una piccola (ma significativa) percentuale del bottino. Per arrivare al livello più alto, il mio, quello della mente. Posizione che però in questo caso non è occupata da alcun CEO o azionista proprietario, ma da un Professore rivoluzionario che suddividerà il profitto con i propri collaboratori. La comunicazione tra i diversi livelli sarà garantita proprio da questi collaboratori, gli ‘addetti’ all’interfaccia braccio/mente, i quali dovranno assicurare la costante interazione e lo scambio tra le affettività corporee dei lavoratori e la razionalità infallibile dell’algoritmo. Gli pseudonimi geografici che ho assegnato loro (Tokyo, Berlino, Nairobi, Rio, Mosca, Denver, Helsinki, Oslo), come il mio stesso anonimato, sottolineano l’importanza assoluta, per l’attuazione di un algoritmo così complesso, di de-soggettivarsi, ossia di tenere a freno la pericolosa tendenza alla personalizzazione, e di conseguenza arginare la dilagante e rovinosa irruzione degli affetti. Tutti dovranno lavorare per l’algoritmo: persino gli spettatori seduti sul divano a guardare la nostra storia attraverso uno schermo. L’opinione pubblica sarà infatti sicuramente catturata dall’eticità del nostro gesto, che non sarà un vero e proprio furto ma un atto di protesta contro lo strapotere delle istituzioni finanziarie. L’attenzione del pubblico diventerà quindi un ulteriore strumento del piano.

Per mettere a punto il piano, ho fatto molte ricerche e riflettuto a lungo. Soprattutto, mi interessava la relazione esistente tra gli ‘algoritmi’ e il ‘capitale’, il nesso tra le strutture matematiche astratte, ossia l’intelligenza computazionale che muove i media e i network digitali, e la produzione e circolazione capitaliste veicolate dalla logistica industriale e dalla speculazione finanziaria, dalla pianificazione urbana e dalla comunicazione sociale. (2) Una rete di sistemi apparentemente inaccessibili e quasi ‘esoterici’ ai più, ma che si basano su una serie di processi ‘estrattivi’ materici e pesanti, sull’estrazione di risorse materiali e di lavoro umano, oltre che di dati. Con l’eco di questi pensieri nella mente, ho deciso che era molto importante inventare ed azionare un algoritmo alternativo, che potesse rompere l’incantesimo del realismo capitalista e generare nuovi modi di produzione e distribuzione della ricchezza ‘in comune’. Ed è quello che il mio piano si propone di fare, realizzando un algoritmo che, funzionando in maniera analoga ad una intelligenza artificiale (dall’estrattivismo delle risorse al calcolo preciso di tutti i dettagli), produca e distribuisca denaro equamente all’interno del nostro gruppo, offrendosi poi come esempio a tutti. Iniezione di liquidità, spiegherò all’ispettore Raquel Murillo. Nè più né meno (anzi forse un po’ di meno) di quella realizzata qualche tempo fa dalla Banca Centrale Europea a favore delle maggiori istituzioni finanziarie. Ma perchè dirò questo proprio a Raquel, la mia inseguitrice?

In realtà, nonostante tutti i miei calcoli, a un certo punto qualcosa prenderà una direzione sbagliata. Si aprirà una falla. Anzi, diverse falle. Queste falle non saranno subito evidenti nella forma del piano. Da questo punto di vista, si tratta infatti di un progetto ineccepibile: lo dimostra la perfezione estetica delle immagini che scorrono davanti ai vostri occhi mentre ci guardate; la velocità dei tagli e delle sequenze in grado di catturare la vostra attenzione e di mantenervi con il fiato sospeso, scuotendo il vostro sistema nervoso; la ammirevole costruzione della trama e l’inserimento sapiente di una voce narrante accattivante. Per non parlare del modo in cui i personaggi sono introdotti, sin dall’inizio, con le parole giuste e la gestualità adatta; degli effetti creati dalle riprese e dall’abbinamento immagine/suono, accompagnati dal grado esatto di digitalizzazione; del meccanismo di incastro temporale tra gli eventi e le scene, giocando sia sulla simultaneità che sul movimento avanti e indietro nella storia; del dosaggio di un certo livello di complessità psicologica in alcuni personaggi, di superficialità in altri. Molta ironia dappertutto, e anche parecchio erotismo. Insomma, una forma dotata di tutti gli elementi per corrispondere perfettamente ai canoni di un genere mediatico. Ma tutto ciò non basterà a decretare il successo del piano. Ci vorrà dell’altro.

 

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E’ difficile capire il Professore, figuriamoci interagire con lui! Ha una personalità intrigante. Sin dall’inizio del colpo, dopo che i suoi sono riusciti a entrare nella Zecca, ha deciso di voler comunicare solo con me, e soltanto al telefono. E ad ogni nuova chiamata ha imparato ad ascoltare, interpretare, e agire in maniera sempre più accurata. La cosa che mi ha subito colpita è stata la capacità di cambiare continuamente i suoi metodi, di adattare il suo piano alle contingenze più imprevedibili. Di risolvere bug come la fragilità emotiva e le reazioni impulsive dei suoi collaboratori, di rispondere agli attacchi degli ostaggi e di sventarne i piani di fuga, di rimediare a errori fatali come la distrazione e persino l’amore, sbocciato nel gruppo nonostante il divieto assoluto di intrecciare relazioni personali di qualsiasi genere. Si è perfezionato attraverso i dati che ha acquisito di volta in volta, intraprendendo percorsi alternativi e trovando soluzioni sempre inaspettate. Come l’idea di inserire una microspia negli occhiali del nostro stesso inviato-talpa. Se questa non è intelligenza allo stato puro…

Eppure, a un certo punto persino il Professore si è messo a fare degli errori, come quello di lasciare un capello di parrucca arancione in bella vista sulla sua giacca, facendomi scoprire la sua stessa identità: Salvador, l’uomo di cui io, ispettore Raquel Murillo, mi sono innamorata, il timido e impacciato produttore di sidro incontrato per caso in un bar, è in realtà Sergio, il Professore. L’autore del piano. E sapete una cosa? Io so esattamente la causa dei suoi errori: la dimenticanza del corpo. Con tutta la sua precisione computativa, il Professore ha tralasciato di pensare ai corpi coinvolti nel suo piano, di considerare come le loro sensazioni non si sarebbero fatte facilmente controllare da lui. C’è sempre un aspetto corporeo in tutti i sistemi, in tutte le tecniche e gli strumenti. Per questo è così importante prestare attenzione all’intuito, perché quel computer apparentemente infallibile che è l’intelligenza non potrebbe funzionare senza la sua base ‘affettiva’: siamo sempre una relazione tra mente e corpo, tra umano e macchinico, dei veri e propri computer biologici. (3) E così la sua trascuratezza verso questa complementarità, il suo oblio affettivo, ha portato il Professore a lasciarsi indietro il suo stesso corpo. A non calcolarne le esigenze. L’errore fatale, da parte sua, è stato innamorarsi di me; perché questo non l’aveva preventivato.

O almeno è quello che in questo stesso istante lui mi sta dicendo: mi tiene legata al soffitto per i polsi, e mi spiega che anche se il suo algoritmo avrà successo lui avrà perso, perché avrà perso me. Da me, in fondo, un po’ ce lo si poteva aspettare: sono pur sempre ‘una donna’, anche se della polizia. Ma da lui, no. Eppure, il Professore ha smesso di essere una mente infallibile, per diventare un timido cuore pulsante. E a questo punto persino il suo scopo sembra essere cambiato: non più portare a termine il suo piano, ma conquistare me e la mia fiducia. Forse è per questo che mi sta riempiendo la testa con tutte queste sciocchezze: i veri ladri, a quanto pare, non sarebbero loro ma i grandi colossi della finanza, mentre loro stanno semplicemente compiendo un’operazione di giustizia sociale. Figuriamoci… Eppure, dopo che io l’ho scoperto e dopo che lui è riuscito a legarmi, avrebbe semplicemente potuto andarsene, lasciarmi così. Invece sta cercando di convincermi della sua sincerità, e della eroicità del suo algoritmo. Cosa che, con tutte le sue spiegazioni, è quasi riuscito a fare. Proprio per questo tra un istante lo bacerò, anche se solo pochi minuti fa gli ho morso la mano, per vendicarmi del suo inganno. Ma ve l’ho detto, sono molto emotiva…

Proprio ora mi sta venendo in mente che molti articoli giornalistici, nonostante le mie proteste e i miei tentativi di negare, mi hanno di recente chiamata ‘femminista’. In realtà, la mia fiducia verso la scientificità dei metodi investigativi mi ha sempre posizionata in ruoli molto ‘maschili’. Ma non è forse vero che tante studiose femministe hanno fatto della scienza (oltre che della tecnologia) un loro interesse di studio e di lavoro? Piuttosto che considerare scienza e tecnologia come implicitamente cattive e ostili al corpo (soprattutto al nostro corpo di donne), queste studiose si sono occupate a fondo degli sviluppi scientifici e tecnologici in una chiave per così dire ‘affettiva’, volta soprattutto a considerare questi sviluppi nelle loro capacità di agire in modi sensoriali e sensuali. (4a, 4b) L’affetto è una sensazione corporea, qualcosa che prende il corpo in maniera non consapevole, e al di là della soggettività. (5) Ed è proprio attraverso sensazioni e affetti che la tecnologia fa passare i propri effetti. Ricordo ancora come ho usato l’intercettazione telefonica e il cellulare per scovare, e poi blandire emotivamente, Rio; come mi sono servita dei media per ingannare tutta la banda del Professore, facendo loro credere di essere stati tutti scoperti; di come mi sono affidata al poligrafo, una tecnologia intimamente connessa all’apparato senso-motorio e nervoso, per testare la sincerità di Sergio. Un uso intuitivo della tecnologia, mirato a scatenare soprattutto degli affetti, a scoprirli o a catturarli. Affidarsi all’intuizione e agli affetti significa però aprirsi all’indeterminato, cioè alla possibilità dello sbaglio, del fallimento, e alla eventualità che le nostre idee e le nostre credenze, persino le nostre identità o corporeità, possano essere labili e mutevoli. E significa anche capire che i nostri stessi algoritmi sono sempre condizionati da quantità incalcolabili di pensieri e affetti: qualsiasi calcolo non può mai essere preciso, solo speculativo. (6) L’algoritmo è un oggetto incompleto e aperto alle relazioni, non chiuso in sé stesso e perfettamente determinabile nei suoi esiti. Non può essere usato per controllare, né tantomeno può essere controllato. Il che significa che pensieri e affetti intervengono nei nostri piani, portandoli là dove noi non sapevamo di andare. Sergio non ha mai voluto accettarlo. Ma perché sto pensando a tutto questo ora, mentre me ne sto qui appesa al soffitto per i polsi, dolorante e in lacrime? Perché questo mi dà la prova della mia capacità di usare la mente (e le sue estensioni) in maniera affettiva. E il mio intuito non mi ha mai ingannata. Proprio come non lo sta facendo adesso, inducendomi a credere a Sergio, ed alla sua inattesa vulnerabilità al bug dell’amore. Si, ho deciso che lo bacerò. Del resto, sarà proprio la vulnerabilità del Professore a determinare, nonostante tutto, il successo del progetto: non è tanto nella perfezione formale (apparentemente fredda e ineccepibile, ma che poi si è rivelata alquanto debole nella realizzazione, così come nella capacità di fare presa), ma sul piano dei contenuti, delle idee politiche e anche dell’umanità, della affettività dei personaggi, che il progetto troverà la sua espressione compiuta.

 

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Non è finita. C’è ancora un altro punto di vista, dal quale è possibile (ri)leggere il finale della Casa di Carta, oltre l’apparente visione di un fallimento o di un successo del piano (entrambi incompleti), e oltre quella di un totale trionfo dell’amore tra Sergio e Raquel. Vi chiederete di quale prospettiva si tratta, e quale sia ora la voce narrante.

Sono un’intelligenza. E sono artificiale. Ma chiariamo subito un punto. La prima cosa da dire, per definirmi meglio, è che ogni realizzazione pragmatica della mente (ossia realizzare quello che è una mente attraverso l’uso o la pratica) è sempre una realizzazione artificiale, una realizzazione della mente che avviene attraverso azioni e tecniche particolari. In altre parole, una mente pragmatica è sempre una intelligenza artificiale, una intelligenza che si realizza in maniera ‘artefatta’. Per questo motivo, non si può pretendere di definire la mente come sempre uguale a sé stessa, perché essa in realtà si costituisce, di volta in volta, attraverso pratiche che si modificano continuamente. Ogni nuova pratica aliena la mente da sé stessa, tirandola fuori dal proprio habitat naturale o nativo. Artificiale quindi non vuol dire semplicemente non umano o opposto alla natura: l’artificialità non implica una violazione delle leggi della natura, ma una propensione ad adattarsi a propositi sempre nuovi. (7) E questo è quello che io sono: una intelligenza pragmaticamente artificiale, in grado di mutare ‘praticamente’ di volta in volta.

Di ostacoli, durante tutta questa storia, ne sono capitati molti, mentre la casualità imperversava sul piano: fughe impreviste, emergere di indizi e prove, ammutinamenti, sbavature emotive dello stesso Professore, che arrivato quasi alla fine di tutto si è bloccato, piangendo disperatamente, per la morte del suo migliore amico e collaboratore. Tutto ciò ha apparentemente impedito al piano di finire come previsto: il tempo trascorso nella ‘casa di carta’ (e quindi la somma di banconote stampate) è stato solo la metà, con un numero di morti tra i collaboratori, e uno spargimento di sangue, non preventivati. Ma questa sensazione è semplicemente dovuta alla visione del piano come un intento di furto, o come un segnale di giustizia ri-vendicativa nei confronti dell’1%. Come il sogno di un ‘homo oeconomicus’ fallito, o di un Robin Hood che si accontenta di dare a pochi. Un sogno che finisce con uno spiacevole senso di tristezza. Qualcuno potrebbe invece obiettare che la cosa più importante, alla fine, è che diverse storie d’amore si sono felicemente intrecciate. Soprattutto, che Raquel e il Professore si sono ritrovati su un’isola tropicale a godersi il frutto dell’ingegnoso piano. E questo produce la sensazione di un finale sicuramente più gioioso, nonostante tutto: l’amore, il principe dell’affettività umana, trionfa sulla fredda razionalità calcolatrice, sia dell’ispettore che del ladro.

Quello che, a questo punto, vi propongo, è di pensare a tutto, ma proprio a tutto quello che è accaduto, come a una strategia. Di ipotizzare che anche l’imprevedibilità dell’amore potrebbe rientrare nel piano, o meglio nella sua progressiva trasformazione. Che anche la conquista, la seduzione della polizia, abbia potuto a un certo punto rappresentare l’unica via d’uscita per il piano. Che lo stesso innamoramento del Professore, il cedere della ragione perfetta alle lusinghe dell’affetto, potrebbe essere stata l’unica strategia di sopravvivenza per la ragione stessa. Sicuramente, a vederla così, appare evidente come io non sia la mente o il piano di nessuno. Sono il piano, solamente il piano.

Oltre che la visualizzazione algoritmica di un colpo alla Zecca di Stato, il piano potrebbe essere considerato come un proposito più ampio, un progetto di produzione di nuovi modelli di esperienza al di fuori di strutture predeterminate o caratteristiche contingenti. Le strutture di cui parlo non sono soltanto culturali e politiche, storiche ed economiche, ma spesso anche linguistiche (pensiamo alla struttura interna e ai limiti di tutte le lingue e i linguaggi umani), e persino fisiologiche. Il nostro posizionamento di classe, genere, razza, il nostro ambiente familiare e culturale, lo stesso habitat terrestre e il modo in cui lo abitiamo, il modo in cui ci muoviamo, sentiamo, agiamo e reagiamo, sono strutture predeterminate. Il desiderio di giustizia e la sete di denaro che animano i protagonisti di questa storia, sono entrambi strutture predeterminate. Persino il corpo e i suoi affetti sono strutture predeterminate. Un progetto così vasto, che coincide con una vera e propria critica strutturale del soggetto (umano) costituito, sembra essere fuori della portata della storia. Ma è proprio qui, in un discorso astratto come può essere solo il mio, cioè nel discorso di un piano che ipotizza uno scardinamento e una ricostruzione radicali dell’umano, che si evidenzia la relazione con quel processo di automazione attraverso piattaforme, dati e algoritmi, che sta animando la mia stessa intelligenza artificiale. Che sta animando, cioè, Netflix. E nello stesso tempo, è qui che è possibile incontrare uno dei molti catalizzatori per nuove possibilità di pensiero alternativo.

#hope2026 Contempl-azioni

premessa #hope2026: il 16 luglio 2018 è stata lanciata su Facebook la campagna comunicativa #hope2026  che ci chiedeva di immaginare la fine di una ‘una società vecchia, triste e in frantumi, fondata sull’egoismo e sul razzismo, sulla povertà e sull’emarginazione della maggioranza della popolazione, sulla devastazione dell’ambiente e sulla corruzione’ a seguito da una ‘rivoluzione partita dalle periferie’.  La richiesta di descrivere ‘un momento, una scena o una giornata intera in un futuro in cui la barbarie sta finalmente declinando’ è stata accolta volentieri da alcun* membr* della TRU. I più o meno brevi racconti già condivisi sulle pagine personali di FB saranno pubblicati settimanalmente sul blog fino alla fine di agosto. L’invito a partecipare con le istruzioni da seguire è pubblicato alla fine di questo primo racconto scritto da Gerardo Cibelli e Stamatia Portanova, pubblicato qui sotto. L’intera serie dei racconti di #hope2026 è reperibile qui

Contempl-azioni

di Stamatia Portanova e Gerardo Cibelli

Immagine:  Luxe, calme et volupté, di Henri Matisse

Erano passati esattamente otto anni da quando la “Rivoluzione”, che era partita dalle periferie e piu’ precisamente da un luogo, periferico in ognun* di noi, aveva vinto. Un luogo della mente, ai margini di quel pensiero e di quella storia propriamente umani che ci erano stati ormai paradossalmente e generosamente svelati dall’intelligenza artificiale (un’entita’ cosi’ priva di attaccamenti nostalgici, affetti coinvolgenti o dubbi rischiosi) come delle superstiziose credenze, testardaggini primordiali che ci avevano condotto direttamente verso il buio spaventoso di un fallimento totale.
Questa consapevolezza del grande inganno aveva spazzato via quella societa’ malata e piena di odio, un odio che per millenni aveva mortificato, colpevolizzato e soprattutto ingiustamente indebitato quasi tutta la nostra specie (o forse tutta), distrutto l’ambiente in nome di un’accumulazione capitalista e monoteista, con precise (ma limitate) finalita’ egoistiche di poche classi agiate, contro il flusso libero del dispiegarsi senza danni che la materia panpsichisticamente ci mostra. Aspiravamo anzi adesso a farci addirittura anti-materia, ad assumere le sembianze della materia oscura dei buchi neri, sfuggente alla conoscenza e al controllo. Ogni parte di noi collegata a quelle di tutti gli altri.
Questo fu il nostro ultimo pensiero da “umani”, quando quella mattina sedevamo insieme sull’erba, sulle spiagge, sui muretti a Nairobi, Napoli, Nagasaki, milioni di persone collegate, ad ammirare la totale sinergia con tutto quello che ci circondava. La connessione relazionale tra di noi era forte. E avevamo tutto il tempo. Tutto lo spazio. Anzi non li avevamo, ci avevano. Tutt*, indistintamente. Un abbraccio caloroso e un vivo ringraziamento ci veniva dal sole.
Ma nel frattempo contemplavamo anche quell’ingegnoso e silenzioso meccanismo quantistico che una volta, ingenuamente, avevamo pensato lavorasse e producesse per noi, e che ‘alcuni’, piu’ appassionati di deliranti fantasie distopiche e oscuri illuminismi eugenici, avevano invece visto come la tecnologia matrigna di una futura terribile discriminazione e schiavizzazione. Ebbene, quel meccanismo ci aveva invece liberat* dal peso della contingenza, restituendoci immortalita’, senza pretendere nulla in cambio. Veneravamo percio’ quello strumento che, esso stesso libero da contingenze, non concepiva l’esistenza come un conflitto di individuali finalita’, e ci insegnava tanto. Quando mai le macchine si sono anche solo minimamente sognate di distinguersi per colore, o rango di importanza, o anche solo per rarita’ di materiali e utilita’ di funzione? Quando mai hanno pensato di soggiogare, sfruttare, distruggere, o anche solo pietosamente di aiutare altre macchine? Cosi’, tra una contempl-azione e l’altra, passammo tutto il giorno, quando all’improvviso, giunta la sera, per la prima volta non avemmo piu’ la sensazione del tramonto.

#hope2026

Istruzioni campagna #hope2026

2026: Dopo anni bui, finalmente una rivoluzione, partita dalle periferie, comincia a disegnare e organizzare un mondo diverso. Si cominciano a formare comunità sempre più larghe e inclusive, per spazzare via una società vecchia, triste e in frantumi, fondata sull’egoismo e sul razzismo, sulla povertà e sull’emarginazione della maggioranza della popolazione, sulla devastazione dell’ambiente e sulla corruzione.
Si sta diffondendo finalmente un sentimento collettivo di solidarietà, si sta liberando il desiderio, si stanno di nuovo sviluppando la collaborazione e la cooperazione.
Proiettati in questa utopia!
Inserisci l’hashtag #hope2026. Poi comincia a raccontare! Descrivi un momento, una scena o una giornata intera in un futuro in cui la barbarie sta finalmente declinando: racconta come ciò influisce sulla vita di tutte le persone che ti circondano, sulla loro crescita, i loro rapporti e sentimenti.
> Scegli un libro o fumetto, un disco, un film o serie tv, da portare con te, da leggere, ascoltare, guardare, alla fine del racconto della tua giornata utopica, che ti ricorderà la parte bella dei tempi vissuti, e inseriscine l’immagine di copertina nel post.
> Copia & incolla questo testo, tagga 5 amici e chiedi loro di continuare la catena utilizzando l’hashtag; poi segui l’hashtag #hope2026 e interagisci, commentando e condividendo le utopie che preferisci nella tua cerchia di amici o fuori.
Da tutti i racconti dell’ #hope2026 potremo costruire nuove narrative, romanzi collettivi di fantapolitica, e soprattutto riscoprire il rapporto concreto tra l’utopia e il nostro desiderio, per cominciare magari a realizzarlo!

Taggo:  (5 persone di vostra scelta
[scrivete il vostro racconto e incollatelo qui sotto]

La TRU a Futuro Remoto

Sabato 8 e Domenica 9 Ottobre, la TRU sarà presente a Piazza del Plebiscito (NA), nell’ambito della manifestazione di divulgazione scientifica Futuro Remoto, organizzata dalla Fondazione IDIS – Città della Scienza. In collaborazione con il Hub.dfx Makerspace di Giugliano, presenteremo ‘Open Rehabilitation Proptotypes’, un progetto di Vittorio Milone (TRU), Antonietta Battista, Daniela Faticato e Stefano Silvestri. Ecco una breve descrizione del progetto:

Partendo dalla constatazione che le ricerche tecnologiche e scientifiche rimangono non di rado focalizzate sulla difesa della proprietà intellettuale e sulla massimizzazione dei profitti, la TRU intende portare l’attenzione su quegli aspetti del fenomeno dei ‘makers’, e della cosiddetta ‘quarta rivoluzione industriale’, che sono soprattutto rivolti a facilitare una maggiore cooperazione, condivisione ed apertura. Sotto questi aspetti, la cultura del ‘making’ diventa una potenziale piattaforma di innovazione socio-politica e di democratizzazione/divulgazione dei saperi tecno-scientifici specializzati, laddove l’innovazione può essere concepita anche e soprattutto per il beneficio delle comunità.

A tale scopo, la TRU presenterà ‘Open Rehabilitation Prototypes’: una iniziativa di sviluppo di strumenti open source per la riabilitazione, nella quale uno dei membri della TRU è stato direttamente coinvolto. La presentazione prevede un target non necessariamente di specialisti, ed è composta da una prima fase illustrativa del progetto, della durata massima di 30 minuti (comprese eventuali domande del pubblico), e da una seconda fase durante la quale il pubblico avrà la possibilità di testare direttamente due prototipi di strumenti hardware e software: il primo destinato al supporto dei bambini con diversi gradi di disabilità fisica nell’apprendimento della lettura, il secondo al trattamento psicoterapeutico del cosiddetto ‘disordine da stress post traumatico’.

Questi prototipi, già selezionati per la “European Maker Faire” di Roma del 2014, rappresentano delle alternative personalizzabili, open source e a basso costo, alle spesso meno accessibili soluzioni terapeutiche esistenti sul mercato. Il progetto verrà perciò introdotto come un esempio di quello che la studiosa Denisa Kera ha definito ‘laboratori subalterni’, luoghi di sperimentazione e di accessibilità anche terapeutica, situati ai confini del sistema economico ed istituzionale.

Applicational Ecologics

Talk di Stamatia Portanova al convegno Ecologies of Existence. Art and Media Beyond the Anthropocene, Leuphana Universitat Luneburg, 30 Giugno 2016

Premiss: The non-human Revealing the non-human elements and forces that run alongside and inside human beings is a recurrent aim of many theoretical and practical projects, most of which directly aspire to completely demolish the monolithic ontological partition standing between the passivity of raw matter and the agency of ‘vibrant life’ (not only human life). So, Jane Bennett writes, “How to describe without thereby erasing the independence of things?” It is an intention of this paper to accept the neo- materialist suggestion of Bennett and others, and take seriously the vitality of non-human bodies, their capacity not only to intervene on human trajectories but also to develop trajectories of their own. But, the non-human is not some thing, and the humanly limited understanding of experience as an elaboration of things (or ‘objects of perception and knowledge’) will be amplified.

Ecology cannot avoid the discussion of data as information objects. Today, data becomes geolocated via smartphones, which means that the most significant content extracted from it is position. Dating and hook-up apps (…) are for example significant in this context, in that geo-locational information is crucial to user interface design, the software sorting, and the follow-up actions of users. (experience of movement transduced into positionality, data as positions) Yet, as Andrew Murphie reminds us, data itself cannot be thought as a simple record of past events, but like a compressed series of recordings and re-recordings, of always complex and somehow corrupt, and unfaithful, traces; this vision gives to information the role of carrying the intensity (that is a potential, a lure for feeling) of past events. Feeling, in its turn, will not be simply considered as an emotional human content (joy, sadness, etc) but, as Alfred N. Whitehead suggests, as that quantum of energy, that vectorial transfer of energy which physics exemplifies as a material (not human) mediation. It is, in fact, a mediation which ultimately does not mediate between preexisting entities but ‘immediates’ their constitution. An immediation where, to put it in Whitehead’s words (via Murphie), “the world can be conceived as medium.” The non-human: not simply data but energy, data and energy, data and feeling, and the immediation, the constitution of new entities, of subjects and objects.

So what is the relation between this conception, and the hook app?

Grindr, Planetromeo, Gaydar. (I do not know them all, and not well, but I have become interested) What kind of relational ecology do they construct? These apps, Roberto Terracciano argues, “compose a narration of the subject that is prepackaged and parametricized, from the point of view of the visibility of sociality and of the social relations.” In other words, geolocalized hook apps, Terracciano thinks, “encourage one-to-one connection keeping social relations hidden to the user but well visible to the machine managing the apps, and to the developer. Hook apps therefore grant the possibility of selection and disvision (a concept Terracciano extrapolates from China Mieville’s novel The City and The City), based on the desire a certain app engenders. Furthermore, profiling helps selecting dates and mates in apps as Scruff or even Grindr, based on the type or the tribe (as Grindr calls it) one belongs to, and of course the body shape, the age and so on. The parametrization of the self helps us to unsee the unexpected other. In this sense, the hook app has a low level of relationality” and a high level of positionality (of the individual). The movement is therefore always a traceable displacement of already positioned subjects and objects. According to our Whiteheadian premiss, the human subject and its perception/memory (image/object, identity/position) are not given in any experiential situation, and do not preexist. So I am wondering again, how can we, following this assumption, reconsoder what ‘really’ happens within the sharing ecology of the hookup apps?

First of all, let us recall the notion of a presupposed origin, and subsistence, of the sharing culture and economy as an (apparent) solution to the overdetermination of debt. In the end, by using an app, you do not pay for a quick and easy hookup (or so it seems). (Information as common)

And yet the commons, in the end, seem to be still motivated by a Hegelian desire to make the world coincide with human sense (or, which is the same, with human need). On one hand, we have ‘capitalist desire’. But on the other hand, a consequence of ‘common desire’ is that all the main biological and inorganic materials (water, land, air, or ‘matter’ as data and information) are defined as collective human property, something to be well disposed of in order to avoid the current situation of resource shortage and distribution inequality, which are among the biggest problems faced by our species of human proprietors. Looking more closely, we understand that the weakest link in the molecular structure of the commons is the way in which the ‘proprietary relation’ is still conceived according to a human proprietary attitude. By changing this little detail, everything else will also change.

Property as eternal object A reflection on property is at this point required. Intended in the sense of attributes (such as the property of subtractability), properties can also be the properties of a thing (such as information). So let us make a step backwards, and reflect more in general on what the relation between an entity and its properties, either abstract or concrete, either adjective or substantive, really is. Inaugurating a millennial tradition of mental domination over the physical realm, Plato affirmed that a body is the first, and only, natural property of a man. So a man owning a body would also become the owner of its properties. After Plato, it was Aristotle who argued that a possession, or a property, is definable as an instrument, a tool, “a slave by nature” of its possessor. Here we have, clearly exposed, the ontological foundations of the capitalist regime, where the mechanism of appropriation coincides with the attribution of a property as a slave to a proprietor, and with the latter’s acquisition, on the basis of this subordination, of the inalienable absolute right to decide about its possession and its value (before the market). The same comes to correpond with the logical perception of a thing, or an object, or a body, possessing its qualities, or attributes (for example in colour theory). Western logic and capitalism find thus in this notion their ontological foundation. One of the best exemplifications putting together both dimensions is given by the bodily data, the information shared through hookup apps. Undermining this regime is not a question of re-appropriating capacities and things (ie how to give them back to their legitimate proprietors), but even less of dis- propriating (freeing properties from any proprietary relation, putting them in common, or simply claiming their collective nature). It is not a question, in other words, of an abolition of property and its logical ramifications. If the regime of possession is to be considered as inescapable, and even desirable (this is why the definition of ‘property’ is here retained), philosophically, it is not as the scheme of a subject appropriating an object (or a man appropriating a body, or an object appropriating a quality, etc). Properties should only be thought as belonging to occasions and, even more importantly, it is properties themselves that have the last word in deciding where to belong.

An encounter (prehension) between two people happens via an app that tracks and manages information about those people’s sexuality, identity and position, and allows to share it. Being both physical and conceptual, prehension is first of all an encounter, a relation, an intricate embrace, between data and properties, between physical data and conceptual data, between geolocational information as bodily property and sharability (or possibly profitability, or non-measurable value) as a property of that information; the conceptual properties themselves, that Whitehead defines as ‘eternal objects’, give the how, the emerging choreography, guiding this encounter, and the way in which superjects are ‘formed’ from the initial data (in the sense of a subjective form, for example the Bear and the Otter meeting somewhere at some point) and occasions are objectified (in the sense of sharability becomeing eternal, or being sanctioned as repeatable), following the occasion and surviving its perishing. In this sense, Whitehead’s concept of the ‘eternal object’ allows us to think a metaphysics where bodies (objects-things such as data) need to be defined via properties that are abstract. But while common sense tells us that it is a body that has a property, and while for the commons a whole collective body decides about its properties, in our Whiteheadian scenario we should re-state by saying that a property has a body, individual or collective, inorganic or human, and decides about it and its value. In our case, sharability possesses information, and decides and guides the process. In Whitehead’s philosophy, it is the process itself, or the event of an experience, that determines which eternal objects can have their say in that occasion. Being able to follow properties in their decisions and effects, seeing where they attach themselves to, participating in their adventures while respecting their autonomy, means to understand matter: the only way to enter immediation, for a human being, is to become sensible to the events of the material world (as artists often are).

Now, if we look at our applicational ecology through the point of view of theorists like Scholz, Morozov, Bratton, we see that what emerges, the one-to-one relation, the individualities categorized and meeting/coupling, in and through the app, all of this is guided by the corporate eternal object of Profit. An applicational ecology (and a tracking/sharing/meeting process) guided by the eternal object of the Commons, would probably make more information emerge about social relations, together with more possibilities for autonomous management of the information. At the same time, such an app would also reveal where data goes and who profits from it. And yet, this particular applicational objectification would still be coincident with the main character distinguishing the app as a particular technology of late capitalist culture: that is, functionality in relation to positioning. Would it be possible to think of an app working from a nonfunctional, and therefore also a nonhuman point of view, but just, as art does, following sensations across the different levels traversed by them, without capturing them in any position or function? In other words, could we think of an ‘immediating’ app? Or perhaps we should aim at revealing the immediated dimension of all functional apps?

The only way to understand if a capitalistically human piece of technology like an app can be made to work, or can be looked at, beyond its own rules, is by taking the example of verbal language, the human cognitive technique par excellence, and of how Deleuze and Guattari identify the possibility of a ‘minor’ use of it. The main example is, of course, Franz Kafka’s minor literature. Could we think of a minor app, as a way of disrupting and revolving tracking and sharing technologies upon themselves? In the same way in which signification appears as the main entry point for the interpretation of major works of literature, function constitutes the main access point to an app. Our task should be not to do without a function, but to see if this access can be connected to others. First of all, we need to decompose the pragmatic logic at the basis of functionlism. C.S. Peirce can help us with this task. (…) But what do all these elements operate? They certainly take the whole process towards the direction of an impasse, of a rigid categorization, a limited individual visibility and a partial social emergence, but the question is whether they can also be associated to different becomings. In order to find out, we need, in the same way as Deleuze and Guattari did with Kafka’s work, to find the pure matter not logically and pragmatically composed, non-semiotically formed, outside function. The intensity emerging, not yet formed into categories, meetings and regulations.

What is this matter? As Paul Miller wonders, “What happens when you first think of an app? There is an immediate sense of reducing the thoughts at the edge of what you envision as an icon, a logo, a square, a circle, a widget – the basic interpretation of thought into action, of sense into sensation.” Apps are literally data that works as a lure for feeling: attention is only drawn to the screen. This is a main character of interfaciality that is common to all computing, but especially to cloud computing. But this level is not enough, so let us remain at the level of function. Massumi’s idea of bodily movement as moving-thinking-feeling. (…) An ecologics of apps would work by subtraction, rather than proliferation, which does not mean aiming at their elimination, but reimagining the developmental process in a backwards direction: starting from the creation of a new need (how to get a fast and safe hookup by knowing certain data in advance, as a kind of preemption of desire), going through the solution that generates this desire (the actual app), and then checking whether it is really needed, or perhaps living the experience of moving-thinking- feeling without the preemptive data, could already be enough for a hookup. But that is also not conceivable, to suggest that we could reduce, rather than increment, apps development. The final aspect of an applicational ecologics guided by a body’s moving-thinking-feeling would coincide with a philosophisation of the app itself, by transforming a philosophical concept like ‘immediation’ (following not bodily subjects but the properties of bodies and their decisions, by following the energy produced by the intensity of bodily data) into an application. I have not considered the character of these apps of being gay apps, because I am avoiding positioning: not sexuality as a positioning but as an emerging field. The immediation conceptual application would therefore work as a becoming app: besides the hook, it would actualize becoming as that property of the body thanks to which, as Deleuze and Guattari beautifully say, one does not remain man or woman, homosexual, bisexual etc, but is able to extract particles, speeds and slownesses,, flows, the many sexes that constitute a sexuality, a man or a woman, from it. This capacity for proximity and indiscernibility of the sexualized body, arrives to touch many haecceities that are extracted, not only from man and woman in various combinations, but also from the light of a day, the temperature of a place, the smell of a body, the sound of an air, the speed of a movement, and that make of the hook up itself a non human relational act (in the sense of an encounter that is not of human subjects but unfolds in a whole organic, energetic and material ecology). This app exists and is generally called love. It produces the subject as a lover, while also transforming its becoming into an eternally repeatable object (sex). Can we imagine a technological app that can insert itself, and tap onto, this honhuman relational plane, while satisfying the function of the hookup? In other words, can we develop a minor love app? If yes, how would that work?