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il mio personale cortocircuito

Giacché mi trovo a Torino, il mio personale cortocircuito parte da qui. Ho la sensazione che a regolare il quieto vivere quotidiano, nella città che ospita la mostra appena visitata, sia un ordine quanto meno a rischio, poiché non troppo condiviso. A suggerirmi questa precarietà è la presenza di alcune soggettività che prendono la parola su più fronti e si espongono su molteplici piani, socialmente e politicamente. Alcune contestano le politiche e i processi di gentrificazione e turistificazione che stanno investendo diverse aree della città attivando meccanismi di inclusione/esclusione di tipo razzista e classista (il 2019 è stato l’anno degli sgomberi a danno di occupazioni abitative, centri sociali e non solo; vedi il caso dello sgombero del “balonaccio” dal mercato storico di Porta Palazzo). Altre si attivano contro le misure e i dispositivi che lo Stato adotta per legittimare la retorica del decoro e della sicurezza; dunque, per accreditare la sua ambizione al controllo dei confini esistenti (interni e verso l’esterno) e alla creazione di ulteriori barriere e divisioni (vedi le lotte contro i CPR). Altre ancora solidarizzano con le diverse forme e pratiche di resistenza che stanno agitando molte parti del globo, producendo contro-informazione e contro-narrazioni decoloniali, anticapitaliste, femministe ed ecologiste (dal Cile alla Palestina o alla Siria del Nord). Se allargo lo spettro geografico della mia riflessione incontro, poi, le lotte eco-ambientaliste sparse in tutta Italia. Queste si fanno intersezionali e si oppongono alla costruzione delle grandi opere e infrastrutture del capitalismo, a causa delle quali gli equilibri sociali ed economici, oltre che ambientali, delle terre e delle città direttamente colpite sono fortemente compromessi: NO TAV in Val di Susa, No grandi navi e No Mose a Venezia, NO TAP in Puglia, i molti gruppi attivi in Campania, NO Ponte e NO MUOS in Sicilia, per citare solo i più noti.

Ad accomunare queste lotte a quelle che attraversano l’India di Altaf è una contestazione generale delle politiche di appropriazione e sfruttamento (della terra e di chi la abita) incentivate dai governi, a livello globale, in maniera sempre più convinta, massiccia ed evidente. Sul piano teorico, i movimenti politici attuali sono supportati da molte posizioni (accademiche e non) anticapitaliste, antirazziste, antifasciste, ecologiste e femministe. Alcune di queste si esprimono attraverso l’arte, e spesso sono il risultato di quella “uscita”, più o meno graduale, che si verifica dagli anni Settanta, quando il rapporto con la rappresentanza e il potere cambia irreversibilmente. Esemplare in questo senso è proprio la figura di Piero Gilardi, fondatore del Parco Arte Vivente. L’artista torinese, famoso per il suo percorso di ricerca incentrato sulla bio-arte, dopo decenni di impegno politico e sociale che lo ha portato a frequentare anche i circuiti internazionali dell’arte, nel 2008 fonda il PAV per attivare un laboratorio indipendente, fondato sulla relazionalità e dedito alla produzione di una nuova conoscenza che parta proprio dalle tematiche ecologiche e da una riflessione attorno al ruolo che l’arte, le tecnologie e i media possono assumere nell’attivare una coscienza politica collettiva. Questa stessa ‘filosofia’ sta alla base del contributo artistico e intellettuale che Gilardi ha offerto all’attivismo militante. Come racconta in un’intervista rilasciata in occasione della sua personale intitolata Effetti collaborativi 1963-1985 (Castello di Rivoli Museo d’arte Contemporanea, 2012): “I miei lavori politici, in genere, sono attività creative che io svolgo in mezzo ai movimenti in lotta. Io, per esempio, partecipo alla lotta No TAV. Da anni realizzo, discutendo con i vari gruppi che si oppongono, attrezzi teatrali da agire nelle manifestazioni. Si tratta di costumi, carri o anche semplici simboli che entrano nel cuore del movimento e ne diventano un suo aspetto. In questo senso credo che la mia attività politica rimanga coerente, perché viene fatta con chi effettivamente sta lottando politicamente, e non può essere recuperata.” Anche per lui, come per Altaf, è indispensabile incentivare una riflessione interdisciplinare e un’azione condivisa, che coinvolga artisti e non-artisti in un processo continuo di conoscenza e consapevolezza. La figura di Altaf è quindi perfettamente coerente con la natura etica e politica del ‘laboratorio’ torinese che accoglie la sua mostra.

È facile immaginare che, se vivesse in Italia, anche Altaf prenderebbe attivamente parte a qualcuna delle lotte in corso; e in questo senso l’esperienza di Gilardi ci lascia prevedere anche che tipo di consenso riceverebbe questa sua scelta, all’interno e al di fuori del mondo dell’arte. Ovvero, escluso il PAV e altri luoghi simili che hanno deciso di posizionarsi in maniera così netta, quale istituzione potrebbe attualmente ospitare una mostra che rivendica, ad esempio, le ragioni e la resistenza di uno qualsiasi dei movimenti politici attualmente attivi in Italia? E che tipo di ospitalità riceverebbe, eventualmente, questa mostra? Quella condizionata dalla legge della cattura oppure quella “incondizionata” (di Derrida) che offre ascolto senza prendere nulla in cambio; che consente all’ospite di mantenere la sua inappropriabilità?

Poco dopo la mia visita alla mostra, il 30 dicembre scorso, Nicoletta Dosio, insegnante e militante NOTAV, viene arrestata per la sua partecipazione a una manifestazione di protesta, nel 2012. Oggi – insieme a molte altre persone considerate “pericolose” in quanto espressione di un pensiero non allineato alle visioni eurocentriche e all’ordine capitalo-centrato – Nicoletta è ancora in carcere e la sua lotta continua nelle parole che scrive e nel suo modo di affrontare la detenzione. Fuori dal carcere delle Vallette di Torino e in tutta Italia, per le strade, nelle piazze, nel web, le sue compagne e compagni continuano a farsi sentire, chiedendo libertà per tutte e tutti. Il suo è solo uno dei casi più recenti che è possibile citare per argomentare la morsa repressiva e punitiva praticata dallo Stato-Nazione Italia nei confronti delle forme di dissenso e resistenza. Ed è un caso esemplare per affrontare questioni come l’impunità della politica e la complicità che essa riceve dalla stampa ufficiale, ogni qualvolta questa dipinge le forme resistenti come forme di violenza, terrorismo, criminalità. Rispetto a questo scenario, nell’Italia di questo 2020, anche la presenza di Altaf al PAV diventa un atto di resistenza.

Infine, a proposito di complicità e resistenza, ampliando il raggio dell’analisi potremmo legittimamente problematizzare il ruolo dei soggetti che supportano la mostra (Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, Regione Piemonte, Città di Torino), anch’essi responsabili o coinvolti nei processi (di trasformazione e sfruttamento) pocanzi citati. Gilardi stesso non dovrebbe sorprendersi se gli si chiedesse come è possibile conciliare l’attivismo militante e questa disponibilità all’incontro con tali soggetti. Io non ho voluto chiederglielo perché, sebbene rilevarla mi sembri doveroso, non era su questa ambiguità che volevo ragionare, quanto sul potenziale discorsivo/politico della mostra. Così, prefersico pensare che il fondatore del PAV viva questa conciliazione come una strategia di intervento “criminale” (alla maniera di Stefano Harney e Fred Moten), che non asseconda ma sfrutta il potere istituzionale per poterlo mettere in discussione. In altre parole, più che chiedermi quanto il PAV possa essere accusato di complicità ai poteri dominanti, mi soffermo sui contenuti che mi sta offrendo, sulle prospettive che sta aprendo, sul vantaggio di avere visto il lavoro di Altaf a Torino, sulla possibilità che la sua pratica diventi contagiosa.


 

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