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ll viaggio interstellare di Lidia Curti

Con questo post, la TRU rende omaggio e riconosce l’importanza fondamentale del pensiero, della pratica e dell’esempio di Lidia Curti per la sua formazione e sviluppo. Nella costellazione che compone la TRU, Lidia è stata e continua ad essere una singolare e straordinaria energia,  forza motrice che ci ha attirato nella sua orbita sganciandoci da modi di pensare obsoleti e limitanti, per proiettarci in nuovi universi esistenziali fatti di scritture, immagini e immaginari femministi, antirazzisti, afrofemministi, postcoloniali, e recentemente anche verdi.  A lei la TRU deve uno dei suoi principali filoni di ricerca, quello sui femminismi futuri.

Riproduciamo qui sotto  un estratto del suo saggio “Il viaggio interstellare: pensiero verde e afrofemminismo tra sogno e visione” raccolto nel volume da lei curato recentemente insieme a Marina Vitale e Antonia Anna Ferrante Femminismi Futuri: Teorie, Poetiche, Fabulazioni, Roma Jacobelli, 2019

La ricordiamo qui immaginandocela immersa  in un appassionante viaggio interstellare alla ricerca di quel “nuovo femminismo” che nei suoi ultimi scritti immaginava come “non solo bianco e occidentale”, capace di superare  “frontiere temporali e spaziali, continenti terreni e astrali, e aree diverse del sapere.”

Immagine di copertina Wangechi Mutu Chocolate Nguva (2015)

Il viaggio interstellare: pensiero verde e afrofemminismo tra sogno e visione (di Lidia Curti)

 

 

Si deve fermare il tempo per ascoltare una storia. La narratrice la comincia daccapo.

La comincia nel suo luogo, nel suo momento, dal suo punto di vista.

Finché la ascolti, le affidi il tuo destino. Tu e lei condividete tutto, perfino la tua esistenza. Ascolta. . .

(Nnedi Okorafor)

 

Il presente rimane fratturato e rifratto nel ricordo e nell’anticipazione,

i mormorii del passato e il potenziale del futuro. […]

le lotte femministe, queer, antirazziste e postcoloniali implicano

la messa in questione di categorie identità e strategie precedenti,

sfidando i limiti del presente, e traendo forza dall’imprevedibilità del futuro […]

Solo se il presente appare fratturato, spaccato dagli interventi del passato e la promessa del futuro,

il nuovo può essere inventato, accolto affermato.

(Elisabeth Grosz)

Convivenza tentacolare

Femminismi Futuri: Teorie Poetiche, Fabulazioni (Jacobelli 2019)

La consapevolezza della progressiva devastazione del pianeta è pressante nell’oggi e connota i saperi su molti versanti. Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene (2016) di Donna Haraway è tra le voci di una ecologia che mette sotto accusa il dominio dell’uomo su questo pianeta e la parte attiva che capitalis

mo e imperialismo hanno avuto nella sua devastazione. L’autrice propone una nuova possibile socialità tra organismi inter- e intra-specie che travalicano tempo e spazio, realtà e arte, genere e sesso, tecnologia e immaginazione, con una svolta ecologica rispetto al suo A Manifesto for Cyborgs (1985), testo influente del cyber-femminismo.

L’opera tratta della resistenza dei mortali, esseri di ogni specie, microbi, piante, animali, umani e non umani, «muniti di tentacoli, antenne, dita, chele, code, gambe e zampe, peli scomposti» (Haraway 2016, p. 169, mia trad.). Il titolo si può tradurre con convivere, resistere, lottare nel disagio o tra le rovine, e si ispira a Arts of Living on a Damaged Planet (Arti di vivere su un pianeta danneggiato) di Anna Tsing, voce influente di una svolta antropologica che propone un nuovo ecologismo. “Making Kin”, seconda parte del titolo, si riferisce al creare comunità, legami, connessioni inventive, parentele, con una parola assemblante che parla di solidarietà al di là del futurismo riproduttivo.

Al presente di antropocene, capitalocene e piantagiocene, Haraway contrappone chthulucene – nome di un altro luogo e di un tempo che era, ancora è, e ancora potrebbe essere – che prevede poteri e processi terreni inclusi quelli umani, e oltre. Chtulucene è l’epoca del ragno, per il riferimento al Pimoa Chtulu, un aracnide californiano; la ragnatela si rapporta, nel mondo vegetale, a radici, piante filiformi, semi, rampicanti, ma anche a fili e stringhe, ragnatele di sentieri e causalità mai deterministiche, nodi che si sciolgono per crearne altri.

I semi diventeranno metafora e struttura di molta arte visuale e della narrativa fantascientifica e fantasy che si intreccia a queste tematiche. Sono simboli di mutazione e cambiamento nelle parabole di Octavia Butler o nel seminare di mondi in Ursula Le Guin, oltre che elemento portante dell’arte e dell’attivismo ecologico dell’artista brasiliana Maria Thereza Alves… L’esistenza di un seme può precedere di milioni di anni quella umana permettendo la lettura del passato e, allo stesso tempo, contenere in sé un futuro che è impossibile prevedere.

Con Haraway, da ragnatela si passa a tentacolo con gli invertebrati: polpi, calamari, totani, e meduse, in una “endosimbiosi” che si ispira a Lynn Margulis, la biologa evoluzionista radicale con la sua ricerca sulle specie compagne, sul vivere insieme tra specie, sulla “intimità degli stranieri”. La medusa merlettata da un lato suggerisce il corallo e la barriera corallina, simbiosi animale e vegetale, e dall’altro il femminile, con merletti e tessiture, “talismani e geroglifici” di altri mondi. Il tentacolo è immagine potente e ricorrente nel libro, con il suo movimento verso l’altro da sé, e le sue qualità multiformi, sottolineate dalla ricchezza semantica: tentare, toccare, sentire tra umano, macchina e natura, ma anche pensare. Il “pensiero tentacolare” disegna figure concatenate, come la fantascienza, che narra trame di mondi e tempi possibili, material-semiotici, passati, qui, ancora a venire. Come non pensare alle entità interspaziali, nuova e futura specie, immaginate dalla scrittrice nera americana Octavia Butler nella trilogia di Xenogenesis (1987-89)?

Gli Oankali e gli Ooloy, esseri coperti di tentacoli, superano le frontiere del sentire e del fare, di genere o stirpe e di generi sessuali. A favore di una maternità collettiva, non esclusivamente femminile o umana, propongono il transito, un ponte tra le differenze, in accostamenti e assemblaggi riproduttivi inusitati; attraverso i tentacoli sentono, tastano, comunicano, godono, procreano e danno forma al mondo circostante. …La contaminazione tra maschile e femminile, umani e alieni, è desiderio e legge per questi esseri che hanno bisogno dell’umano, necessario alla creazione simbiogenetica.

L’emergere di una letteratura che precede il pensiero scientifico e filosofico si ritrova in Ursula Le Guin accanto a Butler, ambedue autrici di fantascienza speculativa, favole per pensare, per capire, in cui fantastico e immaginario non sono separati dal pensiero. «La verità è materia dell’immaginazione […] I fatti non sono più solidi, coerenti, rotondi, e reali, di quanto non siano le perle», dice in The Left Hand of Darkness (1969)…Nel racconto di Le Guin, Vaster than Empires and More Slow (1971), 4470 è la meta di Gum, la navicella spaziale che viaggia alla quasi-velocità della luce in un tempo azzerato, uno senza inizio o fine..

Un cerchio di paura è oggetto di questo racconto, la paura che la foresta [che copre interamente 4470] esprime echeggiando e moltiplicando i sentimenti di odio e antagonismo degli esseri umani che la attraversano e vi camminano per la prima volta. Nel mondo odierno, questa lunga novella appare come monito e anticipazione agghiacciante; è così che la paura dell’altro, su cui gioca gran parte del potere politico sul nostro pianeta, si ingigantisce e travolge gli umani.

..

La paura, che era sembrata una minaccia esterna, forse un gigantesco mostro vegetale o un animale selvaggio, ormai è in loro: «Noi siamo l’altro. Non c’è mai stato nessun altro» (p. 220). Quando se ne rendono conto è troppo tardi per l’amore, quell’amore più vasto di qualunque impero e più lento. Spostarsi altrove sul pianeta, lontano dagli alberi, non servirà…

La paura è cessata, la foresta ora li accoglie silenziosa e immota nei suoi meandri…Il viaggio di esplorazione si compie e Gum lascia World 4470 per continuare la sua missione altrove. Al ritorno, dopo centinaia d’anni del tempo terrestre, agli uomini che increduli li accolgono fanno rapporto e dichiarano le perdite: «Biologo Harfex, morto di paura; Sensore Osden, lasciato come colono» (p. 224).

 

Piante e impero

L’opulenza dell’Europa…è stata nutrita con il sangue degli schiavi

e viene direttamente dal suolo e dal sottosuolo di quel mondo sottosviluppato. (Franz Fanon)

 

La tassonomia botanica può essere intesa come base per l’economia […]

la conoscenza esatta della natura era la chiave

per ammassare ricchezza nazionale e quindi potere.

I botanici erano agenti dell’impero, i sistemi di nomenclatura e

tassonomia strumenti dell’impero.

(Londa Schielebinger)

Il legame tra ecologia e imperialismo è stretto. Un’ecologia postcoloniale non può ignorare che il consumo del suolo, lo sfruttamento e la devastazione della terra pesa soprattutto sui poveri, i dannati, i colonizzati. Il riferimento a chi cerca rifugio, la/il migrante di oggi, emerge nella visione ecologica di Haraway: «Nell’antropocene si distruggono luoghi e tempi di rifugio per gente e altri […] Proprio ora, la Terra è piena di profughi, umani e non, senza rifugio» (2016, p. 100, mia trad.). La crescente chiusura all’accoglienza di coloro che cercano rifugio, la paura della diversità sono inevitabili in un mondo immiserito dominato da un ideale di profitto e dominio sulla scia dei colonialismi ancora esistenti.

In The Wretched Earth (La terra dannata), titolo dedicato all’opera di Frantz Fanon, Ros Gray e Shela Sheikh (2018) conducono una rassegna critica del rapporto tra resistenza alla distruzione della Terra e disuguaglianza sociale, ricordando che il consumo del suolo, lo sfruttamento della terra comporta sempre e dovunque il dominio sui corpi e sulle menti. Il sistema della piantagione è fondato sul mercato di individui privati della libertà; la schiavitù degli africani deportati diviene modello per successivi sviluppi economici e organizzativi del mondo occidentale. La minaccia alla vivibilità del pianeta è insita nelle pratiche delle piantagioni, con lo sterminio delle piante locali per creare il vuoto in cui esportare piante esterne all’ambiente per poi inserirle in un meccanismo di replica, come afferma Anna Tsing (cfr. 2015).

La guerra contro l’ambiente, la Terra (con)dannata, l’appropriazione del suolo è offesa a una infrastruttura della vita e si esprime attraverso le pratiche gerarchiche e astratte delle classificazioni scientifiche che non sono troppo lontane da quelle razziali (lo stesso Linneo affiancò una tassonomia razziale a quella botanica). La fondazione della botanica come disciplina scientifica è dapprima conseguenza dei viaggi di esplorazione europea e poi consolidamento del sistema della piantagione e del razzismo coloniale.

Sylvia Wynter, nella sua definizione di un nuovo umanesimo planetario, mette l’accento sulla distribuzione ineguale delle risorse del pianeta come parte essenziale delle lotte contro la “colonialità del potere”. In tutta la sua opera, Wynter ripercorre l’intero pensiero bianco occidentale per affermare la necessità di una necessaria riscrittura del sapere come lo conosciamo, alla ricerca di una definizione completamente nuova di ciò che significa essere umano.

 

Seminare mondi e sogni

Non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane,

da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo,

da questo cadavero, da questo terra, da questa pietra o altra cosa, e cossì oltre, per venire a tutte forme naturali?

(Giordano Bruno)

 

Tutto quello che tocchi Lo cambi. Tutto quello che cambi

Ti cambia. La sola verità esistente È cambiamento. Dio è cambiamento …

Seme a albero, albero a foresta; Pioggia a fiume, fiume a mare; Miele a api, api a sciame.

Da uno, molti; Da molti uno.

(Octavia Butler)

Parable of the Sower (Parabola del seminatore, 1993) di Octavia Butler assegna al mondo vegetale il compito della riproduzione che può salvare il pianeta. Sulla scia della parabola biblica, vi si narra di semi ma anche di parole; la sua protagonista Lauren Oya Olamina, giovane nera americana poco più che adolescente, fugge da uno scenario di devastazione e violenza dopo la distruzione della sua casa e l’uccisione dei suoi familiari. Insieme a persone di provenienza interetnica, che raccoglie nel suo vagare fino all’estremo nord della California, fonda la comunità di Earthseed che ha come ideale la migrazione verso pianeti lontani dagli stermini terrestri, ma pianta semi negli insediamenti pur temporanei lasciando una scia di speranza a presenze future attraverso il radicamento vegetale. I semi della vita possono essere trapiantati e germogliare anche nelle situazioni più difficili, così com’è avvenuto per gli schiavi africani sopravvissuti alla deportazione, all’esilio e all’abiezione dello sfruttamento.

Earthseed è guidata dalla fede in una divinità del cambiamento, che non è né uomo né donna e non è nemmeno una persona ma un’entità malleabile cui si può dare forma, che esiste per cambiare ed esser a sua volta cambiata … Focalizzare l’attenzione, rafforzare la determinazione, formare una collettività, abbracciare la diversità sono gli scopi della predicazione di Earthseed.

Lauren è affetta da iperempatia, in conseguenza del medicinale assunto dalla madre durante la gravidanza e suo unico lascito – non l’ha conosciuta perché morta alla sua nascita, di lei c’è solo una fotografia sbiadita. La sindrome porta Lauren a condividere i dolori altrui, anche dei suoi oppositori, tra cui la morte di coloro che nella lotta è costretta a uccidere – un messaggio contro ogni violenza e guerra. Al suo primo nome, ispirato a una pianta, è aggiunto quello della dea Oya, la Orisha della cultura yoruba nigeriana, figura tra la santeria brasiliana e la Vergine Maria del cattolicesimo. Come creatrice di mondi, ha il potere di comandare venti, tempeste e morte con i suoi nove tentacoli, in consonanza con i nove affluenti del fiume Niger – tra natura e cultura

Con il viaggio interstellare come utopia, Butler torna a un topos della fantascienza classica in un romanzo che è peraltro considerato parte importante della nuova narrativa nera ed espressione dell’estetica afrofuturista. Il muoversi tra passato, presente devastato e futuro utopico fa di Lauren e, ancor prima, di Lilith – ribelli in fuga dal presente, umane ma dotate di poteri sovrannaturali – perfette eroine dell’afrofuturismo femminista, di cui Butler viene considerata un’antesignana.

Il termine indica un’area concettuale all’intersezione tra culture afro-diasporiche, tecnologia e fantascienza, che pone l’estetica africana al centro della civiltà umana e si ispira a un’utopia di futuri alternativi possibili, in chiave antirazziale e femminista. In sintesi si potrebbe dire che il passato rimosso, negato rifiutato – il mondo degli schiavi e delle schiave tutte – arriva dal futuro per riscrivere il senso del presente disturbando il mondo in lontani nel tempo – vittime della stessa violenza – e con la scelta del nome Acorn, ghianda frutto della quercia da cui si fa il pane e si generano nuovi alberi e piante.

 

 

Un viaggio afrofemminista

Il vero salto, ha scritto Fanon, consiste nell’introdurre l’invenzione nell’esistenza.

(Sylvia Wynter)

 

Ciò che faccio in questo testo è attivare la forza dirompente dell’essere nero,

cioè la sua capacità di strappare il velo della trasparenza (sia pur brevemente)

per mostrare ciò che c’è al limite della giustizia…

Preso non come categoria ma come referente di un altro modo di esistere,

il nero è La Cosa ai limiti del pensiero moderno…

frattura le mura vitree dell’universalità, e della violenza ad essa inerente.

(Denise Ferreira da Silva)

 

Tra l’arcaico e il postmoderno, l’afrofuturismo si esprime, oltre che nell’immaginario letterario e artistico, nel rapporto con la cultura popolare – moda afro, musica, cinema, tv, video art e grafica. La presenza nella musica è dominante, da funk a techno, pop e rap: ruolo della musica nera è portare lo spirituale nel secolare, come osserva Sylvia Wynter che ravvisa nella voce di Aretha Franklin una dimensione di riscatto e liberazio-ne. La musica nera, lei osserva, non segue un percorso lineare, come il pensiero che fiorisce inaspettato.

Il motivo del riscatto attraverso la conoscenza del passato era già presente nella fantascienza femminile degli anni settanta tra cui Kindred (1979) della stessa Butler che anticipa il tema della schiavitù presente nei romanzi successivi – dominante tra le sue motivazioni. La sua protagonista Dana, giovane donna nera sposata a un bianco, dal 1976 torna indietro di 150 anni, dalla le abiezioni di quella condizione, Kindred anticipa Amatissima di Toni Morrison, cui spesso viene accostato. In ambedue c’è il racconto di una storia che si vuole, ma non si deve, dimenticare. Il ritorno alle origini indica che il passato non è veramente passato e va ricordato e riattraversato per vivere il presente e aprirsi al futuro; un motivo che riflette l’esperienza dell’autrice stessa, scrittrice nera nella società nordamericana di oggi, cui lei stessa fa frequenti riferimenti nelle interviste.

Più tardi Saidija Hartman, nel suo romanzo sulle vie della fuga dalla schiavitù, dirà di se stessa nel presente: «Anch’io vivo nel tempo della schiavitù, intendo nel futuro creato da essa». Ancora una volta la narrazione ricostruisce la memoria, la “ri-memoria” di cui parlava Morrison, guidando gli eventi della storia. È quello che avviene con le narrative italiane di donne africane o afro-discendenti che ricordano il passato del colonialismo italiano nel Corno d’Africa, una memoria dimenticata o misconosciuta che si riverbera nel presente delle morti nel Mediterraneo, eco dell’altro “passaggio” sull’Atlantico. …

Il tema della schiavitù e del riscatto nella cornice di un afrocentrismo ancora più accentuato è presente in molta della fantascienza recente. In The Book of Phoenix (2015) di Nnedi Okorafor il motivo del volo riconduce a Butler: le ali con cui Phoenix rinasce le permetteranno di volare da New York al Ghana, dove, sia pure per un tempo breve, ritroverà origine, lingua nativa e solidarietà, diventan- do Phoenix Okore (Fenice Aquila). Anche The Broken Earth Series (2016-18) di Norah K. Jemisin racconta una saga disperata su un pianeta distrutto, chiedendosi cosa si può salvare dell’umanità o se questa è al di là di ogni redenzione….

La pittrice e video artista keniana Wangechi Mutu ha molti punti di contatto con Butler e interpreta l’estetica afrofemminista nel contesto di una nuova ecologia, allontanandosi dalle limitazioni dell’ambientalismo tradizionale e offrendo visioni trasgressive centrate su soggettività nere femminili. Il suo “viaggio fantastico” (A Fantastic Journey, 2013) rappresenta mondi lontani, mutazioni identitarie e strane figurazioni che sfidano pregiudizi razziali, spaziali e di genere. In collages dai colori arditi che accostano ritagli di carta a dipinti e di- segni, Mutu descrive guerre, colonialismi e devastazioni ambientali e tecnologiche sullo sfondo di un’ecologia turbata, sfatando, come già Butler, l’idea che le donne nere non si occupino di ecologia.

Le inquietanti forme mutanti femminili, citazione ironica del modello femminile nell’arte tradizionale, sono frutto di assemblaggi, convivenze, commistioni che riportano alla natura africana, in una metamorfosi tra animale, vegetale e umano: donne coyote, donne albero, donne arbusto dai cui capelli si sprigiona forza e minaccia. La donna nera, che è la sua ossessione, diventa dragone, serpente, sirena, cyborg, o medusa dalla chioma tentacolare. Alla fine, come lei dichiara, il suo scopo politico è tenere al centro la memoria del femminile, continuando a parlare di donne e a rappresentarle. La sua arte porta il suo mondo di origine come presenza fantasmatica nei musei del mondo occidentale.

Il tema ecologico si fa pressante nel video The End of Eating Everything (2013), mutandosi in ammonimento e minaccia. La donna dai capelli medusei, il suo corpo ricoperto di piante, molluschi e insetti, rappresenta la terra e fluttua nel cielo in armonia con gli uccelli. Lentamente il suo bellissimo volto assume un ghigno mostruoso, la bocca vorace divora ogni forma di vita, il corpo subisce una metamorfosi simile e si ricopre di fumi e rifiuti industriali fino a polverizzarsi in letame e detriti che coinvolgono il creato.

In questa apocalisse il corpo femminile nero è, a un tempo, indice e sintomo della devastazione incombente ma anche rappresentazione di riscatto e resistenza. Come ha detto mirabilmente Hortense Spillers (1987), se la “donna nera” è una figurazione particolare del soggetto diviso della modernità, ne è anche la sua più profonda rivelazione.