Skip to main content

Fare un salto al seminario: come praticare l’arte del fallimento nell’Università.

Questa è una lunga analisi sul perché non ho scritto un post per invitarvi tutt* a discutere intorno al testo di José Muñoz “Cruising Utopia”. Giovedì 3 Maggio ore 16,30 all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici con Renato Busarello, Mara De Chiara, Roberto Terracciano e me… forse.

È dai tempi della scuola che ho imparato a confrontarmi con il fallimento. Il fallimento anche oggi arriva all’ultima fase. All’ultima frase. Facevo traduzioni perfette, forse non giuste, ma sempre appassionate; non era questione di grammatica e di studio, ma l’esercizio di cercare le parole giuste per dire le cose. Amavo scegliere le parole; ancora adesso. Brava: brava per i professori che mi premiavano con ottimi voti; brava per i compagni di classe che mi riconoscevano più la generosità del far copiare che una qualche dote; brava per i miei genitori che potevano raccontarmi come la figlia perfetta. Eppure tutto questo pesava su di me come un macigno: il peso delle aspettative. Non tanto quelle delle persone intorno a me, ma quelle di cui mi caricavo io stessa. Nata sotto il segno della Vergine, sempre in competizione con me stessa per essere all’altezza dell’ideale che mi pongo. L’ascendente in Pesci mi ha dotata del dono della creatività e la luna in Sagittario mi ha infuso l’arte della fuga. Ho iniziato molto presto a conseguire il fallimento come pratica militante di boicottaggio, e ho continuato con una certa perseveranza per il resto della mia vita. Una lunga carriera di esami a cui mi sono presentata senza aver studiato l’ultimo capitolo. L’esercizio del fallimento l’ho praticato con più dannazione che orgoglio, aggiungendo al peso delle aspettative l’ansia e i sensi di colpa.

Sono qui a cercare l’idea migliore per il prossimo post di Technocultures. Non devo solo essere all’altezza dei post precedenti, tutti un successo di visualizzazioni, devo essere più in alto di essere all’altezza. È l’ultimo, quindi devo spaccare. Lasciare il segno non è solo un desiderio narcisista oggi; mi muovo nel paradigma della precarietà dell’università neoliberista. Non ho neanche un nome per descrivere la mia posizione: non più dottoranda, non (ancora?) post-doc. La mancanza di una parola non è solo la ricerca di una collocazione lavorativa ma il bisogno di un posto esistenziale. Devo accumulare voucher visibilità: non dire mai no ad alcuna proposta di scrittura, intervento, organizzazione e non perché mi abbiano mai pagato per questo, ma con la speranza di poter impressionare qualcuno, trovare un contatto, lasciare un segno, non sparire mentre aspetto che arrivi il mio turno.

Ma questo è il momento dell’ultima frase e io, come al solito, non posso scrivere. Niente. Riprendo in mano il libro di Muñoz, l’ho già riletto quasi tutto, ma sono ancora in cerca dell’idea perfetta. Mi manca sempre lo stesso capitolo: A Jeté Out of the Window. Fred Herko’s Incandescent Illumination. Avevo scelto di non rileggerlo sebbene fosse il primo testo che avessi mai letto di questo autore che dopo mi ha tanto appassionata. Era agosto e mi preparavo per una summer school, lo aveva dato da leggere Jack Halberstam, entrambi grandi amici si sono molto influenzati nelle loro scritture. Sin da subito ho esorcizzato il pugno nello stomaco ricevuto da questo testo, scherzando con un mio amico sul destino di una dottoranda, costretta a leggere di uno che fa un salto fuori dalla finestra, mentre gli altri sono con le chiappe al mare. Questa volta me lo sarei risparmiata, infastidita dall’apologia di un suicidio in un testo che nasce dichiaratamente come risposta alle teorie nichiliste della svolta antisociale del pensiero queer. Cosa cazzo c’entra il suicidio mentre parliamo di utopia, speranze, relazioni guardando al futuro?

Questo capitolo ha la potenza di un pensiero intrusivo. I pensieri intrusivi, in un linguaggio patologizzante, sono quei pensieri ed immagini, percepiti come esterni, che attivano le crisi ossessivo compulsive: idea di morte, droga, contaminazione… L’idea di qualcosa di estraneo, introdotto dall’esterno, per mandare in frantumi l’equilibrio. Come questo capitolo che attiva con potenza una catena di pensieri ansiogeni rispetto all’ideale di utopia che si sta delineando. Mi decido a riaffrontarlo e resto colpita immediatamente dalle prime parole “Surplus is a loaded concept”. Prosegue introducendo la teoria del valore prima in una prospettiva marxista; dunque il surplus inteso come quella parte di ricavi superiore al costo del lavoro, quindi il profitto del capitalista. Prosegue, successivamente, introducendo questo concetto nel campo dell’effimero, attraverso la produzione artistica. Solo a questo punto mi rendo conto che Muñoz, ancora una volta attraverso l’analisi dell’estetica delle pratiche, sta introducendo i suoi elementi di elaborazione di una teoria del valore queer. Un’analisi che non è dello sfruttamento da parte del potere, ma della potenzialità della performance come atto che produce l’esodo.

Forse occorre un passo indietro. Fred Herko è volato fuori dalla finestra di un appartamento del Greenwich Village nel 1964. Il suo consumo di speed era noto e imbarazzante perfino per le altre persone della Factory, che com’è altrettanto noto, non consumavano tè e biscottini ai loro incontri. Lamentava in continuazione la lentezza del mondo – sono le anfetamine, darling – in un corpo accelerato dal consumo di sostanze. Una lurida puttana, come fu definito da altri artisti dello stesso entourage, senza fissa dimora, una frocia sfranta che si bruciò troppo velocemente all’ombra della Factory di Wharol, che ha prodotto più rifiuti che arte. Il grande artista, com’è altrettanto noto, era un sadico di merda e sfruttò Herko per molte delle sue produzioni, tra queste probabilmente la più famosa è Roller Skates, alla fine della quale, dopo giorni a giare scalzo per New York, a Herko sanguinavano i piedi. Questa è grande arte signori. Fred Herko si spoglia nella casa di un suo amico; inizia a ballare, come sempre, nel suo stile sopra le righe; non è mai stato chiaro se volesse davvero suicidarsi o letteralmente stava fuori come un balcone. L’unico spettatore presente si rammaricherà per sempre di non aver filmato il suo capolavoro definitivo.

Muñoz riprende la nozione negriana di plusvalore, come quella parte incontrollabile e potenzialmente distruttiva integrata all’interno della formulazione del lavoro in questa configurazione del capitalismo contemporaneo. Sviluppando questo pensiero con quello che abbiamo analizzato nei seminari precedenti possiamo provare a formulare una nostra nozione di plusvalore queer: all’interno della produzione immateriale esiste una componente personale, che non è solo quella che produce il profitto, è anche e soprattutto quella componente sessualizzata che rappresenta la potenzialità di hackerare il sistema.

È impossibile seppellire o ignorare i pensieri intrusivi, bisogna attraversarli e provare a trovarne un senso, e comincio a intravederlo all’orizzonte. Leggo questo testo accanto a quello di Mark Fisher, un suo pensiero sulla depressione in cui racconta della sua esperienza; un testo che ha acquistato, piuttosto che perso, significato al momento del suo suicidio, anche grazie alla larghissima diffusione. In questo testo Fisher insiste sulla necessità di rileggere la depressione, che comunque ha segnato la sua personale esistenza, in una prospettiva politica più ampia di crisi generalizzata e malessere sociale. Rileggo questo pezzo di Muñoz non più come una resa al nichilismo, quanto piuttosto un ulteriore modo di tracciare delle mappe relazionali anche nei momenti più cupi dell’analisi queer. La sua tesi sull’utopia non è, infatti, la produzione di un ideale naif delle potenzialità del futuro. Tutt’altro. Questa temporalità proiettata all’orizzonte ancora da venire non è bonificata dalle memorie, è piuttosto un momento estatico in cui tutto questo può essere percepito, popolato anche di fantasmi e momenti difficili.

Il potenziale trasformativo della costruzione di relazioni ha radici piantate in un mondo percepito come insostenibile così com’è. Da qui la necessità di smettere di pensare al qui e subito e l’urgenza di direzionarsi verso l’allora altrove. Nell’analisi dell’estetica delle pratiche queer risiede la via di fuga ma anche la possibilità di fare mondi. Dunque non è corretto continuare a tracciare la vecchia riga che separa l’esodo praticato dall’artista dalla radicalità delle esperienze politiche collettive. Tutto ha radici in un mondo da trasformare. Queerness is not yet here, la frocianza non è ancora qui.

Guardare all’orizzonte come luogo e tempo delle speranze ci costringe a dover scrivere anche storie di delusioni e disillusioni, ma affrontare le aspettative significa anche abbandonarsi all’arte queer del falimento. L’utopia stessa, come mancanza di pragmatismo, è il fallimento del desiderio di essere normale, un colpo al cuore del produttivismo. Dalla teoria postcoloniale queer ho imparato che il fallimento ha un’aura di privilegio che chi deve pagare le bollette non può permettersi, ma per me, in questo momento, accogliere il fallimento mi libera dall’ansia di essere all’altezza del reach-out di questi post e mi permette di prendere parola, politicizzare e inserire in un contesto più ampio questa ansia. Mica poco per una giustificazione di non aver fatto il mio dovere?

Muñoz analizza il fallimento accanto al virtuosismo, poiché nella sua stessa matrice c’è la potenzialità: quello che poteva essere e non è stato; quello che ancora un giorno potrà essere… incluso un nuovo fallimento!

Chiara Fumai è morta, Mark Fisher è morto, Muñoz è morto, Herko è morto… e anche io non mi sento tanto bene.