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Vite diseguali: forza lavoro animale e capitale di specie (Social Reproduction Feminism parte III)

L’ingestione simbolica e materiale dei corpi animali, che con un termine altisonante ma efficace Derrida (1989, trad. it. 2011) ha chiamato carnofallogocentrismo, è alla base dell’istituzione del Soggetto Umano che ha separato e subordinato l’Animale dalla fondazione dell’Umano appropriandosene ed escludendolo al medesimo tempo. L’ideologia della specie ha così definito e dominato i corpi animali e animalizzati. Il pensiero femminista, radicando il carnofallogocentrismo in una visione contestuale e intersezionale, ha mostrato in particolare come la confluenza di animalizzazione e femminilizzazione sia servita a rafforzare la posizione subalterna delle femminei animali sia sul piano dei segni, dagli stereotipi linguistici ai corpi-oggetto dell’immaginario, che su quello delle azioni, per mezzo di abusi e violenze sessuali e dello sfruttamento del loro lavoro produttivo e riproduttivo.

Dalla narrazione dell’Uomo cacciatore come motore dell’evoluzione (ampiamente decostruita dalla primatologia femminista), alle retoriche del lavoratore operoso e del soldato vittorioso, mangiare carne è proprio del soggetto muscolare, sano, vigoroso, attivo, dunque maschile, non mangiare carne qualifica il soggetto come debole, vegetale, passivo, dunque femminile. Il rifiuto della carne come rifiuto dell’ordine patriarcale era già condiviso da molte suffragette, una scelta rispetto alla quale, per esempio, andrebbe contestualizzata la violenza della nutrizione forzata riservata a quante sceglievano di fare lo sciopero della fame in carcere al fine di delegittimarne la radicalità politica, ma è stata la riflessione ecofemminista sulle proteine femminilizzate (Adams, The Sexual Politics of Meat, 1990), cioè quelle ottenute dallo sfruttamento delle capacità riproduttive degli animali femmina, ad evidenziare come il veganesimo sia per il femminismo un atto politico e non semplicemente una scelta alimentare. Allo stesso tempo, non bisogna ignorare che sono state spesso le donne con il loro lavoro di cura a veicolare la norma carnofallogocentrica nel contesto di una rigida divisione dei ruoli di genere, del lavoro e degli spazi, preservando le “tradizioni familiari” in cucina, o precludendosi la scelta vegetariana per venire incontro alle esigenze del capofamiglia, o ancora assicurando a quest’ultimo fra tutti i membri della casa un’alimentazione a base di carne in situazioni di povertà o scarsità alimentare.

Se, come riconosciuto dal femminismo socialista, la lotta di classe non può non essere anche di genere, una prospettiva femminista intersezionale di liberazione dai rapporti di forza del capitalismo non può non prendere in considerazione anche il capitale della specie accumulato sfruttando il lavoro produttivo-riproduttivo dei corpi “da reddito”. Nel complesso animal-industriale il corpo degli animali, totalmente alienati da se stessi, dal loro socius e dall’ambiente, prodotti (per altri) oltre che mezzi del loro asservimento, consente una disponibilità di capitale economico totalizzante che non solo “assicura chance di vita ineguali” (Bujok), ma prima ancora è reso possibile dal presupposto – specista e sessista – delle vite disuguali di uomini e animali.

Nell’attuale epoca del biotutto, come la definiscono Herzig e Subramaniam (Labor in the age of “bioeverything”, 2017), il lavoro non è più definibile nei termini dell’umanesimo marxiano, ma deve prendere in considerazione il diverso posizionamento dei corpi al lavoro in assemblaggi che sono umani, animali e macchinici. Rivedendo la posizione marxiana in chiave antispecista, Jason Hribal è stato tra i primi a riconoscere a pieno titolo la condizione di lavoratori agli animali non umani (e dunque anche a riconoscerne l’agentività e le capacità di resistenza), a ricondurre l’origine del plusvalore allo sfruttamento del lavoro riproduttivo dei mammiferi femmina, e a rilevare le intersezioni dello sfruttamento nel “mercato della carne”ii. Ma una confluenza fra analisi bioeconomica e biopolitica del capitale di specie è ampiamente presente anche nel pensiero di Donna Haraway, che proprio dal femminismo socialista prende avvio, dalle riflessioni sull’Oncotopo™ di Testimone modesta (1997, trad. it. 2000), il topo-femmina geneticamente modificato brevettato dalla DuPont per sviluppare “con affidabilità” il cancro alla mammella, fino alle recenti considerazioni (Staying with the Trouble, 2016) sui nodi che legano i nostri corpi ai corpi delle cavalle gravide, costrette a stare immobili e attaccate a un catetere per la raccolta dell’urina da cui si ricava il Premarin (PREgnant MARes’ urINe), un estrogeno coniugato usato soprattutto per le terapie ormonali in menopausa e nelle transizioni m-t-f. Stupisce allora che, nonostante le numerose evidenze sulla “connessione femminile”, come la definisce Karen Davis, rilevate dall’ecofemminismo, dal tecnofemminismo e dal femminismo nero, il Social Reproduction Feminism (SRF) sia rimasto sostanzialmente impermeabile all’antispecismo.

Oggi, negli allevamenti intensivi, le mucche lavorano per circa 350 giorni l’anno, sono sottoposte a mungitura in un sistema di rotazione a catena strettamente cadenzato (e ormai anche robotizzato) e, visto l’estremo sfruttamento fisico, sostituite non appena le loro performance scendono sotto il livello considerato “ottimale” (una mucca da latte in allevamento sopravvive in media 4 anni, dopodiché, stremata, viene macellata, mentre la vita delle mucche in natura è di circa 20 anni). Inseminate artificialmente e sincronizzate per ovulare, le madri sono separate dai vitelli entro 48 ore dal parto, in modo che la produzione di latte sia interamente riservata al mercato: negli ultimi 40 anni la produzione del latte vaccino è più che raddoppiata, e mediamente una mucca produce tra i 20 e i 30 lt. al giorno – la patologia più comune per mucche da latte è la mastite – contro i 4 lt. di cui avrebbe bisogno un vitello, potendo essere munta fino al settimo mese di gravidanza.

Il modello del “bordello riproduttivo”, in sostanza l’allevamento della riproduzione, che già Gena Corea (1985) rintracciava nello sfruttamento animale, negli attuali circuiti della tecnobioeconomia che colonizzano interamente la potenza generativa zoe “ha il volto postumano delle femmine della specie”, come scrive Angela Balzano. Pratiche come l’inseminazione artificiale, il trasferimento di embrioni, la clonazione, la maternità surrogataiii, spesso subordinano, più o meno consapevolmente, alcuni corpi femminili usati come fabbriche di ovuli o incubatrici viventi, mentre ne individuano altri come destinatari privilegiati di una retorica tutta commerciale della scelta personale, oscurando così le problematiche politiche che generano e muovono questi circuiti.

Il progetto secolare di colonizzazione eugenetica del mondo animale culmina nella produzione di animali-femmina brevettati che sfruttano una precisa retorica del materno, come le scrofe SuperMom™ Maternal Line commercializzate dalla Newsham Choice Genetics, progettate per produrre più prole ma anche per avere un latte più nutriente e crescere figli più sani e vigorosi (per il mattatoio) come è proprio di una brava madre. Considerate nella realtà come “macchine da salsicce”, anche le scrofe come le mucche sono inseminate artificialmente con l’ausilio del rape rack (il termine in disuso, ma la tecnologia è regolarmente in uso), un sistema di contenimento che evita la ribellione dell’animale alla violenza della pratica, in prossimità del parto tenute all’interno di una stretta gabbia di acciaio definita iron maiden, e infine legate immobili su un fianco alle sbarre delle gabbie in modo da avere le mammelle sempre esposte per la lattazione.

Una prospettiva ecofemminista, ha scritto Greta Gaard (Reproductive technology, or reproductive justice?, 2010) “rende visibile le cattive condizioni di salute e la sofferenza inflitta alle femmine di tutte le specie” da quelle da reddito, sfruttate per le loro capacità riproduttive “a quelle che lavorano in condizioni insicure e illegali per macellare altri corpi animali, a quelle madri che in gravidanza o allattamento bevono l’acqua o respirano l’aria inquinata dagli scarichi degli allevamenti intensivi, trasmettendo queste sostanze inquinanti ai figli, e infine a quelle che consumano i prodotti della riproduzione femminile nutrendosi degli antibiotici e degli ormoni della crescita oltre che della sofferenza di questi corpi, del loro latte e delle loro uova”.

Guardando, per esempio, all’industria della carne nella prospettiva dei lavoratori umani, ci si accorge di come siano stati soprattutto etnia e genere a definire sia la divisione delle mansioni sia le relazioni di potere – a loro volta inscindibili dai significati sociali e culturali del carnivorismo – in un settore come questo in cui le dinamiche di animalizzazione (emarginazione, discriminazione, degradazione, sfruttamento, sottrazione del tempo della vita) coinvolgono tutti i lavoratori, alienati dal proprio corpo ma anche dal corpo animale. Questi operai, definiti dai media “carne da macello” e che di sé dicono di essere trattati “come animali”, sono in maggioranza immigrati, molti dei quali illegali, sottoposti a mansioni ripetitive e turni massacranti (con un turnover annuo anche del 100%), e ad altissimo rischio di infortuni quasi mai denunciati per la mancanza di tutele, soprattutto amputazioni o malattie, da infezioni a lesioni muscolo-scheletriche peraltro molto simili a quelle contratte dagli animali, cui si aggiungono le violenze sessuali subite dalle donne più che in altri ambiti lavorativi (mentre alla diminuzione delle ispezioni governative per garantirne la sicurezza fa riscontro un aumento dei raid per espellere gli illegali).

Accanto alle gerarchie su base etnicaiv, le gerarchie di genere incarnate nelle architetture e nei dispositivi dell’industria della carne hanno riservato agli operai uomini le mansioni centrali legate alla lavorazione della carne fresca, l’uccisione degli animali e il controllo dei macchinari, e alle donne, per le quali lavorare in questo settore è sempre stato socialmente più sconveniente, il settore della carne lavorata (affettati e insaccati); fra le operai, poi, mentre le bianche erano in genere impiegate nelle mansioni di pulizia, alle donne afroamericane erano riservati i lavori meno appetibili e meno adatti a persone “sensibili”, svolti in ambienti caldi, umidi e maleodoranti (Horowitz, 2003).

Nella fabbrica globale dei corpi, la formula classica marxiana D-M-D’ potrebbe essere sostituita da quella B-M-B’, scrive Stefan Helmreich (Species of biocapital, 2008), dove la prima B indicherebbe il biomateriale, e B’ il biocapitale che si ottiene dalla trasformazione di B in merce (M); va evidenziato però, con Helmreich, che ciò non significa che B’ è contenuto necessariamente in B, come se i corpi fossero “naturalmente” contenitori di capitale, come se la produttività fosse l’essenza della specie, e gli organismi delle fabbriche naturali, ma che solo precise relazioni e condizioni socio-economiche rendono possibile la trasformazione di B in B’.

E se, per evitare di essenzializzare le “specie di capitale” da una parte, ma anche ciò rispetto cui queste diverse “specie” sono misurate, cioè il capitale stesso, si chiede Helmreich, “ci domandassimo non cosa succede alla biologia quando è capitalizzata, ma piuttosto se il capitale sia necessariamente il segno sotto il quale ogni incontro contemporaneo dell’economico e del biologico deve transitare?”. Problematizzando l’assunto specista implicito nella distinzione delle specie di capitale, dunque, potremmo destabilizzare l’idea che il capitale sia l’unica moneta di scambio, e lo scambio del capitale l’unica misura del valore, nei circuiti della bioeconomia?

In altri termini, nonostante l’attuale mobilitazione totale della forza lavoro – allo scopo in effetti di una sua totale immobilizzazione – in modi in cui dinamiche tradizionali e mezzi nuovi si combinano per colonizzare la produttività e riproduttività dei corpi animali tutti, la forza lavoro non può essere mai interamente attualizzata nel lavoro. L’abuso della potenza di un corpo alienato e mercificato, insomma, “non elimina la potenza di non fare parte della forza lavoro” (Ciccarelli, Forza lavoro, 2018) v. Comprendere perché, per chi e secondo quali relazioni sociali e rapporti di potere un (e quale) corpo diventa “produttivo” è fondamentale per una politica che rimetta i corpi in movimento, piuttosto che soltanto al lavoro. L’antispecismo, d’altronde, lungi dall’essere una nuova “definizione” da sostituire alle precedenti, andrebbe colto piuttosto come il movimento dei corpi im-propri, cioè smarcati da ogni forma di proprietà (Filippi, Il marchio della bestia e il nome dell’uomo), della specie come del capitale; il movimento verso la “dissipazione dell’oikonomia” e per la celebrazione di un’inoperosità im-potente, quella dei corpi in relazione che resistono in comune nella vita che, im-personalmente, li attraversa.

i Termine che uso nella consapevolezza che la natura dei corpi è sempre prodotta, che ovviamente non significa ignorarne la dimensione situata e incarnata, ma al contrario essere capaci di non considerarla come qualcosa di statico e pre-esistente ai modi possibili del suo accadere materialsemiotico.

ii Hribal cita per esempio il caso delle giovanissime “operaie del sesso” in Bangladesh che assumono steroidi normalmente somministrati ai bovini per acquistare peso e avere un corpo più “appetibile” e “in carne” per i clienti.

iii Tema, quest’ultimo, estremamente complesso e non esauribile in poche righe, rispetto al quale questa riflessione intende principalmente problematizzare la retorica della “libera scelta”, nella consapevolezza che il personale non è mai l’individuale, e che anche chi ricorre consapevolmente all’uso di queste pratiche non è mai svincolato dai circuiti e dagli apparati medici, economici, politici e sociali entro cui queste hanno luogo.

iv Gli ispanici sono subentrati agli est-europei ed agli afroamericani a partire dagli anni Sessanta, in concomitanza con una dequalificazione e precarizzazione del lavoro, la progressiva perdita del potere sindacale e la drastica riduzione dei salari.

v Purtroppo anche Ciccarelli, che pure sostiene che condizione migrante e femminile sono decisive per comprendere la forza lavoro contemporanea, esclude nella sua analisi qualsiasi considerazione dei corpi non umani al lavoro.

(immagine in evidenza: Miru Kim ‘The Pig that Therefore I Am’ (2010))

Trap or Die. Ecologie mediatiche e musica per smartphone

Quanto rumore possono fare due rolex allacciati sullo stesso polso? A giudicare da quanto avvenuto dopo il concertone del primo maggio, un sacco di rumore. E così, dopo il minimale tormentone di “Cara Italia” a fare da colonna sonora alle offerte di una nota compagnia telefonica, e mentre quattro ragazzotti dal look improbabile si affacciano dalla più seguita piattaforma di tv-on-demand,  anche il più pigro utente-medio italiano si è reso conto che qualcosa di nuovo stava effettivamente accadendo.

Sembra di stare allo zoo

La trap è entrata nella palude musicale del mainstream nazionale con l’effetto di un tuffo a bomba; e il problema non è tanto di chi si tuffa, quanto di chi nella palude vive e prospera. E’ comunque interessante notare il modo in cui i cerchi concentrici dell’impatto si siano via via allargati, suscitando riflessioni di carattere più ampio circa lo stato, gli obiettivi e il senso stesso del “popolare”, proprio quando questo è reclamato da più parti; e andando infine a lambire i confini di quel territorio dove il pop sfuma nel politico, con una intensità che in Italia non si vedeva da anni. Se una parte di critica musicale aveva aguzzato le orecchie già prima del botto vero e proprio, nell’anno in corso l’attenzione è cresciuta – di pari passo con l’indotto economico del genere – in maniera esponenziale. Abbiamo dunque assistito a un progressivo moltiplicarsi di opinioni, per lo più volte a fornire almeno le coordinate necessarie ad orientarsi in un territorio in cui chi è nato prima del 1990 rischia effettivamente di sentirsi come un pinguino nella savana. Variamente articolati nella forma dell’invettiva o dell’elogio, della satira o del reportage socio-antropologico, molti dei contributi mostrano tuttavia alcuni tratti in comune.

Instagram Story di Ghali.

Il primo potrebbe essere descritto come la tendenza tutta italiana allo spiegone. In questo caso, la coincidenza del definitivo sdoganamento della trap con l’attesa pubblicazione in lingua italiana di Capitalist Realism ha creato le condizioni per una proliferazione di spiegoni di portata addirittura sistemica. Indubbiamente il testo di Fisher fornisce una straordinaria quantità di appigli solidi, proprio nel momento in cui ogni vecchia certezza sembra dissolversi – e la trap può fare precisamente questo effetto. Ma ciò che sfugge a molti critici nostrani è che il compianto pensatore britannico ricavava le proprie considerazioni generali dall’analisi della cultura popolare, e non viceversa. E che, proprio in virtù della solidità teorica e dell’acuta sensibilità politica che fanno del realismo capitalista un paradigma affascinante quanto efficace, cercare di fare l’inverso non può che risultare un esercizio tanto semplice quanto sterile. Un secondo punto in comune a molti commenti appare l’incapacità di trattenere un giudizio di valore. E così, tra celebrazioni fuori misura del nuovo che avanza e astio rancoroso verso il peggio che dilaga, la critica si appiattisce inevitabilmente sulla recensione.

Più interessante che commentare il prodotto può invece risultare rivolgere l’attenzione verso il processo; provare a collocare il genere all’interno dell’ecologia mediatica da cui nasce e di cui si alimenta; cercare di cogliere la logica alla base di quel flusso continuo di immagini che della trap è probabilmente la caratteristica più genuinamente innovativa. Nell’autoaccreditarsi come padrino del nuovo stile, il rapper quarantenne Gue Pequeno ha affermato che la trap è musica “più interessante da guardare che da ascoltare”; una definizione che coglie nel segno più di molte cose lette finora. Ma allora che tipo di immagine informa la produzione musicale, e a che profondità?

Non puoi parlare dei miei contenuti fra / non hai l’età

E’ nel 1882, in seguito all’acquisto di una macchina da scrivere di fabbricazione danese, che la prosa di Nietzsche cambia improvvisamente forma: “from arguments to aphorisms, from thoughts to puns, from rhetoric to telegram style”, nella definizione data da Friedrich Kittler. Ed è Nietzsche stesso a riconoscere, nei propri scritti,  l’influenza delle tecnologie di scrittura sulla forma stessa del pensiero. D’altra parte, già McLuhan notava come il contenuto di un media sia sempre un altro media: il telegrafo contiene la stampa, che a sua volta contiene la scrittura, che a sua volta contiene la parola parlata. Anche la trap è assemblata all’interno di una simile matrioska di media. Al livello più interno c’è ancora la forma stessa del pensiero che, lungi dal rimanere intoccata, subisce il peso della stratificazione mediatica in maniera retroattiva. Ma cosa c’è dall’altra parte?

Instagram Story di Sfera Ebbasta.

Se i social sono sia la fabbrica che il termometro della celebrità in questo inizio di millennio, un rapido sguardo agli account degli artisti trap rivela come sia una piattaforma in particolare a restituire i numeri di un fenomeno genuinamente virale. I followers di Ghali, Sfera Ebbasta, Dark Polo Gang su Instagram superano quelli delle rispettive pagine Facebook di quattro o cinque volte (quattro o cinquecento nel caso di Twitter). Ciò è sicuramente sintomo di un più generale orientamento generazionale. Ormai invaso da genitori, insegnanti e vicini di casa, facebook non è più l’ambiente digitale in grado di garantire quel regime di invisibilità – o sarebbe meglio dire: visibilità protetta – che della rete resta una delle attrattive maggiori, soprattutto per un’utenza giovanissima. Ma è la stessa centralità accordata alla comunicazione verbale a rendere la piattaforma blu, oltre che faticosa (in un ecosistema fatto di parole trolls e haters prosperano), in un certo modo obsoleta. E a squalificare del tutto i cinguettii. Nel declassare il testo a semplice contorno di una portata unica costituita dall’immagine, Instagram si attesta come social che meglio incarna lo spirito dei tempi: il desiderio di costruirsi un’identità attraverso la produzione e la condivisione di immagini, e il sogno di riuscire a campare rivendendola agli altri. Qualche considerazione sul funzionamento del social più amato dai trappers e dai loro fan poco più che adolescenti può pertanto offrire una chiave di lettura efficace per penetrare i meccanismi che sostengono il genere, tanto in fase di produzione quanto in quella di fruizione.

Soldi in mano / no assegni / il mio culo / sopra una Bentley

Come Instagram, la trap è essenzialmente produzione di un flusso continuo di immagini discrete. Il meccanismo è immediatamente evidente nella stessa produzione lirica. I brani sono brevi, le strofe brevissime. Raramente una frase si sviluppa per più di due versi. La costruzione di una narrativa in senso tradizionale è schivata con agilità. Scollegata da quella che precede come da quella che segue, ogni immagine-verso galleggia autonomamente sul beat. Ciò che emerge dalla semplice giustapposizione è una sorta di minimale e frammentato storyboard attraverso cui sbirciare il mondo dell’autore: un’audioscrollata alla home page della durata di due minuti e poco più. Qui novità e ricercatezza non sono necessariamente punti di forza. La logica della condivisione virale opera per iterazione e rapidità, attraverso una continua variazione su un tema costituito dall’immagine stessa, a sua volta caratterizzata da contorni netti e visuale ridotta. Non a caso sono in massima parte immagini-selfie che compongono i brani: le stesse che, condivise sugli schermi degli smartphone, raccolgono più like. L’immagine-selfie è patinata, irreale, talvolta costruita a tavolino; ma è pur sempre fai-da-te. Non occorre una regia di qualità, ma solo una fotocamera abbastanza potente, e il giusto filtro. In questo senso la trap rappresenta un’alternativa reale alla dittatura di pop star assemblate in serie nei talent show a cui il nostro paese sembrava essersi assuefatto.

Il napoletano Enzo D.O.N.G.

La maggior parte degli artisti dichiara inoltre di non scrivere nulla prima di andare in studio, ma di farsi guidare dall’ispirazione del momento e dal beat. Ma il tecnicismo del freestyle è solo un ricordo. L’assonanza vince sulla rima, la similitudine sulla metafora, versi vecchi vengono riciclati senza tante storie. E’ il paradosso che accompagna l’immagine al tempo dei social; potenzialmente eterna, sicuramente di lunga durata, una volta collocata sull’asse del tempo la sua curva del valore mostra un crollo rapido ed esponenziale. Per questo motivo la produzione deve essere costante. L’originalità si sacrifica senza troppe remore sull’altare di una velocità spacciata per immediatezza e di una intimità digitalmente mediata. In questo senso, con l’introduzione delle stories (intuizione ripresa da Snapchat, non a caso un network popolato quasi esclusivamente da giovanissimi), Instagram è stato all’avanguardia nel mettere a profitto l’importanza della condivisione continua a scapito dell’archiviazione, in un modo che riesce inoltre a ridipingere una necessità di ordine economico (l’archiviazione costa) con i colori della spensieratezza e della trasgressione. Il present continuous dello stream e il continuo presente dell’immagine finiscono per coincidere nell’opzione now del tasto share. L’ecosistema che alimenta il flusso di immagini della trap esiste solo nel presente. Ed è precisamente di questa temporalità congelata che il genere si alimenta.

Queste scale sono il nostro trono / parlano la lingua che parliamo noi

Palazzine, droga, soldi. Il trittico della periferia disegna i tratti di una sorta di ghetto life 2.0. Una delle critiche che vengono mosse più spesso agli artisti trap in ascesa è relativa alla questione dell’autenticità: nell’atteggiarsi a duri, miliardari, gangster in erba o latin lover, ciò che manca è la giusta dose di street credibility. Ma utilizzare l’autenticità come parametro in base a cui valutare lo spessore della trap e quello dei suoi esponenti ha lo stesso senso del giudicare un elefante per i suoi risultati nel salto in lungo. Sebbene molti trappers possano vantare anni formativi spesi a zonzo in quartieri difficili, tra panette e scooteroni, la questione non è delle più urgenti. Associato inevitabilmente al rap della golden age attraverso il mantra del keepin it real, il dogma dell’autenticità nell’era di Instagram è del tutto evaporato. Non importa chi tu sia o cosa tu faccia, quanto ciò che mostri nel breve tempo concesso dalla story o nello spazio rigidamente squadrato che del social è il marchio di fabbrica. E, quando il capitale umano diventa bidimensionale, il fotoritocco non è più la spia di una mancanza ma un valore aggiunto che precisamente nella sua prevedibilità moltiplica la propria attrattiva – come un’optional di serie su un’utilitaria.

Instagram Story di Dark Side, ripresa dal canale Youtube ‘Social Boom’.

Questa sfuggente aderenza tra identità e immagine è ciò che innesca il meccanismo della monetizzazione, che su Instagram funziona in un modo che per le altre piattaforme è difficile imitare. I followers non cercano un prodotto musicale: non solo, non subito, e neanche principalmente. Sono piuttosto attirati dalla promessa di una connessione immediata e non-mediata, che del social è in apparenza la dimensione privilegiata; ma scoprono presto che lo spazio concesso all’interazione diretta è in realtà intenzionalmente ridotto al minimo. In fondo, chi è che legge davvero i commenti alle foto, o risponde ai messaggi privati associati alle stories con più di un cuoricino distratto? Probabilmente nessuno – e sai che fatica, dal cellulare. Se lo schermo come dispositivo mette in comunicazione ma allo stesso tempo separa senza via di scampo, grazie alle dimensioni ridotte quello dello smartphone svolge una ulteriore funzione di filtro. Non resta allora che accontentarsi di rosicchiare l’immagine dei propri beniamini a piccoli morsi; masticarne porzioni sperando che contengano il segreto della fama e del successo; rivolgersi al contorno, visto che la portata principale resta inafferrabile, e destreggiarsi tra quei marchi che dagli account fanno volutamente capolino. Chiaramente ciò non avviene solo nel caso della trap. E’ tutto il fenomeno dell’influencing come pratica economica e culturale che nell’autenticità diluita di Instagram trova il proprio liquido amniotico. La trap è tuttavia il primo genere musicale che si appropria coscientemente di questa dinamica per compiere il passaggio da un lato all’altro dello schermo. In tempi rapidissimi.

Fotogramma dal videoclip ‘Bomber Ve’ di Quentin40, 2017.

Come surfisti digitali, gli artisti trap attendono con genuina passione l’onda di sharing in grado di catapultarli dall’altra parte. E spesso accade. E’ per questo che il trittico della periferia rappresenta nel migliore dei casi solo una fase embrionale nello sviluppo di una poetica genuinamente trap – Sfera docet, mentre il pur valido Enzo Dong dall’onda sembra piuttosto sballottato avanti e indietro. In fondo il collegamento tra i due mondi non va inventato, ma solo percorso. Il ponte esiste già. E’ lastricato di banconote, si percorre in abiti firmati. E, possibilmente, con un bel pò di roba in tasca.

Sogni andati in fumo / e in tasca ho 4G

Grammi su grammi su grammi. La trap riproduce una dimensione narcosonica specifica. L’erba è la sostanza di gran lunga più citata: dismessi gli aspetti rituali e fricchettoni, il suo consumo è misurato ed ostentato, soppesato ed esibito, in accordo all’hashtag #instaweed che impazza tra i giovani fumatori. Ma la marijuana non fa che esorcizzare la vera presenza che infesta il palazzo. Il fumo di ganja riempie la stanza fino a rendere l’elefante che la abita invisibile. Se la purple drank si attesta come stupefacente fai-da-te più caratteristico dell’immaginario trap, la cocaina offre una chiave di lettura impareggiabile per cogliere la logica che sostiene il genere. Nominata di rado e quasi mai direttamente, e al di là del suo effettivo consumo, la bianca signora può funzionare da ingranaggio invisibile capace di gettare luce sul funzionamento dell’intera macchina.

Un pò di Purple Drank pronta per la festa.

La coca è spesso descritta come la sostanza che meglio incarna lo spirito del capitalismo avanzato perchè permette di essere più veloci e più brillanti, di lavorare di più e più in fretta. Ma non è certo l’immagine del lupo di Wall Street a rappresentare al meglio le modalità del consumo generalizzato odierno. Se pure un vago appeal sociale è  sopravvissuto ad una democratizzazione della sostanza avvenuta a scapito della qualità, ciò non toglie che oggi la gente per lo più pippa monnezza; senza bisogno nè speranza di aumentare le proprie prestazioni. Se la cocaina intrattiene un legame privilegiato con lo stesso humus culturale da cui la trap viene fuori, il motivo è piuttosto da ricercarsi nella modalità specifica di un consumo ripetitivo e spensierato, veloce e poco impegnativo. La cocaina misura il tempo in righe, e il tempo di ogni riga è il presente. L’assonanza con l’assuefazione da social media è tutt’altro che casuale. Entrambe promettono un aumento della connettività per rivelarsi esperienze essenzialmente solitarie, e caratterizzate da una tonalità affettiva che, nel peggiore dei casi, oscilla tra l’invidia sociale e la sociopatia paranoica. Presenza nascosta ma insistente, la cocaina stabilisce lo standard di consumo applicato a tutti gli altri beni che – questi sì – vengono continuamente nominati. Io non lavo, stiro, vado al negozio e lo compro nuovo, canta Side della DPG. Il consumo certifica il possesso, ed è con quello che ci si fa strada dentro e fuori lo schermo. Grammi su grammi su grammi.

Ricchi per sempre

Soldi, donne, grandi firme; dall’altra parte dello schermo c’è una vita fantastica. Ma la controparte delle palazzine non sono le maglie di Ferragamo o le borse di Gucci. Al contrario, queste coesistono pacificamente nell’immaginario sociale ghetto-chic che il tardo capitalismo propone come migliore offerta sul piatto a buona parte dell’umanità urbanizzata del pianeta, e in cui anche i cavallini si possono conquistare il cavallino sulla maglietta. “Gucci è Gucci in tutto il mondo”, afferma Dark Wayne in un’intervista. Si potrebbe aggiungere che Gucci è Gucci in tutti i mondi; e che, proprio come la cocaina, tra questi mondi fa da ponte.

Copertina del singolo ‘Diego Armando Maradona’ della DPG, 2018.

Tuttavia l’imperativo del fare soldi resta probabilmente la parte più indigeribile del genere, capace di spiazzare la critica e polarizzare il pubblico. Ciò dipende in buona parte dal peso di un certo rap politicizzato sullo sviluppo di una scena  nazionale. Nel viaggio verso il nostro paese la parte cattiva del boom-cha ha perso l’aereo; il rap è arrivato in Italia spogliato delle contraddizioni proprie del genere. Se Milano non è certo Los Angeles, né Cinisello il Bronx, non mancano anche da noi periferie segnate da criminalità ed emarginazione. Ma, già svuotate della questione razziale, queste venivano inevitabilmente inserite (salvo rare eccezioni – una per tutti: l’indimenticato Joe Cassano) in una narrativa in bilico tra realismo e redenzione. Adesso invece i brutti quartieri diventano poco più che una scenografia già pronta per fare da sfondo a una disinvolta quanto aggressiva scalata sociale.

Con sgomento di molti, il sottoproletariato urbano si può oggi ritrovare – orizzontale, inclusivo e multietnico – riunito attorno al desiderio di un’auto di lusso piuttosto che dietro uno striscione. Allo stesso modo, la superstar italo-tunisina Ghali delude i sostenitori del conflitto sociale a tutti i costi affermando senza vergogna che lui, a questa Italia avara di diritti e pure un po’ razzista, in fondo vuole bene. Ma i delusi non si accorgono che  il suo volto mezzo-sangue e la sua fisicità sbilenca, accoppiati all’accento padano e ai completi di sartoria, fanno implodere la narrazione esistente più di qualunque dichiarazione incendiaria. In altre parole, se le maglie del sistema si fanno troppo strette per un cambiamento su larga scala, l’hackeraggio momentaneo e l’intercettazione parassitica dei flussi di denaro possono diventare tattiche di guerriglia tutto sommato valide.

Fotogramma dal videoclip ‘Cara Italia’ di Ghali, 2018.

E’ allora rilevante osservare come la celebrazione del successo si colori spesso e volentieri delle tinte del fantasy. Affollati di animali tropicali e ambientazioni esotiche, i videoclip più maturi rendono manifesto il potere dell’immagine di operare a livello di costruzione della realtà più che della sua rappresentazione. Lungi dall’influire sul reale in termini di diminuzione, il filtro di Instagram sfida i limiti della realtà stessa. Allo stesso modo, i suoni abbandonano la stratificazione semantica del campionamento e la corporea solidità dell’hardware analogico per volgere interamente al suono di sintesi computer-based. Nella ricerca di un’intonazione perfetta, le voci sottoposte ad autotune finiscono per assomigliarsi tutte. Ma, dopotutto, ciò che accade fuori dall’inquadratura a chi interessa davvero?

La mia Faccia sopra un Magazine

La Dark Polo Gang è probabilmente la formazione che più di ogni altra ha saputo cogliere e sfruttare questa sorta di bug nel sistema. I primi milioni di views collezionati erano dovuti più all’ilarità generale che ne accompagnava le spacconate che a un vero apprezzamento. Un paio di anni più tardi, la DPG è una realtà indipendente dal fatturato notevole e la protagonista di una docu-fiction dedicata su Netflix, mentre il suo slang viene registrato dalla Treccani. In altre parole, accoppiate al giusto filtro e debitamente ripetute, le spacconate hanno piegato la realtà a propria immagine e somiglianza. “Ci siamo creati un nostro film, una nostra serie televisiva, e adesso ci stiamo dentro.”

Fotogramma dal videoclip di Magazine della DPG. 2017.

Parallelamente, dagli esordi a tinte decisamente cupe, i brani (e soprattutto le immagini che li accompagnano) si sono progressivamente colorati di rosa. Intanto, una crescente dose di autoironia rendeva  esplicito il meccanismo alla base del loro successo, proprio nel momento in cui questo trasbordava dal set alla vita vera. Nel clip di Caramelle, per molti versi insuperato, i soldi sono foglietti colorati e si fa festa con bibite gassate; le droghe diventano, come da titolo, poco più che zuccherini, e la band si atteggia a suonare strumenti che nel beat non compaiono neanche campionati. Allo stesso modo, i quattro trapper romani (adesso diventati tre) riescono a tenere insieme il più sgradevole linguaggio sessista con una estetica post-romantica tutt’altro che eteronormata, fatta di occhiali da donna e pellicce colorate, bacini e cuoricini (anche questi definitivamente sdoganati da Instagram), e capace di far arrossire i rapper – quelli sì, decisamente maschi – della vecchia generazione. Il risultato è che le ragazzine li amano, e i ragazzini risparmiano sulla paghetta per comprarsi una pochette di pelo firmata. E’ lecito a questo punto domandarsi come faccia questa architettura traballante a stare in piedi con tanta solidità.

Instragram Story di Sfera Eebbasta ripresa dal canale Youtube ‘Trap News’.

E’ tutta una questione di attitudine, spiega ancora Dark Wayne con innegabile lucidità: “La vita non è quello che fai, come lo fai, se lo fai bene… La vita è energia. Bisogna credere al karma.” Ma di che natura è allora questa energia, e a quale logica risponde il karma che la accompagna? L’energia che sostiene la trap è in buona parte il flusso di bytes che viaggiano incessantemente da un cellulare all’altro attraverso le stories, le dirette e i selfies. Subito riprese da altri account, canali youtube dedicati e siti di clickbaiting, questi producono una sorta di rumore di fondo crescente; un feedback loop di dati che si può tradurre infine, in un punto qualsiasi della catena, in rapida monetizzazione. E’ qui, e non altrove, che un’attitudine positiva stimola una risposta positiva del pubblico, in una sorta di social-karma anch’esso digitalizzato. Come una festa noiosa dove suona un gruppo indie di trentenni depressi, la realtà è ormai una faccenda di scarso interesse. Ma se la festa non piace si può sempre scappare dalla finestra per poi farvi ritorno dal portone principale, carichi di erba e sciroppo per la tosse, pronti a ribaltare il party. A festa finita (e sbornia trascorsa), se quel che rimane in tasca siano le briciole concesse dal capitalismo di piattaforma o il frutto di una strategia politicamente spregiudicata per riappropriarsi del maltolto, resta una questione tutta da verificare. Ma, per come stanno le cose, vale forse la pena di aspettare la prossima story.