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Algeria 2019: proteste popolari e media nazionali

di Saida Benammar e Viola Sarnelli

Saida Benammar è Assistant Lecturer in Media studies al C.U.R., Centro Universiario di Relizane, Algeria. La sua ricerca guarda soprattutto l’uso dei social media e le pratiche giornalistiche in Algeria. Ha iniziato a collaborare con TRU in seguito a una residenza presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Orientale.  
Viola Sarnelli ha studiato il ruolo di Al Jazeera e dei nuovi media nelle proteste arabe del 2011 per il suo dottorato in Studi Culturali e Postcoloniali all’Orientale. Nel 2014/2015 ha lavorato come ricercatrice in Algeria e ha pubblicato contributi sulle riforme mediatiche post-2011 in Nord Africa.

 

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La nuova ondata di proteste anti-regime in Algeria va avanti da ormai più di un mese. Èun processo in corso che lascia aperti per il momento diversi scenari, ma una cosa sembra certa: le proteste continuano più forti di prima, anche dopo che il presidente ha ritirato la sua candidature per le prossime elezioni. Proviamo a tracciare di seguito una cronologia essenziale degli eventi dell’ultimo mese, seguita da qualche appunto su come i media nazionali li hanno riflessi e influenzati.

 

Algeri, 8 marzo 2019. Fonte: Twitter

 

Cronologia / Vacanze inaspettate e una vittoria parziale

 

10 febbraio. Con una (lunghissima) lettera ai suoi cittadini pubblicata dall’agenzia di stampa nazionale, Abdelaziz Bouteflika conferma ufficialmente che correrà per il suo quinto mandato da presidente. Pur volendo ignorare il degrado economico e sociale in cui versa il paese, il problema principale di questa candidatura è che il presidente ottantaduenne non parla in pubblico dal 2013, data in cui è stato colpito da un ictus, e la gestione del potere sembra quindi essere da tempo in mano ad altri. Diversi partiti di opposizione decidono di boicottare le elezioni in segno di protesta. Una settimana dopo l’annuncio, il dibattito via social media tra un candidato di opposizione e il sindaco pro-Bouteflika di Khenchela, nell’est del paese, sfocia in una prima manifestazione durante la quale un grande poster del presidente viene tirato giù dalla facciata del municipio.

 

22 febbraio. L’appello per una manifestazione nel pomeriggio del 22, dopo la preghiera del venerdì, si diffonde rapidamente su Facebook e Twitter. Nonostante un’interruzione mirata dei servizi informatici nella capitale e dintorni, la partecipazione è impressionante e va ben oltre le previsioni politiche e mediatiche. L’Algeria non vede questi numeri da decenni. È un successo marca un punto di svolta sia rispetto a un divieto di assemblamento che persiste dal 2001, sia rispetto alla più generale e consistente paura della violenza che dopo la traumatica guerra civile degli anni Novanta è stata usata per scoraggiare molte iniziative politiche indipendenti. L’apparizione di un gruppo di provocatori alla fine della manifestazione e i conseguenti minori scontri con la polizia non rovinano comunque i risultati di un evento fondamentalmente pacifico.

 

27 febbraio. Una fugadi notizie rivela una conversazione tra il direttore della campagna elettorale di Bouteflika, Abdelmalek Sellal, e Ali Haddad, presidente del consiglio nazionale degli imprenditori, in cui i due auspicano l’uso della violenza contro i manifestanti. Per placare l’indignazione diffusa che segue la notizia viene nominato un nuovo direttore della campagna elettorale, il già ministro dei trasporti e lavori pubblici Abdelghani Zaalan.  

 

1 Marzo. Una nuova manifestazione nazionale è indetta via social networks. Nonostante la maggior parte dei media statali si sia concentrata solo sugli scontri tra polizia e manifestanti del venerdì precedente, l’affluenza stavolta è molto più alta. La manifestazione si oppone specificamente alla registrazione ufficiale della candidatura di Bouteflika, che deve avvenire entro il 3 marzo.

 

3 Marzo. La candidatura è depositata e sostenuta da più di 5 milioni di firme – provenienti per lo più da cittadini sotto pressione o impiegati governativi, sostiene l’opposizione. Lo stesso giorno il Presidente si rivolge ai suoi elettori con un’altra lettera pubblica in cui prende atto del grido di protesta popolare («cri du cœur») e promette profonde riforme costituzionali, elettorali e ‘sistemiche’ una volta eletto – comprese nuove elezioni anticipate alle quali non prenderà parte.

 

8 Marzo. Una manifestazione eccezionale sotto molti aspetti, nel giorno che coincide con la giornata della donne incoraggiando maggiore presenza femminile e di famiglie. Più di un milione di persone sfilano ad Algeri, senza contare le altre a Oran, Constantine, Bejaia, Tlemcen. Stavolta anche la conclusione è pacifica, senza l’interferenza di gruppi esterni e nessun intervento di polizia. «Repubblica e non regno» è uno degli slogan che unisce partecipanti molto diversi tra loro, occasionalmente raggiunti da alcuni personaggi noti, come l’eroina della guerra anticoloniale Djamila Bouhired.

 

9 Marzo. I manifestanti finora contano adesioni da diversi settori professionali (in particolare giornalisti, avvocati, magistrati, insegnanti) ma un ruolo fondamentale è giocato ancora una volta da studenti e giovani in generale. Per scoraggiare la partecipazione degli universitari nella capitale, il ministero dell’educazione e ricerca decide repentinamente di anticipare l’inizio delle vacanze di primavera di dodici giorni, chiudendo tutti i campus per rimandare a casa gli studenti fuorisede. Il risultato è la vacanza di primavera più lunga nella storia dell’università algerina.  

 

8-10 Marzo. Un invito a organizzare azioni di disobbedienza civile circola sui social media e diversi gruppi sperimentano questo approccio per aumentare la pressione sul governo. Le iniziative sono sparpagliate in tutto il paese e molto variegate – si va da chiusura di negozi, sciopero di lavoratori portuali e dei trasporti pubblici, chiusura di scuole – e non trovano spesso grande supporto.

 

11 Marzo. Bouteflika annuncia che non correrà per un quinto mandato. Questa è considerata però solo una vittoria parziale dai manifestanti, dato che il presidente annuncia anche che le elezioni non avranno più luogo in aprile come previsto, e che seguiranno invece una conferenza nazionale su riforme politiche e costituzionali prevista per la fine dell’anno. Molti considerano il rinvio delle elezioni una mossa incostituzionale, e la situazione nel paese rimane tesa. La manifestazione che segue l’annuncio, il 15 marzo, registra il più alto numero di partecipanti dall’inizio delle proteste.

 

Algeri, 15 marzo 2019. Fonte: Facebook

 

Il silenzio dei media statali

Mentre il movimento dà forma rapidamente e spontaneamente a manifestazioni di massa, la maggioranza dei media nazionali non si trova nella posizione di offrire nessuna rappresentazione imparziale o oggettiva degli eventi. In generale questa possibilità è piuttosto distante dalla realtà dei media pubblici algerini e in particolare dei canali televisivi – tuttora la prima fonte di informazione per la maggior parte della popolazione – che hanno sempre accuratamente evitato di dare spazio a storie che potessero mettere in discussione l’immagine del governo. Come dicono spesso gli algerini, il paese nel telegiornale (“Il telegiornale”, quello del canale pubblico principale, ENTV) non assomiglia per niente al paese in cui viviamo.

 

Nonostante queste premesse, molti Algerini si sono comunque ritrovati a guardare il telegiornale serale del 22 febbraio, solo per constatare increduli che non vi era alcuna traccia delle manifestazioni di massa appena concluse in tutto il paese. La settimana seguente, il silenzio dei media statali viene rotto con qualche commento frettoloso sul fatto che molti algerini sono in strada, senza prestare troppa attenzione al perché’ di queste azioni. Il dibattito sui social media e la documentazione delle proteste intanto cresceva di giorno in giorno. Il 27 febbraio un gruppo di giornalisti della televisione pubblica organizza una protesta, esasperati dalla linea editoriale del loro datore di lavoro. In questo contesto ha quindi fatto grande impressione l’agenzia di stampa pubblica APS (Algérie Presse Service), parte dello stesso conglomerato, dichiarando che quelle migliaia di persone nelle strade erano lì per chiedere al presidente di ritirare la sua candidatura.

 

Pratiche mediatiche che rimandano alla Primavera araba

Ci ricordiamo ancora dello storico momento in cui la televisione pubblica algerina aprì le braccia a un gruppo di giovani attivisti invitandoli in un programma televisivo e dandogli l’insolita libertà di esprimere le loro opinioni, idee e rivendicazioni. Era il 2011, e questo era uno dei tentativi di contenere la rabbia crescente nel paese. La stessa scena si è ripetuta stavolta con il crescere delle manifestazioni, e l’adesione di diversi settori professionali. Questa volta però il dibattito politico televisivo avviene sia nei canali pubblici che in quelli privati, fondati dopo la liberalizzazione del settore audiovisuale – una delle concessioni del regime alle proteste del 2011. Un programma settimanale, Hiwar Elsaàa (Le dialogue de l’heure) sul pubblico ENTV ha iniziato ora a invitare ospiti che discutono gli eventi in corso e commentano anche questioni serie come corruzione, disoccupazione e libertà di informazione. Questi argomenti sono ancora generalmente inesistenti nel settore pubblico, e riflettono ancora una volta una problematica visione della neutralità dei media che sembra essere strutturale più che episodica.

 

Media privati tra libertà di espressione e realtà dei finanziamenti

Nonostante alcune aperture, la situazione dei media privati in Algeria rimane complessa data l’intransigenza del governo, che non accetta nessun cambiamento reale nell’ambiente mediatico ne’ ammette una reale autonomia finanziaria per i canali privati. La maggior parte sono infatti ancora dipendenti dalle inserzioni pubblicitarie distribuite dall’agenzia statale a tutti i quotidiani – e la  maggior parte dei canali televisivi privati sono emanazioni di quotidiani indipendenti preesistenti. Questo significa che il governo può efficacemente impedire ai media privati di coprire liberamente le mobilitazioni popolari minacciando di tagliare tutta la pubblicità, come è appena accaduto nel caso di compagnie mediatiche molto popolari come Echouruk (giornale e canale TV) e El-Bilad (giornale e canale TV) in seguito ai loro resoconti troppo liberali delle proteste. Allo stesso tempo, l’unico canale privato in tutto e per tutto leale al regime, Ennahar TV, continua senza remore a concentrarsi solo sui danni alla proprietà pubblica causati dai manifestanti, e dagli scontri con la polizia seguiti ad alcuni cortei. Inutile dire che gli interventi di questi gruppi di provocatori sembrano seguire il ben noto schema ben noto al governo egiziano con il suo uso di criminali e provocatori nella rivoluzione del 2011 – eppure questa rimane l’immagine principale promossa dai media pubblici e privati pro-regime. Il paese aspetta intanto i prossimi sviluppi politici, e cerca attivamente di influenzarli, sperando che si accompagnino finalmente anche a un cambiamento nelle narrative mediatiche dominanti.

 


Memorie di un archivio futuro: politiche dell’immagine dal mondo arabo post-2011

Il 24 e il 25 maggio alla John Cabot University a Roma si svolgerà il workshop “The Arab Archive: Mediated Memories and Digital Flows”, un incontro di due giorni dedicato all’economia politica dell’immagine araba tra materialità, etica ed estetica della sua produzione, distribuzione e archiviazione dal 2011 in poi. Il workshop, che vedrà la partecipazione di ricercatori, attivisti, artisti e curatori dal mondo arabo e non solo, rifletterà sulla questione della rappresentazione e delle politiche della memoria nel contesto arabo, schiacciato adesso da guerre civili, violenze o processi contro-rivoluzionari. Ripensare agli archivi digitali nel mondo arabo post-2011 vuol dire interrogarsi non solo sul ruolo del passato nelle conflittualità del presente, ma soprattutto su quali sono i soggetti e i poteri coinvolti a molteplici livelli geografici, locali e internazionali, nel modellare le politiche degli archivi, particolarmente alla luce delle potenzialità della tecnologia digitali nel facilitare i processi di condivisione e archiviazione del passato. Il programma dell’evento si può trovare a questo link; qui il programma della tavola rotonda “The revolutions won’t be televised. Immagini e archivi dalle rivolte del 2011”, che si svolgerà il pomeriggio del 24 a ESC Atelier.

 

May amnesia never kiss us on the mouth. May it never kiss us. Così scrivevano Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, artisti visuali palestinesi, in un intervento contenuto nel volume collettaneo You Are Here. Art After the Internet. Pensavano al desiderio che spinge a conservare frammenti di tempo, e a come sia possibile nel virtuale produrre e riprodurre continui archivi della contemporaneità, tramite piccole operazioni scandite dalla banale riproduzione della routine del cercare, scaricare, tagliare, incollare, copiare, documentare, caricare, postare, bloggare, twittare… Gli artisti palestinesi discutevano di quanto la dimensione e la pratica dell’archivio avesse riguadagnato centralità nei pochi anni precedenti, complice l’inversione di rotta avviata dalle nuove tecnologie che ha drasticamente infranto l’elemento statico e la processualità gerarchica dell’archivio, così come hanno testimoniato le vicende che hanno destabilizzato la regione del Nord Africa e Medio Oriente dal 2010, momento in cui siamo stati testimoni della possibilità di trasformare istantaneamente un evento in un file archiviale semplicemente riversandolo in maniera immediata nel ben più grande archivio di Internet. Ciò ha scompaginato lo scenario, presentando nuove pratiche di appropriazione, ri-archiviazione, documentazione, ri-narrazione, come prodotte in massa, ma soprattutto pubblicamente e performativamente, non solo come conseguenza e testimonianza, ma anche come componente del momento fisico di rivolta. L’idea di produrre archivi dissonanti in tempo reale, mente gli eventi si svolgono, può essere compreso, scrivevano sempre Abbas e Abou-Rahme, come un modo fondamentale per interrompere lo spettacolo del potere, e non solo condividere informazioni.

Oggi l’impulso a documentare, salvare e narrare il momento è ovunque, e la produzione collettiva e sempre crescente di archivi soggettivi, orizzontali, critici tra i paesi del mondo arabo esprime in maniera radicale il desiderio di ricominciare a interrogarsi, a partire da questo, sulle modalità di costruzione e decostruzione della storia, del passato e dell’attuale; un processo in cui per l’archivio non è solo contenimento e produzione di dati, ma soprattutto un dispositivo che può e deve mettere in discussione la sua funzione e il suo contenuto, per sovvertirlo dall’interno e renderlo vivente.

 

Screenshot homepage archivio egiziano 858 (https://858.ma)

 

Si tratta di una discussione che da una sponda all’altra sta prepotentemente attraversando, tanto in maniera teorica quanto pratica, i paesi del Nord Africa e Medio Oriente, tagliando trasversalmente geografie e temporalità, per diventare oggetto di pratica e discussione da parte di ricercatori, studiosi, ma soprattutto attivisti e artisti.

In questi anni, lo slancio politico e il potenziale liberatorio, la vitalità creativa che si impone di salvare il desiderio dall’egemonia della cannibalizzazione archiviale così come è stata conosciuta finora, quella dello spettacolo del potere, ha dimostrato di essere espressione anche di un riguadagnato diritto alla parola, di un’assunzione di agentività. La genesi di tali dissonanti e proliferanti archivi, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Siria alla Palestina, è allora in sé un atto di dissenso e di resistenza dalla trappola della rappresentazione, una delle tante possibili articolazioni della creazione di un nuovo radicale immaginario politico. È pur vero che un eccesso di informazioni potrebbe paradossalmente portare all’amnesia, ed è questo che potrebbe accadere dinanzi al flusso straripante e troppo accelerato di dati auto-prodotti nell’archivio digitale, tuttavia questo non deve condurre a una derubricazione dell’atto archiviale. Bisogna allora affrontare la questione allargando lo sguardo verso un nuovo immaginario.

Qui, praticare l’archivio vuol dire non solo contrastare la monopolizzazione della memoria degli archivi ufficiali, o l’obliterazione di memorie altre, sopraffatte dalla verticale gravità del potere, ma soprattutto ricostruire un nuovo senso di archiviare, che nasce soprattutto dalla ridefinizione di chi può farlo, e dalla plasticità linguistica e testuale di ciò che compone l’archivio. Un percorso che ha a che fare tanto con la memoria che con la creazione di un percorso per il futuro, poiché l’intento di questi archivi non è solo il preservare, quanto il localizzare le testimonianze come strumenti di resistenza e farle circolare; oltre alla possibilità di creare alleanze trasversali contro le privatizzazioni dell’archivio, ma soprattutto contro l’egemonia delle narrazioni della storia, della distribuzione del potere e del disciplinamento del dissenso.

Di immagini, spettacolarizzazione e cannibalizzazione, particolarmente nello scenario siriano, abbiamo discusso recentemente con Donatella Della Ratta, organizzatrice del workshop che si terrà alla John Cabot University e docente di Communications and Media Studies presso la stessa università statunitense a Roma. Donatella Della Ratta è stata ospite della TRU e del Centro Studi Postcoloniali e di Genere del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali (Università L’Orientale di Napoli) lo scorso aprile per un seminario sul suo libro di prossima uscita per Pluto Press, Shooting a Revolution: Visual Media and Warfare in Syria, e per una performance svoltasi presso L’Asilo, dedicata alla Siria e all’archivio personale di immagini della rivoluzione di Bassel Khartabil aka Safadi, attivista pacifista siriano, scomparso e poi morto nelle carceri siriane, parte attiva di quella comunità di arab geeks e techno-savies, che aveva contribuito a formare una cultura digitale in Siria e nel mondo arabo e a dare un contributo attivo agli effettivi sommovimenti sociali scoppiati nella regione tra il 2010 e il 2011.

 

Immagine dalla performance “L’immagine sparita”

 

Quello di cui Bassel Khartabil era un appassionato esponente era una forma di cultura digitale che nello scorso decennio ha travalicato i confini nazionali, riconnettendo gli arabi a diverse latitudini e contesti, in una dimensione collettiva e reticolare, accomunata in maniera sinergica e solidale (e le campagne per la liberazione dei mediattivisti detenuti ne sono ancora un esempio) da una visione della tecnologia come possibilità trasformativa della società: tecnologia significava tanto il simbolo della libertà di espressione quanto lo strumento attraverso cui conquistarla. Un’idea per cui le pratiche legate alla tecnologie digitali del curare, proporre contenuti, condividerli, erano e sono indistricabilmente legate a riconnettere il mondo dell’online con tutto quello che c’è fuori, il virtuale con le molteplici pratiche dell’attivismo sociale, in un’ottica che non ha nulla a che vedere con un determinismo tecnologico, ma che guarda a come l’ecologia e la pratica della cultura digitale (nei suoi molteplici aspetti, dal coding al blogging) possa avere informato un network di relazioni e sviluppato progetti per promuovere la libertà di espressione, di condivisione di informazioni, di coscienza dell’open source, e in definitiva, un cambiamento politico e sociale.

L’esplosione degli archivi digitali sembra poter riportare indietro tutto questo, rimostrando con vigore questa cultura dell’attivismo digitale, costretta negli ultimi anni a sopravvivere in uno scenario fagocitante, in cui sono diventati bulimici la produzione e il contenuto di immagini e visioni opposti e violenti, in cui i soggetti sono definiti e determinati dall’immagine, un’immagine violata che non è più rappresentazione, né tantomeno testimonianza, piuttosto è in antitesi di entrambi. Lo scenario attuale della produzione e circolazione delle immagini, particolarmente in Siria, sembra raccontarci di una dispersione, dissipazione e dissoluzione dei significati. In riposta a questo collasso, c’è però credo ancora una possibilità di interferenza, e di intervento, una risposta a queste forme di digital warfare e militarizzazione delle immagini.

Se è vero che la politica di testimonianza pubblica degli archivi digitali deve scontrarsi con la proliferazione di regimi visuali violenti e il fallimento dell’immagine-evidenza in favore dell’immagine indegna e non dignitosa, è nel lavoro con gli archivi, nella loro doppia intenzione, talvolta coincidente, di pratica documentaria ma anche creativa, che c’è una possibile strada per ridare operatività alle immagini, e ricostruire realtà e dimensioni di significato. Oggi, l’immagine della rivoluzione, già condannata all’estinzione perché forse lontana dai canoni di spreadability e di potenza riproduttiva, è sparita, insieme a chi questa rivoluzione l’ha tentata, cancellati virtualmente e fisicamente dalla sfera pubblica. Ma possiamo conservare una genuina, forse ingenua, credenza che negli interstizi ci sia una possibilità, come testimonia nonostante tutto questa forte politica attiva di resistenza contro l’uso mainstream delle immagini, guidato dal mercato dell’informazione e dall’ipertecnosocialità, e contro l’apparente irrefrenabilità delle immagini digitali di violenza, come per esempio il lavoro del collettivo di video-maker siriani Abounaddara ci racconta.

Certamente questo tipo di immagini altre e questi archivi operano in un circuito che viaggia ad un’altra velocità, forse non riuscendo ancora ad essere tanto effettivi quanto affettivi, o ad uscire dall’opacità, ma sono senza dubbio l’espressione dello sforzo di ricostruire i tasselli delle troppe “immagini mancanti”, e definire una nuova politica dell’immagine che strappi i soggetti a una visione voyeuristica, orientalista e compassionevole. Si tratta di un approccio vitale ed eticamente complesso, si tratta di scrivere una storia che si dispiega giorno per giorno, e di un modo per riportare quell’esplosione di energia scaturita con la rivoluzione nei diversi paesi, costruire una nuova temporalità, con le sue disgiunzioni e interruzioni, e con i suoi futuri possibili, tentando una reazione all’evacuazione del significato, e costruendo perciò un senso differente per questi nuovi archivi visuali e di memorie, per resistere alla vulnerabilità e all’obliterazione.

(Olga Solombrino)