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Futuro Remoto: appunti per un’archeologia del futuro.

La vita è assurda

Lo dice sempre Mike. Nella sua casa su Prinsengracht, nel centro di Amsterdam, si finisce sempre sul divano, a discutere di esistenzialismo, arte, storia, Europa, Brexit, la lingua e l’etimologia. Ogni volta che si alza per versare un bicchiere di whiskey o prendere una lattina di birra fredda sul balcone, Mike chiude o apre una conversazione col suo mantra preferito: la vita è assurda. L’assurdo l’ho incontrato per la prima volta al liceo, leggendo Il Mito di Sisifo e Lo Straniero di Camus. Mi piaceva l’adozione di uno sguardo nichilista sul mondo, perché mi restituiva un senso del reale disilluso e perché mi permetteva di mettere in discussione tutto quello su cui non ero d’accordo: le ore di religione, il modo in cui mi venivano spiegate la storia, la fisica e la matematica. Ero una studentessa allora, e anche oggi, a volte, quando mi siedo sul divano di Mike, mi sembra di essere ancora al liceo, quando provavo a colmare il divario tra la stranezza del mondo e il desiderio di ingabbiarlo in un’unità di senso. L’assurdo rimaneva nello scarto, ciò che non poteva essere completamente conosciuto, l’intraducibile. Più tardi, all’università, ho imparato a fare pace con tutto ciò che è altro dai miei parametri di conoscenza, e quello che prima era assurdo, è diventato poi un modo, tra tanti, di stare al mondo.

Sono appena rientrata da casa di Mike e mi sono seduta a scrivere il mio pezzo per TRU, perché ho visto una mostra che mi ha fatto venire voglia di rimettermi a scrivere di quello che mi piace; sfogliando tra i miei appunti, mentre cerco un filo conduttore per tenere insieme i testi, ecco che mi si palesa ai sensi l’assurdo, il paradosso, la contraddizione.

Odissea nello spazio

Dal 14 gennaio all’11 febbraio, il Melkweg Expo ha ospitato Creating Other Futures, una mostra curata da Brigitte van der Sande, che ha riunito artisti/e e collettivi internazionali attorno al tema del futuro ripensato da una prospettiva non occidentale. L’esposizione è stata parte di un progetto più ampio: Other Futures è una piattaforma online e offline dove teorici/teoriche, artisti/e e produttori/produttrici culturali provenienti da diversi ambiti disciplinari si confrontano con un pubblico di utenti altrettanto variegato per elaborare assieme nuovi visioni del mondo ‘a venire’. Realizzata dalla Mouflon Foundation, in collaborazione con le università di Amsterdam e Rotterdam, e con altri istituti e operatori della scena artistica e culturale locale, la prima edizione del progetto è stata incentrata sulle aspirazioni, come le chiamerebbe Appadurai, evocate dalla fantascienza non occidentale. Oltre alla mostra collettiva, la manifestazione ha incluso un ricco calendario di eventi: un festival di letteratura, musica, cinema e scienza, e una serie di incontri e conferenze accademiche sui temi dell’utopia e del futurismo, intrecciati alle questioni del cambiamento climatico, della razza, del genere e della sessualità nell’odierno contesto politico e socio-culturale.

Per Creating Other Futures, gli/le artisti/e hanno operato un intervento di radicale immaginazione del futuro. Provenienti da diversi background culturali, articolati in linguaggi artistici differenti e radicati in aree geografiche altre dall’Europa e dal resto dell’occidente (Palestina, Kenya, Singapore, Mexico), i lavori si concertano nel rifiuto del futuro così come è già stato consegnato alla storia dalla politica neoliberista dominante: un mondo inteso come insieme ordinato di parti (s-oggetti) separate, la cui relazione reciproca è mediata da poteri economico-politici che decidono della loro inclusione differenziale in questo o quell’altro flusso di produzione e consumo. Disturbi alimentari e la fame nel mondo; ambientalismi e i nuovi colonialismi dell’ingegneria biogenetica; la mobilità degli Expat e il rimpatrio dei migranti. Collocandosi precisamente sul confine dei paradossi del capitalismo contemporaneo, i progetti esposti scardinano ogni assunto della ragione moderna. Gli scenari fantascientifici delle installazioni espongono il pubblico a un esercizio di immaginazione in grado di ripensare le relazioni (sociali, economiche, disciplinari…) tra le parti (non più s-oggetti, ma soggettività) senza quelle fissità astratte prodotte dalla ragione e dalla violenza, parziale o totale, che questa comporta – contro gli altri culturali (non-bianchi/non-Europei) e fisici (non-umani).

L’artista digitale Jacque Njeri, per esempio, fa dialogare la tradizione del mito Maasai keniota con i tropi afrofuturistici del viaggio nello spazio e della vita su altri pianeti, dando vita a MaaSci, titolo nato dalla fusione delle parole ‘Maasai’ e ‘sci-fi’. L’opera è presentata come una raccolta di stampe grafiche che documentano il viaggio nello spazio della comunità MaaSci. La leggenda, rivisitata dall’artista, narra di una coppia (moglie e marito) che dalla Silicon Savannah parte in esplorazione dello spazio. I due ritorneranno con artefatti provenienti dalla Luna e da altri pianeti, grazie ai quali sarà possibile intrattenere scambi con altre comunità tribali più ricche, così da assicurare ai MaaSci l’approvvigionamento di acqua e risorse alimentari. La memoria del viaggio nello spazio – una narrazione a cui l’artista si riferisce col termine ‘Shestory’ – è appuntata su una pergamena e consegnata alla comunità delle donne MaaSci, depositarie della tecnica e della conoscenza scientifica. Alle donne che, sfidando i costrutti di genere, si dedicano ad occupazioni tradizionalmente maschili, quali lo studio della scienza e dell’ingegneria, si deve infatti la messa a punto delle tecnologie e delle astronavi che continueranno a mandare i MaaSci, nomadi celestiali, nello spazio.

Di passato interstellare tratta anche Windows on the World Part III. Qui, l’artista Ming Wong mette assieme un’installazione video multi-canale che ripercorre e intreccia la storia e le tradizioni della cultura dell’antica Cina in dialogo con il contemporaneo. Gli schermi, sistemati su casse di legno e bancali ammucchiati sul pavimento della galleria, trasmettono scene dell’opera cinese, testi e materiale documentario del programma spaziale del Paese, e sequenze di immagini che documentano un immaginario pop della fantascienza cinese. Questa sorta di scintillante e frammentata futurologia del passato risveglia il corpo e lo spirito di un’esploratrice spaziale, che compare a tratti sugli schermi mentre vaga tra le rovine della storia alla ricerca di una nuova soggettività.

Il viaggio nello spazio continua per i visitatori della mostra nel lavoro di AiRich. L’artista visuale africana, stabilita ad Amsterdam, introduce il pubblico alla vita sul Pianeta AiRich: una stazione interplanetaria in un’altra galassia, dove i Visionari si incontrano per essere riforniti dal “Grande Tutto” prima di partire per una missione volta al ristabilimento dell’equilibrio e dell’umanità sulla Terra. L’artista espone una documentazione di ritratti e testi che mappano un territorio sconosciuto e invisibile, tanto all’umano quanto alle tecnologie che questo ha prodotto. Armati, avvolti in un campo magnetico che è loro scudo, i Visionari del Pianeta AiRich parlano un’altra lingua, eppure sono in grado di farsi intendere. Il testo, proiettato in loop sullo schermo all’ingresso della galleria, recita: “Ogni attacco a loro sarà restituito indietro, più in fretta della velocità del suono e della luce, e risuonerà nella realtà degli attaccanti.” Un monito, questo, e un invito a prendere coscienza del fatto che il futuro è preparato in itinere, e non c’è modo di immaginarne un altro libero dal ricordo. “Planet AiRich – si legge ancora sullo schermo – è una stazione di disintossicazione, un rifugio per il rinnovamento”, uno spazio per la pratica della memoria (remembrance) e la cura di coloro che sono (stati) danneggiati.

Alimentato forse dall’urgenza di rispondere ai quesiti posti dal dibattito sulla questione ambientale, il tema del futuro mi sembra essere oggi un argomento di grande interesse, a volte anche di tendenza, negli ambienti dell’arte, della scienza e della cultura di consumo in generale, impegnati nella produzione di artefatti che prefigurino un mondo in cui la Terra, la tecnologia, l’umano e l’animale possano co-esistere in maniera sostenibile. Solo che non tutto quello che contemporaneamente si sta producendo in questo senso mi sembra essere inclusivo nei confronti di una differenza che è alla radice di qualunque sistemazione si provi a dare al mondo.

Nel sociale, per esempio, le forze politiche dominanti non mi sembrano in grado di preparare uno spazio di co-esistenza per le diverse soggettività che lo abitano, com’è testimoniato dal ritorno al potere delle destre in gran parte dei governi occidentali, per primo forse l’Italia, dove i discorsi politici dei due partiti vincitori delle ultime elezioni (Lega Nord e Movimento Cinque Stelle) – tra gli altri – si costruiscono su un lessico e una grammatica razziali, in  armonia con le politiche di (non)accoglienza adottate da Trump e dall’Europa nei confronti di rifugiati e immigrati. Come spiega Denise Ferreira da Silva in un articolo molto interessante sulla necessità di ripensare la natura e la co-esistenza delle differenze, il programma etico-politico dominante è radicato in una visione dialettica ereditata dal pensiero moderno occidentale, che alimenta sentimenti di incertezza e di paura dell’altro (il terrorista musulmano, l’africano che soffre e muore di fame…).

Altrettanto inadeguate alla complessità del mondo e alla costruzione di un’etica di sostenibilità e co-esistenza della differenza, mi sembrano essere alcune proposte provenienti dalla scienza. In concomitanza con la mostra Creating Other Futures, lo scorso 6 febbraio, i media occidentali hanno puntato i riflettori sul lancio del Falcon Heavy, il razzo studiato per mettere in orbita carichi pesanti per grandi basi orbitanti e per assemblare grosse astronavi, realizzato dagli ingegneri di SpaceX, l’azienda aerospaziale di Elon Musk. Quella sera ho cenato da Simon; verso le dieci lui e Pablo seguivano in diretta il viaggio della capsula, incuriositi e affascinati da una specie di estetica pop futurista: un razzo rilasciava nello spazio una Tesla rossa con un astronauta finto al volante, dotato della tuta sviluppata per gli astronauti veri della Dragon V2 e accompagnato dalle celebri colonne sonore di David Bowie. “Piccolo spazio pubblicità…”, cantava Vasco, in Bollicine, nel 1983. Per la sua nuova impresa interstellare, Musk è stato eletto dalla maggior parte dei media occidentali come indiscutibile icona del futuro. Ma quale? Di chi? Per chi? Per assurdo, il nuovo magnate dell’industria aerospaziale e proprietario della Tesla, compagnia di veicoli elettrici, batterie e pannelli solari leader nel settore dei trasporti green, celebra la sua impresa nello spazio rilasciando in orbita una macchina, alla faccia delle politiche di sostenibilità ed ecologia di cui la sua azienda si fa promotrice. Non solo. Come sottolineato dallo scrittore e urbanista Paris Max, in un articolo per Jacobin, “le tecnologie di cui abbiamo bisogno per trasformare la nostra rete di trasporto esistono già, ma gli americani sono stati a lungo bloccati in un sistema datato e auto-dipendente mentre gli veniva negata la tecnologia del presente da politici invischiati nella lobby dei combustibili fossili e dipendenti da un’ideologia del “mercato libero”, tanto che crederebbero a qualunque ricco imprenditore che si presentasse loro con una soluzione.” Le proposte di Elon Musk per lo sviluppo delle tecnologie di trasporto sono di fatto disegnate per rallentare la costruzione di un’infrastruttura che potrebbe realmente aggiornare il sistema dei trasporti americano spingendolo, finalmente, nel XXI secolo. Seppur sia possibile riconoscere all’imprenditore il merito di aver dato una spinta all’industria del settore verso lo sviluppo e l’implementazione di veicoli elettrici, la sua visione del futuro della mobilità non si emancipa da una tipologia di trasporto automobilistico individuale, esclusorio ed esclusivista.

Davanti a questi modelli dominanti per gli scenari natural-culturali del futuro, preferisco rivolgermi all’arte, nella cui selva ho trovato proposte di cambiamento molto più radicali, meno glam (forse) e decisamente inclusive, in grado di scardinare gli assunti del pensiero moderno, che ripete da secoli un’aberrante separazione della differenza (di corpi, materie, specie, generi e sessualità). I lavori esposti al Melkweg Expo in occasione della mostra Creating Other Futures, in questo senso, interrompono proprio questa dialettica, attraverso la messa in discussione della dicotomia tra un occidente maschio, bianco e depositario della Storia e della Scienza e il resto del mondo, eternamente colonizzato e cronicamente in ritardo sul progresso, secondo i parametri dello sviluppo e della civilizzazione moderni.

In the Future They Ate From the Finest Porcelain

Se della memoria, intesa come indispensabile e inevitabile punto di partenza per l’immaginazione di altri futuri, trattano i progetti artistici sopra presentati, questa diviene snodo centrale nella trama del film-documentario fantascientico di Larissa Sansour, pure parte della mostra al Melweg Expo. L’artista palestinese, in collaborazione con l’autrice danese Søren Lind, anticipa già nel titolo del suo lavoro l’anacronismo storico: l’interruzione della narrazione dominante del mondo necessaria a qualunque nuova prefigurazione del futuro si intenda produrre. In the Future They Ate From the Finest Porcelain si articola trasversalmente nel dialogo tra fantascienza, politica e archeologia. Combinando live motion e CGI (computer-generated imagery), il film esplora il ruolo del mito per la storia e per la costruzione di un’identità nazionale. Un gruppo di resistenza narrativa scava dei depositi sotterranei destinati alla conservazione di manufatti in porcellana, appartenenti ad una civiltà immaginaria. Lo scopo è quello di influenzare la Storia e sostenere le future rivendicazioni della terra, di cui tale civiltà è (stata) spossessata. Una volta dissotterrate, le ceramiche proveranno l’esistenza di questo popolo, permettendo il riconoscimento della sua identità nazionale. Nel video-saggio, una voce fuori campo rivela la filosofia e le idee alla base delle azioni del gruppo di resistenza: costruendo e mettendo in atto un mito, vale a dire performandolo, è possibile operare un reale intervento nella storia, costruendo di fatto una nazione. “La finzione, l’immaginazione, la letteratura hanno un impatto sulla politica e sulla storia” – recita la voce narrante; “il mito crea i fatti e permette l’identificazione… aggiunge numeri, scombinando l’ordine matematico dei governanti, che impongono una narrazione e si accorgono degli altri solo quando questi si ribellano.” Le sequenze del film si susseguono. Alla voce fuori campo, si aggiunge il dialogo tra la protagonista, leader del movimento di resistenza, e la sua psichiatra: uno scavo nell’inconscio e nella memoria alla ricerca di un futuro remoto, costruito a ritroso, e reso negli scenari di una futurologia del passato, in cui ambientazioni archeologiche e spaziali si sovrappongono.

Appena accanto alla sezione della galleria in cui è proiettato il video-saggio, in delle nicchie ricavate nella parete, due sculture dell’artista palestinese proseguono l’interrogazione del futuro e la sua immaginazione a ritroso. L’installazione scultorea presenta le riproduzioni in bronzo di una piccola bomba nucleare dell’epoca della Guerra Fredda russa. Sul disco di ciascuna delle due capsule sono intagliate le coordinate latitudinali e longitudinali di due depositi di porcellane e ceramiche. Con la porcellana di fatto assente dall’installazione, le bombe rappresentano gli artefatti archeologici in assenza. Le coordinate di ciascun deposito rimandano ad un luogo sul confine israeliano-palestinese, in cui l’artista ha tenuto una performance in collaborazione con istituzioni artistiche locali: durante l’azione, artefatti in ceramica e porcellana, decorati con i pattern della kefiah, il tradizionale copricapo della culture arabe e mediorientali, sono stati interrati in quindici depositi. Delle foto in bianco e nero documentano i luoghi dell’intervento artistico.  Archaeology in Absentia interroga il ruolo dell’archeologia e la sua strumentalizzazione come nuova forma di guerra. Le sculture ovali, richiamando la forma delle uova Fabergé, una realizzazione di gioielleria ideata presso la corte dello zar di tutte le Russie ad opera di Peter Carl Fabergé, alludono alla sospensione delle produzioni artistiche contemporanee tra la realtà politica da cui sono influenzate e il loro stato di beni di lusso.

 Archeologia, etimologicamente, vuol dire “discorso delle cose antiche”. Bisogna ricordare giorno per giorno, minuto per minuto, secondo per secondo; sotterrare e dissotterrare miti in accordo con quello che (ci) succede intorno; scombinare l’ordine cronologico del tempo, cambiare i confini alla geografia, i numeri alla matematica, per accorgersi che il futuro non esiste: è una performance. E non sono forse queste – le performance – dei continui riadattamenti della memoria?

The Sound of Culture. Razza e tecnologia attraverso il banco mixer

In ingegneria informatica l’espressione master/slave indica il protocollo di comunicazione in cui una macchina o un processo principale controlla una o piu’ macchine o processi subordinati. La medesima terminologia può essere applicata anche a sistemi tecnologici pre-informatici, quali un sistema video centralizzato, una rete di orologi o un impianto idraulico, purché basati sul medesimo rapporto di subordinazione. Nonostante sia recentemente stata messa in discussione negli Stati Uniti in quanto “eticamente inaccettabile”,i la definizione sopravvive ancora oggi nel linguaggio colloquiale della programmazione. Stranamente non vi e’ alcuna traccia di un uso del termine in questa accezione prima della fine della seconda guerra mondiale. Non e’ dunque una sgradevole eredita’ linguistica di un altro tempo a trovare spazio nel lessico tecnologico contemporaneo. C’e’ forse una ragione piu’ profonda che puo’ spiegare questa curiosa incongruenza?

Copertina del libro con un opera di David Huffman
La copertina del libro con un’opera di David Huffman

Edito quest’anno dalla Wesleyan University Press, The Sound of Culture. Diaspora and Black Technopoetics indaga in profondita’ la relazione che tiene insieme corpo nero, schiavitu’ ed il nostro modo di concepire la tecnologia. Passando in rassegna una notevole quantita’ di fonti eterogenee che vanno dalla letteratura proto-sci-fi vittoriana al jazz, dai blackface minstrel show al cyberpunk, Louis Chude-Sokei disegna un originale percorso critico che mette al centro il modo in cui la modernita’ occidentale ha dato senso al concetto di macchina, ritrovandone le tracce nell’interdipendenza tra i due processi fondanti dell’era moderna: industrializzazione e schiavitu’. Se il passaggio dal capitalismo mercantile a quello industriale puo’ essere assunto come il primo passo verso la progressiva tecnologizzazione della modernita’, anche il nostro rapporto con la tecnologia dovra’ necessariamente essere messo a confronto con il retaggio culturale della schiavitu’. E’ questa infatti l’istituzione che piu’ di ogni altra ha sostenuto la rivoluzione industriale, garantendo ad essa quelle fondamenta socio-economiche senza le quali la stessa risulterebbe semplicemente impensabile. Secondo l’autore, la costruzione del concetto di razza e la concezione del rapporto tra l’uomo e la tecnologia vanno intese come due storie che corrono parallele sotto la superficie della modernita’, talvolta producendo veri e propri punti di contatto che emergono in forma di letteratura, musica o cinema, o affiorano in determinati avvenimenti storici. Razza e tecnologia sarebbero dunque due concetti speculari; l’uno si riflette nell’altro attraverso lo specchio deformante dell’ansia.

Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935
Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935

Numerosi case studies sostengono la riflessione e donano concretezza ad un impianto critico complesso ed affascinante. Il libro si apre con la storia di Joice Heth, anziana schiava afro-americana messa in mostra tra il 1835 ed il 1836 da P. T. Barnum, impresario e fondatore dell’omonimo circo. Inizialmente reclamizzata con discreto successo come la ultracentenaria nutrice di George Washington, la sua fama crebbe ulteriormente quando il pubblico fu indotto a credere che l’ormai semiparalizzata donna non fosse un essere umano bensi’ un sofisticato trucco tecnologico. Se la storia di Joice Heth puo’ essere gia’ nota a chi ha familiarita’ con l’orrore degli zoo e dei circhi umani,ii l’autore ne arricchisce l’analisi con una prospettiva inedita, intrecciandola con la vicenda del “Turco”, presunto automata giocatore di scacchi costruito nel 1769 da Wolfgang von Kempelen per intrattenere Maria Teresa d’Austria. L’esibizione in contemporanea delle due “meraviglie”, avvenuta fortuitamente nel dicembre del 1835 a Boston, fornisce l’input per intrecciare criticamente la storia di un essere umano ritenuto erroneamente una macchina con quella di una macchina erroneamente elevata al rango di creatura pensante, rendendo cosi’ tangibile il legame tra tecnologia e schiavitu’ che sottende tutta la riflessione. L’implicita razializzazione della tecnologia e’ pertanto il leitmotiv che attraversa l’intero libro. D’altronde lo stesso termine “robot”, coniato nel 1923 dal drammaturgo Karel Capek, e’ un adattamento dal ceco “robota” il cui significato oscilla tra “corvèe”, “servitu’” e “schiavo”.

Se questo e’ l’assunto di partenza, grazie all’abbondanza di riferimenti il libro offre molteplici percorsi di lettura potenzialmente indipendenti. Ad esempio, nel sondare i limiti dell’umano in quanto messi in discussione dall’incerto status attribuito allo schiavo nero (uomo, animale o pura forza lavoro – e dunque macchina?) la riflessione entra necessariamente in dialogo con il postumanesimo. Espanso nella sua dimensione razziale e riletto attraverso la lente fornite dal pensiero caraibico della creolite’ e del metissage, il cyborg di Donna Haraway trova cosi’ un antecedente ideale nel concetto di synthesis-genesis di Edouard Glissant e soprattutto nel pensiero di Sylvia Winter. La riflessione su un “pre-postumanesimo” di matrice caraibica sembra inoltre assumere una valenza quasi programmatica nell’intento di riportare al centro del dibattito critico lo specifico contributo proveniente da una regione del mondo postcoloniale che ha fatto della sintesi delle opposizioni un modus vivendi prima ancora che un modus pensandi, ed ha visto in tempi recenti la specificita’ della propria condizione esistenziale divenire un paradigma utilizzato a piacimento nell’accademia occidentale.

E’ lecito a questo punto domandarsi quale sia il sound a cui il titolo si riferisce. La domanda e’ ancor piu’ legittima per quanti conoscono Chude-Sokei come l’autore, a partire dagli anni novanta, di un pugno di seminali articoli aventi come oggetto la cultura sound system ed il dub giamaicano.iii Questi articoli, che come egli stesso ha ricordato suscitarono all’epoca una accoglienza decisamente fredda nel mondo accademico,iv costituiscono invece oggi un riferimento fondamentale per quanti si accostano all’analisi di questi fenomeni culturali. Ma per quanto i riferimenti musicali non manchino, questo non e’ un libro sulla musica ne’ tantomeno sul suono. Almeno non nella sua dimensione fenomenologica. Come lo stesso autore si preoccupa di spiegare nell’introduzione, il sound del titolo va piuttosto inteso nel peculiare senso attribuito al termine in Giamaica, significato che egli stesso aveva gia’ evidenziato in uno scritto del 1997:

“In Jamaican English a “sound” means many things simultaneously. In addition to the basic definition of the word it means also a song, a style of music or a sound system. It is in the final definition that all the different meanings find dynamic peace (…) Sound in Jamaica means process, community, strategy and product. It functions as an aesthetic space (…) an imagined community (…) which operates not by the technologies of literacy but through the cultural economy of sound and its technological apparatus…”v

Copertina dell'album di Scientist, Giamaica 1982
Copertina dell’album di Scientist, Giamaica 1982

Va dunque inteso come una ecologia, l’ambito di produzione di una sfera pubblica all’interno della quale la sintesi creativa di corpi neri e tecnologia diviene possibile in modi inediti ed imprevedibili. Ecco che il dub giamaicano torna qui prepotentemente quale locus sonoro privilegiato dove questo post-umanesimo caraibico si concretizza. Il risultato e’ un’audio-fantascienza tutta analogica che produce una temporalita’ out of sync, una sorta di futuro antico ben rappresentato nelle copertine dei dischi, e dove il confine tra magia nera e scienza (anch’essa nera) del suono si fa fluido e permeabile.

Appare chiaro come un silenzioso dialogo con l’Afrofuturismo sia un’altro dei percorsi di lettura che attraversano il libro nella sua interezza. Pur condividendone buona parte degli interessi di ricerca nei tipici temi della musica nera, della fantascienza e della tecnologia, Chude-Sokei ci tiene a rimarcare la sua indipendenza rispetto ad ogni etichetta. All’Afrofuturismo sembra rimproverare di essersi cristallizzato in una sorta di canone decisamente localizzato su un asse nord-Atlantico, supportando in tal modo una concezione eccessivamente stabile ed omogeneizzante della identita’ nerasostenuta dall’analisi di una produzione culturale prettamente anglo-americana. L’insistenza sul dub giamaicano quale riferimento privilegiato tra tutti i territori sonori possibili va cosi’ a replicare la funzione che l’accento sul pensiero della creolite svolge sul piano dei riferimenti critici: il tentativo di spostare il baricentro dell’analisi da una prospettiva occidento-centrica per includere (alcune del-) le diverse e spesso irriducibili sfumature della blackness. Dopotutto, mano a mano che l’industria musicale ne coopta le innovazioni per rivenderle sul mercato globale, il cuore pulsante della sperimentazione musicale e tecnologica di matrice afro si sposta sempre piu’ ai margini dell’occidente. Ed i suoni del global ghettotech, che Steve Goodman ha provato a mappare con la potente immagine di un planet of drums, ci rimandano ad una cartografia in cui Johannesburg, Dakar e Kingston hanno la stessa importanza di Londra o Detroit.vi

King Tubby, the dub originator
King Tubby, the dub originator

Ma a discapito della sua presenza esplicita in qualche decina di pagine, l’influenza del dub appare rilevante nella struttura stessa del lavoro. Se consideriamo dub come verbo anziche’ nome, processo piuttosto che oggetto, l’intera riflessione di Chude-Sokei diviene una riuscita forma di dubbing critico. Alternando costantemente concetti e riferimenti durante tutto il corso dell’opera, l’autore assume il ruolo di un concept engineer, che riesce a fare emergere nuovi spazi di discussione dalla giustapposizione di storie e prospettive che, seppur distanti tra loro, concorrono a vario titolo alla costruzione di quella formazione culturale che siamo soliti definire modernita’. Herman Melville e William Gibson, Gilles Deleuze e Aime’ Cvodoo haitiano e cibernetica sono solo alcuni degli elementi che vanno aggiunti a quelli gia’ citati per ricomporre almeno parzialmente il quadro di un’opera complessa e stimolante. Sebbene possa risultare difficile per il lettore condividere la medesima familiarita’ che l’autore dimostra di avere nei confronti di questa pluralita’ di storie ed approcci, grazie alla sapiente alternanza degli stessi e ad un impianto critico ben articolato la lettura riesce sempre a trovare sempre una via attraverso uno dei molteplici percorsi possibili. In altre parole, il mix suona solido ed invita la mente alla danza. Per chi invece era in attesa di un libro che raccogliesse piu’ direttamente le fila del pluridecennale lavoro dell’autore sulla musica giamaicana e le sue derivazioni, niente paura; un volume che raccoglie tutti gli articoli gia’ editi ed alcuni nuovi scritti sull’argomento e’ in via di pubblicazione.


Note

[i]Nel 2003, a seguito ad un complaint formale da parte di un lavoratore anonimo, la Contea di Los Angeles ha inoltrato richiesta ufficiale ai propri costruttori, assemblatori e fornitori di materiale tecnologico per la sostituzione della terminologia master/slave all’interno dei protocolli. L’anno successivo il termine e’ stato eletto “most politically incorrect term” dal Global Language Monitor. Attualmente il termine e’ stato sostituito daprimary/replica ma sopravvive nel linguaggio colloquiale della programmazione.

[ii] Sugli zoo umani si veda: Lamaire, S. et al. 2002. Zoo umani, Dalla Venere ottentotta ai reality show. Verona: Ombre Corte.

[iii] Chude-Sokei, L. 1994. “Post-Nationalist Geographies: Rasta, Reggae and Reiventing Africa” in African Arts 27 (4); Chude-Sokei, L. 1997a. “Dr. Satan’s Echo Chamber: Reggae, Technology and the Diaspora Process.” Bob Marley Lecture, Reggae Studies Unit, Institute of Caribbean Studies, University of the West Indies, Mona; Chude-Sokei, L. 1997b. “The Sound of Culture. Dread Discourse and the Jamaican Sound Systems.” In Language, Rhythm and Sound: Black Popular Cultures in the Twenty-First Century, edited by Joseph K. Adjaye and Adrianne R. Andrews, 185-202. Pittsburgh: University of Pittsburg Press.

[iv] “When I first started writing about sound systems nobody knew what the hell I was on about. Even in Jamaica I was booed and attacked because it wasn’t a “serious” topic for a scholar…” (Louis Chide-Sokei facebook profile, consultato il 31 ottobre 2016)

[v] Chude-Sokei, L. 1997a. Op. Cit.

[vi] Goodman, S. 2012. Sonic Warfare. Sound, Affect and the Ecology of Fear (Technologies of Lived Abstraction). Cambridge-London: The MIT Press. pp. 172-175.