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Cruising alla Biennale Architettura: un’anti-guida nello spazio delle libertà

Lavorare per un evento come la Mostra Internazionale di Architettura de La Biennale di Venezia offre un punto di vista privilegiato sui progetti esposti, sulla politica curatoriale, ma anche sull’interazione dei progetti con il pubblico di addetti ai lavori, giornalisti, habitué e quello occasionale. Quest’anno il tema della Biennale Architettura diretta dalle curatrici irlandesi Yvonne Farrell e Shelley McNamara è FREESPACE. È proprio sull’uso di “Spazio Libero” che si sono spesi i discorsi più o meno informati di architetti e partecipanti, della stampa di settore e di quella generalista. Discorsi che hanno reso il Freespace un concetto assai nebuloso. Ma le curatrici dello studio Grafton hanno elaborato un manifesto molto preciso che parla di architettura come gesto di generosità che offre in dono un eccesso di valore d’uso ed estetico che l’Architettura elargisce a tutti, anche quando l’iniziativa progettuale è meramente commerciale se non addirittura escludente. Freespace è un’agenda est-etica che l’architettura deve garantire alle generazioni future: spazio gratuito ma anche spazio libero, tuttavia mai spazio pubblico e nemmeno spazio comune. La Biennale Architettura di quest’anno non è dunque una Mostra sul ripensamento degli spazi pubblici. Al contrario, riflette sul soggetto privato considerato come il vero motore tecno-economico-culturale della contemporaneità.

Fortunatamente, la polisemia cui si prestano le parole libero e libertà offrono a chi ha risposto alla call delle curatrici della mostra principale e dei padiglioni nazionali la possibilità di fornire soluzioni non sempre aderenti al palinsesto Freespace.

Questo post è dunque un’anti-guida alla Biennale, una specie di cruising tra progetti e padiglioni, non necessariamente quelli più piacevoli dal punto di vista estetico. È una mappa che pero stringe l’occhio alle mostre capaci di fornire un’interpretazione di spazio libero come socialmente prodotto, seppur in modo problematico.

Cruising all’arsenale: eterotopie ed utopie urbane

Gli spazi filtro di Francesca Torzo: Z33 Gallery – Hasselt, Belgio

L’estetica dello spazio libero, ovvero vuoto, si riflette soprattutto negli ambienti dell’Arsenale – prima fabbrica di tipo industriale in Occidente – attraverso l’uso limitato del cartongesso che restituisce la dimensione delle corderie nella maestosità dei suoi 316 metri di lunghezza. Nelle navate laterali sono installati i progetti che riguardano varie tipologie di spazi: quelli domestici che si aprono verso l’esterno (Gli spazi dello studio finlandese Talli e quelli di MarieJosé VanHee), quelli provvisti di filtri piuttosto che di chiusure (l’elegante gioco di losanghe con aperture senza riflessi della galleria d’arte contemporanea Z33 a Hassel a cura di Francesca Torzo), quelli che utilizzano gli elementi naturali attorno ai quali viene ripensato il progetto (l’officina teatrale New Sala Beckett a Poblenou, Barcellona di Flores y Prats) e, in ultimo, quelli che mostrano la tensione tra l’autorità dell’architetto e l’utilizzo di chi abita questi spazi.

Elemental: The Value of what’s not built

Elemental di Alejandro Aravena presenta un’installazione concettuale in cui sperimenta, attraverso 7 dichiarazioni scritte a mano su carta, la pratica della libertà degli utenti negli spazi non programmati dall’architettura. Per Aravena “Free Space” è da intendersi come un’azione piuttosto che un aggettivo, rivendicando così un valore non quantificabile che si esprime nella tensione tra gesto architettonico e produzione della soggettività dei suoi utenti. Questa tensione incarna a pieno il paradosso dell’architettura contemporanea che, nel volersi disfare di quelle che Foucault chiamava eterotopie, governa il non-governato ovvero le relazioni prodotte dai suoi utenti.

Laura Perretti: Rigenerare Corviale_The Crossing

Tali tensioni sono riscontrabili in interventi rigenerativi che operano su sistemi portati a termine quando ormai la loro cifra sperimentale aveva esaurito già il suo potenziale: è il caso di Corviale nella periferia di Roma, edificio-città disegnato da Mario Fiorentino e pensato per essere un centro abitativo autonomo con lo scopo di costituire una barriera fisica contro lo sprawl urbano in estensione a discapito del paesaggio circostante. In questo sistema chiuso il tentativo di ricucitura del tessuto sociale è assai delicato poiché ha l’onere di intervenire non solo sul pensiero dell’architetto che ha progettato il primo nucleo abitativo ma anche sugli interventi operati attraverso le occupazioni di spazi non funzionali/non funzionanti da parte degli abitanti stessi. In questo dialogo turbolento, Laura Parretti opera su due scale: attraverso interventi minimali che puntano a trasformare la barriera del Serpentone in un filtro e, in scala maggiore, con nuovi spazi pubblici che fanno conversare la città-edificio con il paesaggio concepito come cliente.

Cruising nei Giardini

Granby Workshop – Assemble

I Giardini napoleonici si contrappongono all’Arsenale anche per il cruiser della Biennale: se le corderie con la loro estetica proto/post-industriale lo spingono a una visita compulsiva e completa, il padiglione centrale ai Giardini è un labirinto ma pieno di luce. Molti cruiser si affolleranno nel soppalco di Carlo Scarpa per ammirare i magnifici plastici dell’Atelier Peter Zumthor mentre altri si disperderanno nelle salette laterali per ammirare i nuovi spazi pubblici/corporate di Humanhattan (The Big U) o gli appartamenti prefabbricati per senza-tetto

Star Apartments di Michael Maltzan. L’unico punto protetto dalla luce diretta è la prima sala del Padiglione Centrale ripavimentata dal Granby Workshop con Assemble, piastrelle a encausto che ricordano l’azulejo portoghese ma che in realtà rivelano la natura casuale ed evenemenziale dell’architettura.

Amateur: How to legalize spontaneously built illegal structures in the city by means of design.

Nel solco tracciato da Aravena si inseriscono i cinesi Amateur, con delle strutture in legno che costituiscono un intervento di  che conferma relazioni sociali e microeconomiche già in atto. Lo studio di architetti ha convinto la municipalità di Hangzhou a resistere alla frenesia di rinnovamento tipica della Cina contemporanea e a preservare, legalizzandole con degli interventi architettonici minimali, le occupazioni delle intercapedini tra un edificio e l’altro, adibito talvolta a orto urbano, talaltra a mercatino o a riparo di fortuna.

Nell’anno in cui la legge Basaglia compie quarant’anni, non passano inosservati De Vylder Vinck Taillieu. I giovani vincitori del Leone d’Argento presentano invece su pannelli-filtri, in questo contesto espositivo, il loro progetto di ristrutturazione e recupero del padiglione del primo ospedale psichiatrico belga a Melle. Seppur immerso in un contesto naturale circondato dal verde, la struttura sottoposta a restauro porta con sé una storia turbolenta di isolamento e medicalizzazione che gli architetti hanno deciso di preservare pur aprendola verso l’esterno.

De Vylder, Vink, Taillieus: Unless Ever People. Caritas for Freespace

Cruising the Nations: ripensare i confini della nazione e del lavoro

Estudio Teddy Cruz + Fonna Forman: Mexus, A Geography of Interdependence

Biennale ha voluto conservare la struttura delle partecipazioni nazionali tipica delle Esposizioni Universali novecentesche. Molte partecipazioni presentano però delle agende che interrogano il senso stesso di Stato-Nazione. Capita così nel padiglione USA affidato all’Università di Chicago. Qui il team curatoriale si confronta con le dimensioni della cittadinanza che vengono esposte su diversi livelli: quello legale (civitas, cittadin*), quello territoriale (regione, nazione), eequello tecnologico ed economico (globo, network e cosmo). In questa intricata condizione, la cittadinanza viene continuamente messa in discussione e rinegoziata dai flussi di persone e di capitali. I curatori scandagliano nelle aree marginali dei territori teorici dell’architettura il senso della futura cittadinanza, andandola a cercare nei one-dollar-shops gestiti da lavoratoei cinesi su entrambi i lati della frontera statunitense-messicana, in immaginarie dichiarazioni di colonizzazione di nuovi mondi, nel rapporto tra umano e naturale attraverso la lente della migrazione, trasgressione, trasmissione, viaggio e mobilità.

La locker room del Padiglione Olandese

Partendo da una riflessione dell’artista e architetto neerlandese Constant Nieuwenhuys raccolta nella serie di dipinti New Bayblon, Marina Otero Verzier, curatrice del padiglione dei Paesi Bassi, si interroga sul ruolo dirompente della piena automazione in relazione alle condizioni di vita e alle configurazioni dello spazio in cui è immerso il corpo umano. Gli armadietti che nascondono teche, talvolta intere stanze sono

Anthropometric Data – Crane Cabin Operator vs Remote Control Operator. Disegno del Het Nieuwe Instituut 2017

allo stesso tempo elemento architettonico che lega in modo intimo il corpo al lavoro e al tempo libero e l’espediente narrativo del padiglione. Body Work and Leisure prende in considerazione quelle che Marcel Mauss chiamava le tecniche del corpo in relazione alle nuove e sempre più intime forme di lavoro e tempo libero che spesso si sovrappongono: dal letto come spazio di lavoro per millennials e sexworkers agli algoritmi per l’efficientamento del flusso di lavoro, la curatrice “nasconde” e invita a scoprire i luoghi del corpo contemporanei nello spazio neutro dello spogliatoio arancione-olanda.

Cruising the Cruising Pavilion: homotopie nella zona industriale

Cruising Freespace Manifesto

Tra le mostre che gravitano in modo non ufficiale in laguna, degno di nota è sicuramente il Cruising Pavilion che si nasconde lontano dalla mondanità sull’isola della Giudecca. Il giovanissimo team di curatori cancella la dicitura Freespace del manifesto di Farrell e McNamara e la sostituisce alla parola Cruising. Le intimità illimitate (Tim Dean) generate dal cruising diventano dunque occasione per riflettere su “uno spazio che invita a riesaminare il nostro modo di pensare, stimolando nuovi modi di vedere il mondo”, “uno spazio di opportunità, democratico, non programmato e libero per utilizzi non ancora definiti”.

Etienne Descloux: Panopticon (sex club)

La mostra si arrampica su due torri in legno e sono alternate da un’area vuota e scura che rappresenta (nel senso teatrale del termine) l’afterlife del cruising: preservativi srotolati, carta igienica accartocciata sono il palcoscenico utopico di questo spazio. Se da un lato è sempre un pericolo che pratiche così radicali dell’esperienza dello spazio più o meno urbano siano tradotte e addomesticate nei circuiti artistici e nell’accademia, è tuttavia interessante il discorso curatoriale che oscilla tra l’esteticizzazione di tali pratiche e l’analisi della loro potenzialità.

Progetto per il giardino delle Tuileries

Con in mente l’orizzonte utopico di J.E. Muñoz, il cruising diventa una pratica di ricerca architettonica che non può risolvere in modo pacifico il rapporto tra progettista e utente: spesso infatti si ritrovano a consumare un rapporto sadomaso dove però è a volte l’utente a interpretare il ruolo del dominatore. In questo senso i progetti sulle due torri possono solo assecondare la sessualizzazione dello spazio già praticata da chi pratica il cruising, ed è per questo che la maggior parte dei progetti esposti – come quello che riproduce un club-panopticon decisamente poco disciplinare, o il progetto per il giardino delle Tuileries apparentemente pensato per il cruising con il suo gioco di siepi – rimangono disegni su carta che sfidano il pensiero, mentre nella messa in scena della darkroom il sesso viene solo immaginato.

Trevor Yeung: The Locker Room (2016), ancora armadietti come metafora di intimità condivisa e lavoro.

Crusing Venice: il diritto all’estasi della città

Come suggeriscono Salvatore Iaconesi e Oriana Persico con Human Architecture Al Padiglione Venezia, durante la kermesse viene prodotta una complessa geografia delle interazioni umane sui siti di social media. Ma anche la geografia fisica dell’arcipelago lagunare è sottoposta a forte stress durante gli eventi messi in moto dall’istituzione Biennale. Eventi che conferiscono a una città materialmente liquida, un carattere fortemente governato e allo stesso tempo effimero.

Se lo storico cruising al Lido – scenario di Morte a Venezia – è meno frequentato, il turismo dei grandi volumi e dei negozi di cioccolato e caramelle sta trasformando Venezia nella sua messa in scena, svuotandola di abitanti.

Ritornando dunque nello schermo a 16:9 che è l’entrata della Stazione di Santa Lucia ripenso a Venezia e allo spazio libero. I tornelli voluti dal sindaco Brugnaro, con un intervento emergenziale inutile e dannoso nella città-a-tema, a una seconda lettura ossequiano anch’essi il manifesto Freespace, secondo il quale la città non è un diritto ma ha solo un valore estetico, gentilmente concesso a tutti.

Città effimere e spazi condivisi: il modello Kumbh Mela a Venezia

In questi giorni abbiamo assistito al drammatico sgombero di Calais Jungle, il campo per rifugiati e immigrati, fermati alla frontiera tra Francia e Regno Unito. All’indomani della crisi siriana, la giungla ha visto la propria popolazione aumentare in modo sensibile, acuendo le drammatiche condizioni abitative, sanitarie e psicologiche che l’eterogenea popolazione viveva nel campo. Se l’attributo di giungla vuole sottolineare il forte contrasto tra l’assenza di regole all’interno del campo e il campo come espressione urbanistica del diritto internazionale, l’ultima delle tante giungle di Calais è stata sotto l’attenzione dei media anche per le forme di autorganizzazione di cui il campo si era dotato, con una toponomastica, ristoranti e drogherie, diventando così una città informale, persistentemente temporanea.

Le forme effimere di abitazione interrogano la Biennale di architettura di Venezia di quest’anno, il cui tema “Reporting from the Front” prende in considerazione le sfide contemporanee mettendo in questione lo stesso concetto di architettura. Lo apre cioè alla sua messa in discussione, alla rovina e all’effimero, a partire dallo studio dei materiali per arrivare alle metodologie di planning urbano,  piegate dalle pressioni di una vita sempre più precaria e mobile.

Architettura come sintomo o come cura

Come mettere in contesti estremamente diversi le sfide proposte dall’abitare temporaneo in cui i luoghi di transito acquisiscono sempre più significati, e dove l’instabilità si inscrive come cifra stabile delle nostre vite? Come si identifica il limite se la moltiplicazione di frontiere produce il mondo-come-confine? L’intuizione del team curatoriale, guidato da Alejandro Aravena, è stata quella disseminare queste sfide in una rete di concetti, estremamente eterogenei tra loro, ma che costituiscono in fondo la missione dell’architettura: una continua ricerca estetica che rappresenti o che risponda al pensiero egemonico contemporaneo.

Qualità della vita, ineguaglianze, segregazione, insicurezza, periferie, migrazione, informalità, igiene, rifiuti, inquinamento, catastrofi naturali, sostenibilità, traffico, comunità, abitazione, mediocrità e banalità sono i 17 temi che strutturano la biennale di quest’anno. 17 temi che portano il peso delle loro criticità, ma è proprio il loro carattere ambivalente a interrogare gli studi e i team che hanno risposto alla call di Venezia. L’inflessione di queste tematiche raggiunge punte importanti quando si parla, come fa Making Heimat del padiglione tedesco, di coniugare il ripensamento della nazione con la concezione di arrival country; sia che si tratti di parlare di velocità di costruzione e smaltimento e di qualità dei materiali per garantire alle realtà urbane in veloce espansione di ripensarsi in modo rapido.

La conversione dell’antico Arsenale a spazio espositivo, ad esempio, fa il paio con il riutilizzo dei materiali di costruzione di questa edizione che provengono in gran parte da quelle precedenti. Attraversando questo spazio mi sono chiesto se l’architettura si limita a documentare e rappresentare la velocità del ciclo di produzione e distruzione, se si impegna a lenire il dolore provocato dalla crescente precarizzazione della vita oppure se al contrario si dedica all’opposizione di questo trend.

Governance nelle megacittà effimere

Infografica del sistema di governance spazio-temporale di Kumbh Mela
Infografica del sistema di governance spazio-temporale di Kumbh Mela

L’Arsenale, narrato attraverso planimetrie e modelli, viene interrotto dal progetto di ricerca di Rahul Merhotra e Felipe Vera della Harvard Graduate School of Design, Ephemeral Urbanism: Cities in constant flux. Il punto di partenza è Kumbh Mela, sulle rive del Gange: una città effimera di 23 chilometri quadrati che sorge in simbiosi con le cicliche piene del fiume in occasione dell’omonima festività religiosa. La più popolosa delle città temporanee è stata disegnata, montata, amministrata e smontata tra il 2012 e il 2014 (prima che il Gange si riprendesse la terra per renderla terreno agricolo fertile) e risorgerà nuovamente per il prossimo festival religioso che si terrà nel 2024.

Il punto più interessante della ricerca consiste nell’aspetto che riguarda il governo e la logistica della città nomadica, la stratificazione di soggetti statali e locali che gestiscono non solo la spazialità ma anche la temporalità della città. Ragionando con Kumbh Mela, Merhotra e Vera riflettono sull’urbanistica effimera che si attualizza secondo diverse modalità e scopi (rituali, celebrativi, emergenziali, di rifugio e di estrazione) come occasione per pensare a nuove forme di progettazione e management urbano che tengano presente l’accelerazione crescente del metabolismo delle metropoli e alle forme di identità culturali transitorie che in esse si realizzano.

Kumbh Mela rappresenta un’alternativa per pensare alla progettazione urbana in cui vari soggetti e soggettività collaborano per uno spazio condiviso, come alternativa alla gestione non partecipata di situazioni emergenziali, a quella spregiudicata di eventi globali come le Olimpiadi o i Campionati mondiali di Calcio e all’utopianesimo plutocratico di celebrazioni come il Burning Man che ha prodotto il modello Black Rock City, esportato in seguito sia in Israele che in Europa.