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La politica sessuale della carne

In anticipazione del nostro contributo al laboratorio di Ecologie Politiche del Presente,  pubblichiamo qui sotto un estratto da un testo di Carol J. AdamsCarne da Macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana di prossima pubblicazione (Marzo 2020) per VandA Edizioni nella traduzione di Matteo Andreozzi e Annalisa Zabonati, e con la postfazione di Barbara Balsamo e Silvia Molè. Il programma del laboratorio che è iniziato a Ottobre con una scuola di formazione per Climate Strikers, ed è continuato con una serie di eco-camminate e una due giorni sulla decrescita felice, prevede due incontri a febbraio sul tema della cosmopolitica a cura del Matriarchivio del Mediterraneo/Centro Studi Postcoloniali e di Genere de ‘L’Orientale’, e un laboratorio a cura della TRU sulla (cosmo)tecnica, concetto introdotto dal filosofo dei media di Hong Kong Yuk Hui,  e declinato per l’occasione in chiave decoloniale, postcoloniale, queer e femminista.

Se nell’estensione fatta da Jason Moore del pensiero marxista dell’economia politica all’ecologia politica, il lavoro della natura è da considerarsi parte del lavoro gratuito sfruttato dal capitalismo, il seguente estratto dal libro di Carol J. Adams, ci ricorda della natura intrinsecamente intersezionale dello sfruttamento, in questo caso nell’intersezione tra l’animale non-umano e i corpi animalizzati delle donne, ma anche dei lavoratori della catena di montaggio fordista.

Uscito per la prima volta negli USA nel 1990 e da allora ristampato numerose volte, già tradotto in 10 lingue e ampliato dall’autrice in occasione del ventennale, il libro esplora la relazione tra patriarcato e consumo di carne intrecciando femminismo, antispecismo e veganesimo. L’associazione fra animalizzazione dei corpi femminili e sessualizzazione degli animali non-umani destinati all’alimentazione, che la politica sessuale della carne sottende, mostra la violenza patriarcale del ciclo di oggetificazione, frammentazione e consumo di corpi trasformati in referenti assenti per distanziare e invisibilizzare la realtà delle pratiche quotidiane di violenza e sfruttamento (nel caso degli animali non-umani pianificate e sistematiche) cui sono sottoposti. Adams esplora le radici storico-culturali dei “testi della carne”, i messaggi visivi e verbali che associano il mangiar carne e la mascolinità, in un’ottica intersezionale, ponendo a confronto le disuguaglianze di specie, genere ed etnia nella loro rappresentazione, e servendosi di numerose immagini tratte dalla cultura popolare. Queste immagini hanno dato vita a degli “spin-off”, quali  uno slideshow e una raccolta pubblicata per la prima volta come The Pornography of Meat (2003), ora un archivio globale costantemente aggiornato dall’autrice anche grazie al contributo delle lettrici.

Nel brano qui proposto, Adams sottolinea il legame tra la catena di montaggio ideata da Henry Ford e quella di smontaggio del macello da cui quest’ultimo prese ispirazione, mostrando come la frammentazione non sia tanto il risultato quanto piuttosto il presupposto del capitalismo moderno, e mettendo in parallelo il corpo dell’animale macellato a quello del lavoratore animalizzato dalla ripetitività alienante e faticosa (e spesso estremamente rischiosa, nel caso dei lavoratori dell’industria della carne) delle proprie mansioni, lavoratori che d’altra parte Frederick Taylor paragonava a “gorilla ammaestrati”.

‘La catena di smontaggio come modello’*

(da Carol J. Adams, Carne da Macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana, VandA Edizioni, 2020)

Coloro che sono che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo, che si lamentano della barbarie che proviene dalla barbarie, sono simili a gente che voglia mangiare la sua parte di vitello senza però che il vitello venga scannato.

Bertolt Brecht1

L’utilizzo del mattatoio come metafora del trattamento del lavoratore nella moderna società capitalista non finì con [La giungla (1906) di] Upton Sinclair. Bertolt Brecht, in Santa Giovanna dei Macelli, ricorre ovunque a immagini di macellazione per descrivere la disumanità dei capitalisti, come Pierpont Mauler, il “re della carne”. Costui tratta i suoi operai esattamente come i suoi manzi: è un “macellaio di carne umana”. Con il mattatoio come sfondo, espressioni quali “salari da tagliagole” o “mi hanno levato anche la pelle” svolgono il ruolo di efficaci giochi di parole che richiamano il destino degli animali per denunciare quello dei lavoratori.2 La scelta della figura del mattatoio come metafore della disumanizzazione del lavoratore operata dal capitalismo riecheggia la verità storica.

La divisione del lavoro nella catena di montaggio deve la sua nascita alla visita di Henry Ford alla catena di smontaggio del mattatoio di Chicago. Ford riconobbe il proprio debito nei confronti dell’attività di frammentazione della macellazione animale: «L’idea ci venne in generale dai carrelli sui binari che i macellai di Chicago usano per distribuire le parti dei manzi».3 Un libro sulla produzione di carne (finanziato da un’azienda del settore) descrive il processo: «Gli animali macellati, sospesi a testa in giù su un nastro trasportatore in movimento, passano da un lavoratore all’altro, ognuno dei quali esegue una specifica operazione del processo produttivo».4 Gli autori aggiungono poi con orgoglio: «Questa procedura ha dimostrato essere talmente efficiente da essere adottata in molte altre industrie, come per esempio quella delle automobili».5 Sebbene con l’invenzione della catena di montaggio Ford abbia capovolto il processo, trasformando la frammentazione in assemblaggio, egli contribuì comunque alla frammentazione su più vasta scala del lavoro e della produzione individuale. Lo smembramento del corpo umano non è un risultato del capitalismo moderno, piuttosto il capitalismo moderno è un prodotto della frammentazione e dello smembramento.6

Uno degli aspetti fondamentali della catena di smontaggio di un mattatoio è che l’animale venga trattato come un oggetto inerte e non come un individuo vivente. Analogamente il lavoratore della catena di montaggio viene trattato come un oggetto inerte e non pensante, le cui necessità creative, fisiche ed emozionali vengono completamente ignorate. Le persone che lavorano alla catena di smontaggio di un mattatoio, più di chiunque altro, devono accettare il doppio annichilimento del proprio sé su grande scala: non dovranno negare solo se stessi, ma dovranno anche accettare la negazione dell’animale in quanto referente culturalmente assente. Mentre gli animali sono ancora vivi, essi devono vederli come carne, esattamente come accade per quelli che, fuori dal mattatoio, se ne cibano. Per questo motivo devono alienarsi tanto dal proprio corpo quanto da quello dell’animale.7 Il che spiega il fatto che il «turnover dei lavoratori dei mattatoi è il più alto in assoluto».8

L’introduzione della catena di montaggio nell’industria automobilistica ebbe un effetto rapido e sconvolgente sugli operai. La standardizzazione del lavoro e la separazione dal prodotto finale divennero fondamentali nell’esperienza dei lavoratori e il risultato fu l’incremento della loro alienazione rispetto a quanto producevano.9 L’automazione li separò dal senso di realizzazione grazie alla frammentazione del loro lavoro. In Labor and Monopoly Capital, Harry Braverman illustra i risultati dell’introduzione della catena di montaggio: «La maestria artigianale cedette il passo a una sola ripetitiva operazione di dettaglio e le classi salariali furono standardizzate a livelli uniformi».10 I lavoratori lasciarono la Ford in massa dopo l’introduzione della catena di montaggio. A tal proposito, Braverman osserva: «Questa iniziale reazione alla catena di montaggio si riflette nell’istintiva repulsione dell’operaio per il nuovo tipo di lavoro».11 Ford smembrò il significato del lavoro introducendo una produttività priva del senso dell’essere produttivi. La frammentazione del corpo umano nel tardo capitalismo consente che la parte smembrata rappresenti l’intero. Siccome il modello del mattatoio non è evidente agli occhi degli operai della catena di montaggio, essi non si rendono conto di sperimentare l’impatto della struttura del referente assente della cultura patriarcale.

* Questo brano è apparso per la prima volta in altra traduzione sulla rivista Liberazioni nel 2010, come parte del secondo capitolo del libro pubblicato nella sua interezza dalla rivista.

1 Bertolt Brecht, “Cinque difficoltà per chi scrive la verità”, in Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, 1973.

2 Bertolt Brecht, Santa Giovanna dei Macelli, Einaudi, 1966.

3 Henry Ford, My Life and Work (1922), citato in Allan Nevins, Ford: The Times, The Man, The Company, Charles Scribner’s Sons, 1954, pp. 471-72.

4 Robert B. Hinman e Robert B. Harris, The Story of Meat, Swift & Co., 1939, 1942, pp. 64-65.

5 Ibidem.

6 Come osserva James Barrett: «Gli storici hanno privato i confezionatori [di carne] del meritato titolo di pionieri della produzione di massa, poiché non fu Henry Ford, bensì furono Gustavus Swift e Philip Armour a sviluppare la catena di montaggio, che continua a simbolizzare l’organizzazione razionale del lavoro» (Work and Community in the Jungle: Chicago’s Packinghouse Workers, 1894-1922, University of Illinois Press, 1987, p. 20).

7 Hannah Meara Marshall fa notare che il lavoro di un apprendista nel reparto di preparazione della carne può essere «un’esperienza noiosa e frustrante», suggerendo così che la doppia alienazione non è prerogativa esclusiva di chi è addetto alla macellazione (in “Structural Constraints on Learning: Butchers’ Apprentices”, American Behavioral Scientist, 16(1), 1972, pp. 35-44, qui p. 35).

8 John Robbins, Diet for a New America, Stillpoint Publishing, 1987, p. 136.

9 «Fino ad allora un operaio specializzato prendeva una piccola quantità di materiale e assemblava un volano-magnete. Il lavoratore medio di questo settore completava da 35 a 40 pezzi in un giorno lavorativo di nove ore, con una media per magnete pari a circa 20 minuti. In seguito l’assemblaggio fu suddiviso in 29 operazioni effettuate da altrettanti operai disposti lungo un nastro trasportatore. Immediatamente il tempo medio di assemblaggio venne ridotto a 13 minuti e 10 secondi. […] Così nacque la produzione di massa – quella che Ford definì come il convergere di potenza, accuratezza velocità, continuità e altri principi nella fabbricazione in grandi quantità di un prodotto standardizzato» (Allan Nevins, Ford, op. cit., pp. 472, 476.

10 Harry Braverman, Labor and Monopoly Capital: The Degradation of Work in the Twentieth Century, Monthly Review Press, 1974, pp. 148-149.

11 Ibidem.

Vite diseguali: forza lavoro animale e capitale di specie (Social Reproduction Feminism parte III)

L’ingestione simbolica e materiale dei corpi animali, che con un termine altisonante ma efficace Derrida (1989, trad. it. 2011) ha chiamato carnofallogocentrismo, è alla base dell’istituzione del Soggetto Umano che ha separato e subordinato l’Animale dalla fondazione dell’Umano appropriandosene ed escludendolo al medesimo tempo. L’ideologia della specie ha così definito e dominato i corpi animali e animalizzati. Il pensiero femminista, radicando il carnofallogocentrismo in una visione contestuale e intersezionale, ha mostrato in particolare come la confluenza di animalizzazione e femminilizzazione sia servita a rafforzare la posizione subalterna delle femminei animali sia sul piano dei segni, dagli stereotipi linguistici ai corpi-oggetto dell’immaginario, che su quello delle azioni, per mezzo di abusi e violenze sessuali e dello sfruttamento del loro lavoro produttivo e riproduttivo.

Dalla narrazione dell’Uomo cacciatore come motore dell’evoluzione (ampiamente decostruita dalla primatologia femminista), alle retoriche del lavoratore operoso e del soldato vittorioso, mangiare carne è proprio del soggetto muscolare, sano, vigoroso, attivo, dunque maschile, non mangiare carne qualifica il soggetto come debole, vegetale, passivo, dunque femminile. Il rifiuto della carne come rifiuto dell’ordine patriarcale era già condiviso da molte suffragette, una scelta rispetto alla quale, per esempio, andrebbe contestualizzata la violenza della nutrizione forzata riservata a quante sceglievano di fare lo sciopero della fame in carcere al fine di delegittimarne la radicalità politica, ma è stata la riflessione ecofemminista sulle proteine femminilizzate (Adams, The Sexual Politics of Meat, 1990), cioè quelle ottenute dallo sfruttamento delle capacità riproduttive degli animali femmina, ad evidenziare come il veganesimo sia per il femminismo un atto politico e non semplicemente una scelta alimentare. Allo stesso tempo, non bisogna ignorare che sono state spesso le donne con il loro lavoro di cura a veicolare la norma carnofallogocentrica nel contesto di una rigida divisione dei ruoli di genere, del lavoro e degli spazi, preservando le “tradizioni familiari” in cucina, o precludendosi la scelta vegetariana per venire incontro alle esigenze del capofamiglia, o ancora assicurando a quest’ultimo fra tutti i membri della casa un’alimentazione a base di carne in situazioni di povertà o scarsità alimentare.

Se, come riconosciuto dal femminismo socialista, la lotta di classe non può non essere anche di genere, una prospettiva femminista intersezionale di liberazione dai rapporti di forza del capitalismo non può non prendere in considerazione anche il capitale della specie accumulato sfruttando il lavoro produttivo-riproduttivo dei corpi “da reddito”. Nel complesso animal-industriale il corpo degli animali, totalmente alienati da se stessi, dal loro socius e dall’ambiente, prodotti (per altri) oltre che mezzi del loro asservimento, consente una disponibilità di capitale economico totalizzante che non solo “assicura chance di vita ineguali” (Bujok), ma prima ancora è reso possibile dal presupposto – specista e sessista – delle vite disuguali di uomini e animali.

Nell’attuale epoca del biotutto, come la definiscono Herzig e Subramaniam (Labor in the age of “bioeverything”, 2017), il lavoro non è più definibile nei termini dell’umanesimo marxiano, ma deve prendere in considerazione il diverso posizionamento dei corpi al lavoro in assemblaggi che sono umani, animali e macchinici. Rivedendo la posizione marxiana in chiave antispecista, Jason Hribal è stato tra i primi a riconoscere a pieno titolo la condizione di lavoratori agli animali non umani (e dunque anche a riconoscerne l’agentività e le capacità di resistenza), a ricondurre l’origine del plusvalore allo sfruttamento del lavoro riproduttivo dei mammiferi femmina, e a rilevare le intersezioni dello sfruttamento nel “mercato della carne”ii. Ma una confluenza fra analisi bioeconomica e biopolitica del capitale di specie è ampiamente presente anche nel pensiero di Donna Haraway, che proprio dal femminismo socialista prende avvio, dalle riflessioni sull’Oncotopo™ di Testimone modesta (1997, trad. it. 2000), il topo-femmina geneticamente modificato brevettato dalla DuPont per sviluppare “con affidabilità” il cancro alla mammella, fino alle recenti considerazioni (Staying with the Trouble, 2016) sui nodi che legano i nostri corpi ai corpi delle cavalle gravide, costrette a stare immobili e attaccate a un catetere per la raccolta dell’urina da cui si ricava il Premarin (PREgnant MARes’ urINe), un estrogeno coniugato usato soprattutto per le terapie ormonali in menopausa e nelle transizioni m-t-f. Stupisce allora che, nonostante le numerose evidenze sulla “connessione femminile”, come la definisce Karen Davis, rilevate dall’ecofemminismo, dal tecnofemminismo e dal femminismo nero, il Social Reproduction Feminism (SRF) sia rimasto sostanzialmente impermeabile all’antispecismo.

Oggi, negli allevamenti intensivi, le mucche lavorano per circa 350 giorni l’anno, sono sottoposte a mungitura in un sistema di rotazione a catena strettamente cadenzato (e ormai anche robotizzato) e, visto l’estremo sfruttamento fisico, sostituite non appena le loro performance scendono sotto il livello considerato “ottimale” (una mucca da latte in allevamento sopravvive in media 4 anni, dopodiché, stremata, viene macellata, mentre la vita delle mucche in natura è di circa 20 anni). Inseminate artificialmente e sincronizzate per ovulare, le madri sono separate dai vitelli entro 48 ore dal parto, in modo che la produzione di latte sia interamente riservata al mercato: negli ultimi 40 anni la produzione del latte vaccino è più che raddoppiata, e mediamente una mucca produce tra i 20 e i 30 lt. al giorno – la patologia più comune per mucche da latte è la mastite – contro i 4 lt. di cui avrebbe bisogno un vitello, potendo essere munta fino al settimo mese di gravidanza.

Il modello del “bordello riproduttivo”, in sostanza l’allevamento della riproduzione, che già Gena Corea (1985) rintracciava nello sfruttamento animale, negli attuali circuiti della tecnobioeconomia che colonizzano interamente la potenza generativa zoe “ha il volto postumano delle femmine della specie”, come scrive Angela Balzano. Pratiche come l’inseminazione artificiale, il trasferimento di embrioni, la clonazione, la maternità surrogataiii, spesso subordinano, più o meno consapevolmente, alcuni corpi femminili usati come fabbriche di ovuli o incubatrici viventi, mentre ne individuano altri come destinatari privilegiati di una retorica tutta commerciale della scelta personale, oscurando così le problematiche politiche che generano e muovono questi circuiti.

Il progetto secolare di colonizzazione eugenetica del mondo animale culmina nella produzione di animali-femmina brevettati che sfruttano una precisa retorica del materno, come le scrofe SuperMom™ Maternal Line commercializzate dalla Newsham Choice Genetics, progettate per produrre più prole ma anche per avere un latte più nutriente e crescere figli più sani e vigorosi (per il mattatoio) come è proprio di una brava madre. Considerate nella realtà come “macchine da salsicce”, anche le scrofe come le mucche sono inseminate artificialmente con l’ausilio del rape rack (il termine in disuso, ma la tecnologia è regolarmente in uso), un sistema di contenimento che evita la ribellione dell’animale alla violenza della pratica, in prossimità del parto tenute all’interno di una stretta gabbia di acciaio definita iron maiden, e infine legate immobili su un fianco alle sbarre delle gabbie in modo da avere le mammelle sempre esposte per la lattazione.

Una prospettiva ecofemminista, ha scritto Greta Gaard (Reproductive technology, or reproductive justice?, 2010) “rende visibile le cattive condizioni di salute e la sofferenza inflitta alle femmine di tutte le specie” da quelle da reddito, sfruttate per le loro capacità riproduttive “a quelle che lavorano in condizioni insicure e illegali per macellare altri corpi animali, a quelle madri che in gravidanza o allattamento bevono l’acqua o respirano l’aria inquinata dagli scarichi degli allevamenti intensivi, trasmettendo queste sostanze inquinanti ai figli, e infine a quelle che consumano i prodotti della riproduzione femminile nutrendosi degli antibiotici e degli ormoni della crescita oltre che della sofferenza di questi corpi, del loro latte e delle loro uova”.

Guardando, per esempio, all’industria della carne nella prospettiva dei lavoratori umani, ci si accorge di come siano stati soprattutto etnia e genere a definire sia la divisione delle mansioni sia le relazioni di potere – a loro volta inscindibili dai significati sociali e culturali del carnivorismo – in un settore come questo in cui le dinamiche di animalizzazione (emarginazione, discriminazione, degradazione, sfruttamento, sottrazione del tempo della vita) coinvolgono tutti i lavoratori, alienati dal proprio corpo ma anche dal corpo animale. Questi operai, definiti dai media “carne da macello” e che di sé dicono di essere trattati “come animali”, sono in maggioranza immigrati, molti dei quali illegali, sottoposti a mansioni ripetitive e turni massacranti (con un turnover annuo anche del 100%), e ad altissimo rischio di infortuni quasi mai denunciati per la mancanza di tutele, soprattutto amputazioni o malattie, da infezioni a lesioni muscolo-scheletriche peraltro molto simili a quelle contratte dagli animali, cui si aggiungono le violenze sessuali subite dalle donne più che in altri ambiti lavorativi (mentre alla diminuzione delle ispezioni governative per garantirne la sicurezza fa riscontro un aumento dei raid per espellere gli illegali).

Accanto alle gerarchie su base etnicaiv, le gerarchie di genere incarnate nelle architetture e nei dispositivi dell’industria della carne hanno riservato agli operai uomini le mansioni centrali legate alla lavorazione della carne fresca, l’uccisione degli animali e il controllo dei macchinari, e alle donne, per le quali lavorare in questo settore è sempre stato socialmente più sconveniente, il settore della carne lavorata (affettati e insaccati); fra le operai, poi, mentre le bianche erano in genere impiegate nelle mansioni di pulizia, alle donne afroamericane erano riservati i lavori meno appetibili e meno adatti a persone “sensibili”, svolti in ambienti caldi, umidi e maleodoranti (Horowitz, 2003).

Nella fabbrica globale dei corpi, la formula classica marxiana D-M-D’ potrebbe essere sostituita da quella B-M-B’, scrive Stefan Helmreich (Species of biocapital, 2008), dove la prima B indicherebbe il biomateriale, e B’ il biocapitale che si ottiene dalla trasformazione di B in merce (M); va evidenziato però, con Helmreich, che ciò non significa che B’ è contenuto necessariamente in B, come se i corpi fossero “naturalmente” contenitori di capitale, come se la produttività fosse l’essenza della specie, e gli organismi delle fabbriche naturali, ma che solo precise relazioni e condizioni socio-economiche rendono possibile la trasformazione di B in B’.

E se, per evitare di essenzializzare le “specie di capitale” da una parte, ma anche ciò rispetto cui queste diverse “specie” sono misurate, cioè il capitale stesso, si chiede Helmreich, “ci domandassimo non cosa succede alla biologia quando è capitalizzata, ma piuttosto se il capitale sia necessariamente il segno sotto il quale ogni incontro contemporaneo dell’economico e del biologico deve transitare?”. Problematizzando l’assunto specista implicito nella distinzione delle specie di capitale, dunque, potremmo destabilizzare l’idea che il capitale sia l’unica moneta di scambio, e lo scambio del capitale l’unica misura del valore, nei circuiti della bioeconomia?

In altri termini, nonostante l’attuale mobilitazione totale della forza lavoro – allo scopo in effetti di una sua totale immobilizzazione – in modi in cui dinamiche tradizionali e mezzi nuovi si combinano per colonizzare la produttività e riproduttività dei corpi animali tutti, la forza lavoro non può essere mai interamente attualizzata nel lavoro. L’abuso della potenza di un corpo alienato e mercificato, insomma, “non elimina la potenza di non fare parte della forza lavoro” (Ciccarelli, Forza lavoro, 2018) v. Comprendere perché, per chi e secondo quali relazioni sociali e rapporti di potere un (e quale) corpo diventa “produttivo” è fondamentale per una politica che rimetta i corpi in movimento, piuttosto che soltanto al lavoro. L’antispecismo, d’altronde, lungi dall’essere una nuova “definizione” da sostituire alle precedenti, andrebbe colto piuttosto come il movimento dei corpi im-propri, cioè smarcati da ogni forma di proprietà (Filippi, Il marchio della bestia e il nome dell’uomo), della specie come del capitale; il movimento verso la “dissipazione dell’oikonomia” e per la celebrazione di un’inoperosità im-potente, quella dei corpi in relazione che resistono in comune nella vita che, im-personalmente, li attraversa.

i Termine che uso nella consapevolezza che la natura dei corpi è sempre prodotta, che ovviamente non significa ignorarne la dimensione situata e incarnata, ma al contrario essere capaci di non considerarla come qualcosa di statico e pre-esistente ai modi possibili del suo accadere materialsemiotico.

ii Hribal cita per esempio il caso delle giovanissime “operaie del sesso” in Bangladesh che assumono steroidi normalmente somministrati ai bovini per acquistare peso e avere un corpo più “appetibile” e “in carne” per i clienti.

iii Tema, quest’ultimo, estremamente complesso e non esauribile in poche righe, rispetto al quale questa riflessione intende principalmente problematizzare la retorica della “libera scelta”, nella consapevolezza che il personale non è mai l’individuale, e che anche chi ricorre consapevolmente all’uso di queste pratiche non è mai svincolato dai circuiti e dagli apparati medici, economici, politici e sociali entro cui queste hanno luogo.

iv Gli ispanici sono subentrati agli est-europei ed agli afroamericani a partire dagli anni Sessanta, in concomitanza con una dequalificazione e precarizzazione del lavoro, la progressiva perdita del potere sindacale e la drastica riduzione dei salari.

v Purtroppo anche Ciccarelli, che pure sostiene che condizione migrante e femminile sono decisive per comprendere la forza lavoro contemporanea, esclude nella sua analisi qualsiasi considerazione dei corpi non umani al lavoro.

(immagine in evidenza: Miru Kim ‘The Pig that Therefore I Am’ (2010))