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Su Navjot Altaf – o su quello che una mostra (da sola) non può fare

“Lost Text” (2018); stampe fotografiche su carta fissate su dibond; 63.5×50.8; particolare dell’installazione. Foto: PAV.

di Alessandra Ferlito

 

“Diversi frammenti dei diari che ho scritto nel corso degli anni, durante i periodi trascorsi nel Bastar, sono stati trascritti digitalmente. Poi sono stati corrotti, convertendo il testo in un mix arbitrario di numeri, alfabeti, simboli, segni di interpunzione e segni diacritici (accenti acuti), insieme ad alfabeti di molte lingue moderne – dall’alfabeto latino, al cirillico a quello greco. Il risultato è profondamente criptico. […] Ancora abbastanza interessanti, i disorganizzati frammenti di trame verbali – ulteriormente spezzettati dalla memoria selettiva del computer, […] conducono narrazioni o spingono a scavare i significati nascosti e crearne di nuovi, in prima istanza imprevisti.”
(Navjot Altaf 2019)

 

 

 

Nel testo che segue troverete delle pagine di approfondimento che potrete aprire cliccandoci sopra;
sono indicate in rosso e grassetto:
vicenda biografica e artistica di Navjot Altaf;
alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo;
il cortocircuito che mi ha provocato la visione della mostra
.


Il Parco Arte Vivente di Torino presenta una mostra intitolata Samakaalik: Earth Democracy and Women’s Liberation – la prima personale in Italia dell’artista e attivista indiana Navjot Altaf. Vado a vederla convinta che mi darà da pensare. Conclusa la visita comincio a prendere qualche nota. Nel frattempo mi trattengo a Torino; le rivolgo occhi e orecchie, la respiro, la tasto timidamente.

La mostra fa parte di un ciclo dedicato ai paesi asiatici, ideato da Marco Scotini – curatore di fama internazionale, teorico e docente che da anni presta attenzione alle molteplici prospettive che, a livello planetario, mettono in discussione l’ordine coloniale e il pensiero egemonico di stampo patriarcale, bianco e occidentale. Dopo avere presentato mostre per me decisamente interessanti, come The White Hunter/Il cacciatore bianco e Il soggetto imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia, qui Scotini offre spazio all’intersezionalità. Nel percorso di Altaf, infatti, postcoloniale e femminismo procedono simultaneamente alla lotta di classe e a quella ecologista. Proprio a questa simultaneità di intenti si riferisce il termine hindi Samakaalik. Il resto del titolo parla forte e chiaro: abbiamo a che fare con l’incontro tra questione ecologica/ambientale e femminismo, cioè con l’ecofemminismo. Andando oltre la sintesi estrema di questa etichetta, la mostra mi parla delle possibilità concrete di un cambiamento. Mi fa vedere che delle alternative alle logiche dello sviluppo capitalista possono esistere: in più parti del mondo ci sono “comunità resistenti” che le praticano. Allo stesso tempo, essa dimostra che in questi processi di mutamento, la tecnica e la tecnologia possono avere un ruolo creativo e non-distruttivo, e che l’atto creativo/artistico può avere un ruolo fondamentale e diventare un atto (deleuziano) di resistenza alla morte.

Nel corso di un’intervista rilasciata in occasione dell’evento torinese, Altaf racconta le ragioni del suo impegno politico e sociale attraverso l’arte, affermando, da una parte, che quest’ultima può essere strumentalizzata dalla politica e, dall’altra, che essa è sempre politica. Inoltre, secondo lei, più le attività artistiche risultano inclusive e più le persone possono iniziare a porsi domande e a partecipare attivamente. Partendo da questi assunti, osserverò i metodi della ricerca-attivista che Altaf ha sperimentato negli anni, per interrogare, in seconda battuta, il potenziale discorsivo delle mostre ‘politiche’ nell’attuale contesto culturale-sociale-politico italiano. Se mi dedico a questo esercizio è perché credo che il lavoro di Altaf riesca – simultaneamente – a documentare (voci di minoranze altrimenti silenziate; contraddizioni altrimenti sotterrate), svelare (le menzogne dei discorsi patriarcali dominanti e la violenza del progresso tecnico e tecnologico proposto dal capitalismo) e suggerire (nuove domande, forme di resistenza e auto-determinazione che non escludono il ricorso all’estetica, alla tecnica e tecnologia). In altre parole, perché penso che dalla sua esperienza si possano trarre alcuni spunti preziosi per qualsiasi pratica di lotta che voglia agire in termini anche estetici, per qualsiasi processo creativo che voglia porsi come gesto politico.

In alto: “Lost Text” (2018), stampe fotografiche su carta fissate su dibond; installazione che riproduce il lavoro nella sua forma originale. In basso: “Insect Logos” (1972); 26 stampe su carta, riproduzioni dei disegni originali.

Soffermarsi sulla vicenda biografica e artistica di Altaf è interessante per richiamare alcune questioni relative al rapporto tra arte e attivismo: l’utilizzo strumentale dell’arte da parte della politica; lo scarso interesse e riconoscimento, da parte del mondo dell’arte (artisti compresi), nei confronti delle pratiche artistiche fondate sui processi politicamente e socialmente indirizzati; la necessità di rifiutare le posizioni identitarie affrancandosi dai purismi che impediscono la contaminazione; la spinta a sfidare le strategie perverse della cattura capitalista.

La pratica artistica e di attivismo di Altaf ha sempre stimolato una ri-negoziazione costante e costantemente condivisa. Per lei è indispensabile smarcarsi dal ruolo identitario delle etichette, sconfinare tra ambiti e discipline, disfare i linguaggi e le gerarchie. Le questioni appena accennate mi tornano, invece, familiari se penso al contesto italiano, dove il dibattito sulla “politicizzazione dell’estetico” e la “estetizzazione del politico”, da Benjamin in poi, non ha mai smesso di affannare teorici, artisti, storici, critici, curatori. Pure in Italia, la tendenza a non riconoscere il valore estetico-discorsivo di alcune pratiche di attivismo esiste e resiste tra gli ambienti dell’arte ufficiale, dove esse vengono lette per lo più come forme di assistenzialismo sociale o umanitario, o di mediattivismo. In ogni caso, nulla che abbia a che vedere con il fare arte. Allo stesso modo, spesso i movimenti hanno difficoltà a riconoscere la politicità intrinseca di alcune pratiche e ricerche artistiche, che finiscono per essere considerate, nel migliore dei casi, come forme di estetizzazione del politico, oppure peggio, di complicità al regime di rappresentazione; di certo, non come forme di resistenza. Questa fedeltà alle etichette e ai ruoli prescritti, la reciproca miopia e antipatia che essa quasi automaticamente produce, fanno sì che l’incontro tra arte e attivismo non sia poi così frequente; eppure, quando è esistito e quando ancora avviene, esso riesce a produrre esiti imprevisti e non-appropriabili.

Concordo nel pensare che non si tratta di chiedersi “in che modo gli artisti ci possono aiutare a costruire movimento o indicarci nuove strade per fare politica, mettendo a disposizione dei nostri occhi banali e spenti, di cittadini comuni, la loro lungimiranza eccezionale, la loro potenza visionaria, il loro intuito avanguardista” (Revel 2009, p. 56). Credo che dovremmo continuare a guardare l’arte contemporanea come a un’istituzione in cui emergono gli elementi di un governo biopolitico (Baravalle 2009, pp. 12-13). E condivido l’urgenza di mettere in crisi gli spazi e i meccanismi istituzionali della sussunzione, di ri-modularsi collettivamente e costantemente per eludere la cattura di senso e valore, la normalizzazine dei discorsi e delle forme. Per ricordarlo con le parole di Piero Gilardi, artista, attivista e fondatore del PAV, “una narrazione di senso politico è accettata sul mercato. Tuttavia, quando un messaggio politico viene accettato dal mercato significa che è stato neutralizzato attraverso il suo inquadramento nell’estetica. […] ed è proprio questa sovrastruttura estetica ciò che permette a dei messaggi politici di essere commercializzati.”
Proprio le vite artistiche e politiche di Altaf e Gilardi, però, mi suggeriscono più di ogni altra cosa che dovremmo problematizzare l’aut-aut come metodo e interrogarci sulle possibilità che l’incontro tra arte e attivismo ancora oggi potrebbe offrire.

Navjot Altaf, “Body City Flows” (2015), video realizzato per Geographies of Consumption / The City as Consumption Site: Bombay / Mumbai, progetto d’arte pubblica curato dal Mohile Parekh Center; 15′.

Gli argomenti che propongo risalgono in buona parte a quelli della critica alle istituzioni che dagli anni Sessanta in poi ha riempito, a livello globale, molte pagine, eventi, manifesti politici e culturali. Da quel momento il rapporto tra rappresentanza e rappresentazione è profondamente mutato e “non c’è più l’aspirazione a impadronirsi dello Stato (o dei suoi istituti come il Museo, il Partito, il luogo del Lavoro, etc.), piuttosto […] un’attitudine a difendersi e a uscire da esso […]. “Exit” […] non “Voice”: abbandono anziché scontro. Ricerca di nuovi spazi d’intervento, di immagini costituenti, di micro-azioni su scala locale, di forme di autogestione, di autoorganizzazione, di empowerment.” (Scotini 2009, p. 101). Oggi le condizioni generali sono ulteriormente cambiate e ancor più complicate; il coloniale non è mai morto e ciò di cui abbiamo bisogno sono visioni e pratiche che ci aiutino a resistere alla tossicità dell’antropocene e del capitalocene. Perciò, a maggior ragione, credo che una relazione costante – non-formale e non-gerarchica – tra arte e attivismo, oggi più che mai, vada auspicata e incoraggiata. Lo penso tutte le volte che visito una mostra che si fa vanto dei suoi contenuti sociali o politici ma che allo stesso tempo, per elaborarli, non ha fatto altro che espropriare e inquadrare le soggettività che di quei contenuti diventano forzatamente dei meri oggetti-contenitori (vedi le numerose ‘vittime’ prodotte da certe pratiche “artiviste” o dalle mostre pseudo-antirazziste della sinistra multiculturalista, ancora alla ricerca della “autenticità africana”, o sulla migrazione o sui soggetti socialmente “deboli”). Lo penso quando alcuni spazi dell’attivismo sembrano soffrire di scarsa visionarietà, quella per cui non si riescono a sperimentare forme, modi e linguaggi insoliti, non-previsti, non-catturabili (le esperienze transfemministe e queer fanno quasi sempre eccezione). Soprattutto, lo penso quando mi muovo in contesti più contaminati, dove l’artista e l’attivista non sono più figure sacre o etichette da sfoggiare, ma pratiche e modi indipendenti da ogni vincolo e orpello, che non si definiscono, non si identificano, si mettono in gioco e si lasciano spiazzare dall’imprevedibilità di ogni incontro. Per tornare al dunque, lo penso quando visito mostre come quella di Altaf – anche se fatta per lo più di riproduzioni al posto di opere originali: l’aura dell’unicità è evaporata e si è portata via il pregiudizio dei puri. Le tecnologie digitali e le tecniche hanno dato il loro contributo disintossicante. L’artista ha abbandonato il piedistallo. La dissacrazione è compiuta.


Quale potenziale discorsivo potrebbe, allora, avere una messa in scena della defezione, della disobbedienza, della protesta? (Marco Scotini)

In un saggio del 2009 in cui parla del suo progetto Disobediencean ongoing videoarchive, Scotini si interroga sul significato della disobbedienza (sociale) e sul senso del mettere in mostra il dissenso. Allo stesso tempo, l’autore individua alcune pratiche e immagini “costituenti”: quelle che rifiutano la rappresentazione verticale del potere in senso classico, a favore di concatenamenti trasversali, multipli, eterogenei, in grado di produrre immagini alternative alle produzioni semiotiche ufficiali e costitutive di una realtà sociale differente. Dalla scrittura di quel saggio sono trascorsi più di dieci anni, durante i quali il curatore ha continuato a disseminare il suo contributo critico prestando attenzione alle esperienze politicamente e socialmente costituenti presenti in Italia (incredibilmente attiva dagli anni Settanta in poi) e nel resto del mondo. Mentre oggi è del tutto irrilevante stabilire se la pratica di Altaf possa definirsi o meno “costituente” o se essa abbia il diritto di entrare nell’archivio delle pratiche disobbedienti, a partire dai contenuti della sua mostra, mi sembra più interessante tornare a chiedersi “se le forme di presentazione di una mostra politica possano sviluppare nuovi modelli di dialogo, ricezione, interazione, critica, azione comunicativa”. È importante capire – continua Scotini – fino a che punto possano forzare i limiti del sapere disciplinato; fino a che punto trasformarlo in un campo di scontro simbolico.

“How Perfect Perfection Can Be” (2015); stampe fotografiche su carta, dibond, documentazione delle mappe originali, disegni ad acquerello concepiti per essere esposti insieme ai video (riproduzioni degli originali).

Che significato può assumere e quale potenziale discorsivo può esprimenre il soggetto “resistente” di Altaf, tutt’altro che subalterno, in un paese in cui si fa ancora fatica a riconoscere il proprio passato coloniale; in cui un vero processo di defascistizzazione non si è mai compiuto e l’impronta economica, sociale e culturale è quella capitalista, classista, sessista, razzista, specista? Oppure non è solo una questione di forma, e dovremmo invece interpellare anche la capacità di ascolto, ricezione e analisi da parte del pubblico?
Ad argomentare delle risposte mi aiuta in parte Judith Butler, quando riprende Susan Sontag per parlare di “obbligazione etica”, ovvero della nostra capacità di rispondere a distanza in maniera etica alla sofferenza, e di cosa rende possibile questo incontro etico, quando esso ha luogo:

“[…] ciò che sta accadendo è così lontano da non investirmi di nessuna responsabilità? Oppure, al contrario, ciò che sta accedendo mi è tanto vicino da costringermi a occuparmene? Se non ho causato io, in prima persona, questa sofferenza, vuol dire che non ne sono in alcun modo responsabile? […]”
(Butler, L’alleanza dei corpi, p. 162).

Che tipo di risposta etica può provocare la mostra di Altaf nel suo pubblico? La sua forma di presentazione non è rivoluzionaria, anzi, riprende un modello globalmente consolidato e riconosciuto. Eppure, personalmente, la sua visione mi ha provocato un cortocircuito lento e progressivo, scattato nel momento in cui i suoi contenuti si sono sovrapposti all’attuale situazione politica italiana – quella di governo, da una parte, e quella dei movimenti, dall’altra.

Tornando a Butler: certamente “oggi sappiamo cosa significa sentirsi invasi e sopraffatti da immagini che fanno appello ai nostri sensi; ma lo siamo anche da un punto di vista etico?”. E poiché sappiamo che le immagini sono in grado di sopraffarci e paralizzarci, è possibile, invece, “sentirsi sopraffatti, ma non paralizzati? […] la sopraffazione che subiamo può, in qualche modo, disporci all’azione?” (Idem, pp. 161-64).
La risposta può essere si. A patto, però, che si comprenda che “ciò che accade lì accade anche qui” (Idem, p. 193). Pertanto, anche la domanda di Scotini può avere un esito positivo, ma solo stando alla stessa condizione. Ovvero, una mostra politica come quella di Altaf può sviluppare nuovi modelli di dialogo, ricezione, interazione, critica – può disporci all’azione – indipendentemente dalla sua forma di presentazione, a patto che chi la osserva, completandone il significato, sia capace di stare in ascolto, mettere in dubbio la cultura a cui sente di appartenere, i limiti e i condizionamenti ai quali è soggetta. Solo se chi la riceve è in grado di rallentare, concedersi del tempo, fare 2+2, comprendere che e qui non sono poi così distanti; che tra quello che sta succedendo e quello che sta succedendo qui ci sono dei nessi profondi – che, a saperli cogliere e analizzare, potrebbero rivelarsi sconcertanti. L’arte, la curatela, l’attivismo, fanno la loro parte. Una mostra – come qualunque essere vivente animato o inanimato, come qualsiasi movimento sociale o politico – ha ragione di esistere solo nella relazione col suo ambiente circostante – animato o inanimato. Ma da sola, cosa può fare?


Per tutte le opere in mostra: Courtesy l’artista
Per il progetto “Nalpar”: Courtesy l’artista e DIAA.
Ringraziamo il PAV per avere concesso l’utilizzo delle immagini.
Dove non indicato diversamente, le foto sono di Alessandra Ferlito.

La rappresentazione degli animali non umani in Donna Haraway

Le due giornate del convegno internazionale Zoosemiotica 2.0. Forme e politiche dell’animalità, organizzato dal Dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo (1-2 Dicembre 2016), hanno riunito studiosi di diversa provenienza per riflettere sulla significazione dell’animale nei diversi campi del sapere, ovvero sulla gestione di quella “soglia insicura” che ha sempre collegato la definizione dell’animale non umano a una precisa visione e posizione dell’animale umano nel mondo.

Se nella zoosemiotica originata dal contesto delle scienze naturali del secondo dopoguerra la relazione uomo-animale è stata impostata nei termini di una gestione efficiente dei passaggi di informazione, secondo i principi della cibernetica di primo ordine[1], una seconda zoosemiotica richiede un ripensamento delle relazioni interspecie estranea agli approcci dell’umanesimo occidentale, in cui la la possibilità di instaurare relazioni differenti vada di pari passo con la ridefinizione dei termini stessi della relazione.

Durante il convegno è emersa, più o meno esplicitamente, una sostanziale impossibilità di definire animali se non con parole “proprie”: resta sempre linguistico, infatti, il riconoscimento del “tu” animale, ed è sempre nel linguaggio dell’io che si crea lo spazio che lascia parlare l’altro anche riconoscendogli un diverso linguaggio. Pur essendo chiaro che la questione animale è soprattutto una questione rappresentazionale, però, solo in pochi casi la funzione della rappresentazione è stata messa in discussione. Non stupisce allora che la riflessione antispecista del femminismo, in particolare nella sua versione postumanista, o per dirla con Haraway “compostista”[2] – che sulla ridefinizione della rappresentazione e sui saperi situati ha sempre lavorato – sia stata pressoché assente, fatta eccezione per qualche riconoscimento tributato a un generico femminismo per aver aperto la strada all’adozione di un paradigma finalmente postantropocentrico.

Nel mio intervento, ho scelto di soffermarmi su tre fra i numerosi animali non umani per la produzione tecnobiopolitica dei corpi che compaiono nei lavori di Donna Haraway, ovvero i primati[3], l’oncotopo[4] e il cane[5], per mostrare come nella sua teoria la rappresentazione della differenza molteplice (femminile, animale, macchinica) e la fine del mito dell’origine si accompagnano sempre a un radicale lavoro di decostruzione della nozione di rappresentazione.

Tre fondamentali cedimenti di confine, fra umano e animale, fra organico e macchinico, e fra fisico e non fisico (ovvero fra materiale e informazionale) caratterizzano secondo Haraway[6] l’epoca nella quale viviamo, da lei recentemente definita Cthuluchene[7], nel cui mondo, articolato e multiforme come un insettoide o un trickster, “più che umano, altro da umano, inumano, e umano come humus”[8] s’incontrano dando vita a complessi assemblaggi naturalculturali. Attraverso le crepe aperte da questi cedimenti ciò che appariva come naturale e invariabilmente “dato” cessa di essere tale, ma al contempo si apre anche un nuovo campo di possibilità.

Come sempre, per Haraway, affermare che ogni ottica è una politica del posizionamento, e che dunque l’io e l’altro sono questioni prospettiche, non significa rifiutare la visualità, ma dislocarla, trasportarla altrove così da essere “capac[i] di unirsi a un altro, per vedere insieme senza pretendere di essere un altro”[9]. L’altro, infatti, può essere tale solo mantenendo il suo essere in-appropriato, cioé in una condizione di relazionalità critica”[10] non prefissata in alcuna categoria della differenza, e perciò in grado di sfuggire alle strategie rappresentazionali (di dominazione, incorporazione, opposizione o strumentalizzazione).

Le tecnologie di produzione dei primati

Frontespizio del Systema Naturae di Linneo, 1758.
Frontespizio del Systema Naturae di Linneo, 1758.

L’identificazione di una “specie” a partire dalla tassonomia di Linneo è, come ricorda l’etimologia latina del termine, il frutto di un’operazione anche visiva, che usa la distinzione per fissare le differenze fra corpi puri, e allontanare così il pericolo dell’ibridazione (sia a livello materiale che simbolico)[11]. Ogni scienza è sempre una tecnoscienza che produce l’oggetto del proprio conoscere materializzando una precisa semiotica nei corpi di cui esprime una “forma particolare di appropriazione-conversazione”[12]. Anche la primatologia è una specifica tecnologia per l’incarnazione dei primati, oscillante fra i poli dell’orientalismo e del racconto fantascientifico – essendo sempre allotopico il mito dell’origine e della fine dell’uomo civilizzato[13]. Se prima della seconda guerra mondiale riguarda la visione in modo molto più esplicito, dopo la seconda guerra mondiale, coniugando ingeneria umana, sociobiologia e spiegazioni genetiche, si pone soprattutto il problema della comunicazione.

Akeley Hall of African Mammals, American Museum of Natural History, New York.
Akeley Hall of African Mammals, American Museum of Natural History, New York.

Emblematica della prima fase è la vicenda di Carl Akeley: tassidermista, biologo e inventore, divenuto famoso per aver imbalsamato l’elefante Jumbo, una delle principali attrazioni del circo Barnum tragicamente investito da un treno[14], e animatore dell’allestimento dell’Akeley Hall dell’American Museum of Natural History di New York. Qui, fra i 28 diorami delle principali famiglie della fauna africana, è custodito il gigante di Karisimbi, ucciso da Akeley in un’avventurosa spedizione nello Congo Belga, nel 1821 – dove di lì a poco il re Alberto I inaugurerà il primo parco nazionale africano, l’Albert National Park, caldeggiato da Akeley stesso.

Quell’anno il museo ospita il secondo congresso internazionale dell’eugenetica: anche se un museo è soprattutto un luogo dell’intrattenimento, un museo di storia naturale negli Stati Uniti in quel periodo deve anche contribuire al programma educativo della nazione. Tassidermia, fotografia[15] e pratiche di conservazione rappresentano una vera e propria profilassi per fermare il decadimento della storia e la corruzione del corpo, e contenere il timore per la fine dell’America preindustriale attribuita soprattutto alla grossa ondata di immigrazione di fine secolo. Avere sempre davanti agli occhi l’origine della civiltà contribuisce a contrastare le patologie del corpo individuale e collettivo sul piano medico e morale.

manifesto-pubblicitario-del-circo-barnumNel secondo dopoguerra, la natura diventa ciò che cura in contrasto alla potenza distruttiva della storia. Le scimmie sono considerate gli esseri più capaci di riportare l’uomo civilizzato a ciò ha già perso ma che ora rischia di perdere per sempre. Gli studi della primatologia sul campo tendono a privilegiare la prospettiva “al femminile” delle donne scienziate (di norma bianche e di estrazione borghese), sfruttando l’associazione donna-scimmia per porre maggiormente l’accento sulle relazioni affettive e sulla tematica della maternità.

La copertina di Primate Visions con l’immagine del manifesto per i documentari su Jane Goodall.
La copertina di Primate Visions con l’immagine del manifesto per i documentari su Jane Goodall.

Haraway[16] analizza il manifesto pubblicitario di un ciclo di documentari del 1984 del National Geographic sposorizzati dalla Gulf Oil su Jane Goodall, nota primatologa ed etologa americana che inizia a lavorare negli anni ‘60. Nel manifesto originale, sopra lo slogan “Understanding is Everything”, la sua mano stringe quella di uno scimpanzé. Il gesto è isolato da un ampio contesto di relazioni: l’Africa, i nativi, il momento storico della decolonizzazione, la posizione dominante della primatologia euroamericana, la stessa posizione delle primatologhe rispetto ai primatologi. La mano dell’animale indica metonimicamente la Natura, la mano di Goodall la scienza, una scienza femminilizzata, che persegue però sempre lo stesso scopo, significare e insieme produrre la verità della natura.

Quelli che non possiedono il linguaggio continuano a non potersi rappresentare da soli, e non resta loro che essere rappresentati. È una politica della rappresentazione che non fa alcuna differenza, perché mantiene immutata la sintassi e il luogo del Soggetto che continua a nominare il Tu a partire dal Sé. La relazione resta subordinata agli elementi che mette in relazione, rimane una modalità di espressione del loro essere, non la modalità stessa del loro essere-in-relazione.

Animali (e) cyborg

Come ha scritto Paul B. Preciado in “Le féminisme n’est pas un humanisme” (2014), “la macchina e l’animale (i migranti, i corpo, la farmacopornografia, i bambini della pecora Dolly, i cervelli elettronumerici) […] sono omonimi quantici” di un nuovo animalismo. Nonostante pensando ai cyborg – a loro volta simili a salamandre che possono ri-generarsi ma non riprodursi perché si sottraggono al ritorno dell’identico[17] – tendiamo a considerare soprattutto la relazione tra macchine e animali umani, la prima teoria del cyborg, funzionale al potenziamento del maschio umano, è sperimentata in effetti sull’animale non umano.

HAM, il primo scimpanzé-astronauta.
HAM, il primo scimpanzé-astronauta.

In “Cyborgs and Space” (1960), Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline riportano i primi esperimenti eseguiti presso il NY Rockland State Hospital su un topo innestato con una pompa osmotica per il rilascio graduale di sostanze chimiche, modello per il futuro uomo [man] aumentato finalmente “libero di esplorare, creare, pensare e sentire”. Il sogno della razionalità tecnologica dell’uomo occidentale, incarnato solo un anno dopo HAM, il primo scimpanzé mandato nello spazio.

Loro discendente è l’oncotopo, un topo geneticamente modificato brevettato dalla DuPont e usato soprattutto per gli studi sul cancro al seno. Con l’oncotopo, venduto in cataloghi e classificato in database, l’ordine tassonomico si riconfigura come brand e segue le regole del copyright. La sua realtà semiotica, istituzionale e biochimica, è una realtà di “secondo ordine”[18]: la sua esistenza è un’invenzione che dev’essere costantemente sottoposta a manutenzione, essendo sempre possibile una mutazione che ne vanifica l’utilità.

The Laboratory, or The Passion of OncoMouse, olio su masonite, Lynn Randolph (in Modest Witness, p. 46).
The Laboratory, or The Passion of OncoMouse, olio su masonite, Lynn Randolph (in Modest Witness, p. 46).

Attore naturalculturale nel dramma della tecnoscienza, anche l’oncotopo è un ibrido in-appropriato che minaccia la purezza delle categorie. Come noi ma non come noi, l’oncotopo tuttavia è con noi, perché con noi condivide dei confini fragilissimi stabiliti da una rete complessa di tecnologie e relazioni d’uso dove nulla, nemmeno i diritti, esiste in astratto. Entrare in una relazione di diritto con questi animali vuol dire assumersi la responsabilità dei confini condivisi che dipendono dalle differenti capacità e forze in atto. Responsabilità [response-ability] significa essere attenti alla relazione che si crea nell’intra-azione[19] tra attori naturalculturali capaci di divenire e rispondersi reciprocamente.

Una storia di co-evoluzione

Saper vedere la nostra co-costituzione con gli altri non umani significa anche riconoscere la nostra sostanziale parzialità: non cercare una presunta identità originaria, ma al contrario riconoscere la co-evoluzione interspecie. Haraway usa la definizione di specie compagne [companion species], che distingue da quella di animali da compagnia [companion animal], per sottolineare questo divenire insieme. In When Species Meet, Haraway parla di numerosi “altri significativi” [significant others], gatti selvatici, polli d’allevamento, batteri, cavalli e creature marine. Ma soprattutto del suo cane Cayenne, con cui pratica la disciplina dell’agility, che le offre una conoscenza situata di come le relazioni interspecie portino alla luce ciò che non si conosce ancora ma che per questo può essere sempre possibile.

Haraway e Cayenne durante una gara di agility, foto di Richard Todd (When Species Meet, 226).
Haraway e Cayenne durante una gara di agility, foto di Richard Todd (When Species Meet, 226).

L’addomesticamento, generalmente letto come strumento dell’evoluzione dell’uomo secondo una dialettica servo/padrone, in realtà è una storia di azioni distribuite, un processo emergente di coabitazione. Non c’è stata da un lato l’evoluzione biologica degli animali e dall’altro quella culturale degli umani, ma le cose si sono mescolate molto più di quanto non dica la biologia: basti considerare per esempio i cambiamenti del sistema immunitario di chi vive quotidianamente a contatto con animali come i gatti, come leggiamo in uno studio recente.

Fare il cane domestico, sostiene Haraway, è un lavoro che richiede autocontrollo e una serie di capacità che si acquisiscono nella relazione specifica, dove è in gioco non solo l’economia affettiva, ma anche quella “lavorativa”. Se l’idea che gli uomini realizzano i loro intenti attraverso degli strumenti, siano essi gli animali o le macchine, è sintomo di un narcisismo tecnofilico di matrice umanista, l’idea che i cani sono portatori di amore incondizionato verso gli uomini esprime un narcisismo analogo, semplicemente capovolto di segno. I cani addomesticati infatti, condividono con noi anche una storia fatta di crimini e terrore, e sono stati usati, per esempio, come potenti armi da guerra. Si comprende allora la polemica harawaiana[20] contro chi, come Deleuze e Guattari[21], difende la natura dell’animale selvatico (nella fattispecie la muta di lupi) e considera snaturato l’animale addomesticato, che tra le altre cose ripropone la dicotomia naturale/artificiale presente anche nella distinzione sesso/genere.

Perché gli altri significativi siano anche significanti, però, la distinzione fra natura e cultura e quella fra linguaggio umano e linguaggio animale non funzionano, perché in ultima istanza non escono dalla trappola dell’uno se non attraverso la sua duplicazione. Piuttosto che passare dall’identico al suo doppio, Haraway propone, da una parte, di spostarsi sui molti, su ciò che sfuggendo alla riproduzione mimetica dell’uno che trova l’altro per ritrovare se stesso, trasformi le relazioni di corrispondenza (rappresentazionali) in relazioni di co-implicazione (performative), per fare la differenza senza identificarla, e contemporaneamente differenziare la rappresentazione. Dall’altra, di assumersi la responsabilità di at-testare[22] le nostre configurazioni con gli altri non umani a partire dai confini condivisi. Dal momento, però, che il linguaggio è solo una delle possibili forme di articolazione di questo mondo che in molti abitiamo, è ora di mettere da parte il sogno di un linguaggio comune, e iniziare a sognare quello di una “potente eteroglossia infedele”[23].

 

[1] D. Haraway, Primate Visions. Gender, Race and Nature in the World of Modern Science, Routledge, New York, 1989, pp. 102-3.

[2] Id., “Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin”, «Environmental Humanities», vol. 6, 2015, p. 161.

[3] Id., Primate Visions, cit.

[4] Id., Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™: femminismo e tecnoscienza, Feltrinelli, Milano, 2000.

[5] Id., Compagni di specie. Affinità e diversità tra esseri umani e cani, Sansoni, Firenze, 2003; Id., When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 2008.

[6] Id., Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1999².

[7] Definizione che evoca il nome di Cthulhu, creatura fantascientifica partorita dalla penna di H. P. Lovecraft, da cui Haraway si discosta però esplicitamente: Id., “Anthropocene, Capitalocene…”, cit., p. 160.

[8] Ivi.

[9] D. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., p. 117.

[10] Id., “The Promises of Monsters: A Regenerative Politics for Inappropriate/d Others”, 1992.

[11] Id., When Species Meet, cit., p. 17.

[12] Id., Primate Visions, cit., p. 357.

[13] Ibidem, p. 137.

[14] Non è poi così strano che anche la genealogia “mostruosa” del cyborg si leghi allo all’esibizione di una prodigiosità spaventosa e visibile, il freak.

[15] Non solo Akeley è noto anche come inventore di una speciale macchina fotografica con otturatore rotante per le fotografie naturalistiche in movimento, la Akeley Motion Camera, ma significativamente alla spedizione del 1821 prese parte anche Eastman, della Eastman-Kodak.

[16] D. Haraway, Primate Visions, cit., pp. 133 ss.

[17] Id., Manifesto Cyborg, cit., p. 83.

[18] Id. Modest Witness, cit., p. 99.

[19] K. Barad, “Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter”, 2003.

[20] D. Haraway, When Species Meet, cit., pp. 27 ss. Haraway non risparmia la sua critica nemmeno a Derrida (L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano, 2006), che nudo di fronte allo sguardo del proprio gatto, non si assume fino in fondo il rischio dell’intersezione visiva, incapace di acccogliere il suo invito al divenire animale fuori dalle regole dell’Io: Ibidem, pp. 19 ss.

[21] G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e Schizofrenia, sez. II, Castelvecchi, Roma, 1996, pp. 150 ss.

[22] A questa idea si collega la definizione harawaiana di “testimone modesta”, in Testimone Modesta, cit.

[23] Id., Manifesto cyborg, cit., p. 84.