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Postcoloniale, Queer e Femminista: traduzione della prefazione di Denise Ferreira Da Silva ‘Toward a Global Idea of Race’ 1 Marzo 2018, ore 16.30

Dopo il seminario dell’8 febbraio dedicato a Critique de la raison negre di Achille Mbembe, il 1 marzo 2018 alle ore 16.30 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, si terrà il secondo appuntamento del ciclo di seminari ‘Postcoloniale, Queer e Femminista: Percorsi di lettura per una vita nonfascista‘ organizzato dalla Technoculture Research Unit (Centro di Studi Postcoloniali e di Genere, Università L’Orientale). Insieme a Silvana Carotenuto e Claudia Bernardi, parleremo di un altro saggio di filosofia nera, cioè il volume della filosofa e teorica afrobrasiliana Denise Ferreira da Silva Toward a Global Idea of Race (Minnesota University Press, 2007)

Toward a Global Idea of Race è un’archeologia del sapere che colma in maniera necessaria e acuta quell’enorme vuoto nella critica foucauldiana che riguardava il rapporto tra l’emergere dell’Uomo come figura del soggetto e l’individuazione dei suoi Altri sulla base di quello che Da Silva chiama ‘l’arsenale simbolico del razziale’. Da Silva parte dunque dal problema costituito dal fatto che la ‘morte del soggetto’ o dell’uomo, annunciata dal pensiero postmoderno e proseguita nella teorizzazione del postumano, non ne ha provocato la scomparsa. Per Da Silva, il ‘fantasma’ del soggetto, cioè di quella costruzione del soggetto postilluminista che incarnava i principi di universalità e auto-determinazione, continua a infestare il presente con i suoi strumenti e con il materiale usato originariamente nel suo assemblaggio. Lungi dal costituire un elemento che arriva dopo la costituzione del soggetto post-illuminista e degli strumenti della ragione universale, e che sarebbe definito esclusivamente dalla sua ‘esclusione’, il razziale definisce dall’interno la differenza tra il soggetto libero e auto-determinato (che lei chiama ‘trasparente’) e quello che invece è in qualche modo sempre oggetto del sapere e soggetto alle leggi della (sua) natura.

In un serrato confronto con la filosofia moderna, le scienze umane e sociali, gli studi postcoloniali e le teorie critiche sulla razza, Ferreira insiste che il razziale costituisce il dispositivo discorsivo e scientifico principale attraverso cui il soggetto europeo postilluminista si è costituito la sua libertà (auto-determinazione e trasparenza o invisibilità) e che per smontare quello che lei definisce l’arsenale della razza bisogna confrontarsi con il sapere scientifico e non solo con il discorso storico. Se oggi appunto il sapere scientifico (pensiamo all’uso dei Big Data per produrre nuove mappe del sociale e trovare nuovi ‘leggi’ che lo determinano) è egemone rispetto a quello storico (associato con le inutili scienze umane), e se inoltre le nuove macchine computazionali che producono l’infrastruttura tecnosociale contemporanea incarnano il diventare processuale della ragione (come software e computazione), allora il focus di Da Silva sulla scienza e sulla ragione ci sembra fondamentale.

Per Da Silva,  il nomos produttivo (cioè la ragione in quanto principio regolatore del mondo che ho sostituito il volere divino e la magia) ha risposto al problema di come difendere il soggetto umano dalla minaccia di essere determinato dall’esterno da leggi scientifiche rendendo questo soggetto da un lato trasparente (non problematizzato, invisibile) e dall’altro costituendo uno spazio globale in cui distribuire i popoli che invece sono soggetti alla determinazione delle leggi della ragione universale. I discorsi razziali che circolano sulla rete testimoniano il modo in cui ancora il globale rimane lo spazio della differenza razziale (sotto il nome di differenza culturale) diviso tra soggetti auto-determinati e moralmente superiori (europei e bianchi) e soggetti razzializzati. I soggetti razzializzati sono sempre moralmente e socialmente (culturalmente) sospetti nella misura in cui a loro si offre l’opzione odi diventare completamente come ‘noi’ (assimilarsi oppure ‘essere obliterati’ secondo Da Silva) o rimanere segregati nelle ‘loro’ regioni del mondo o quartieri (ghetti e banlieu) secondo quella che Da Silva, nella sua analisi della sociologia delle relazioni razziali della scuola di Chicago, chiama la ‘sociologica dell’esclusione”. E allora è un caso che al primo Global Community Summit di Facebook dedicato ai gruppi e ai loro amministratori non ci siano le iniziatrici del movimento Black Lives Matter (Patrisse Cullors, Opal Tometi, e Alicia Garza)?

E’ questa socio-logica inoltre che spiega per Da Silva la sistematicità dello sterminio dei neri e degli scuri di pelle (quelli che in inglese si chiamano i black and brown people) come un effetto della differenza culturale e razziale, e che catalizza lo shock al pensiero prodotto dall’immagine seriale e ripetuta del corpo nero (maschio e giovane) che cade sotto i colpi da sparo della polizia.. Quest’immagine che nella sua ripetitività ha scatenato negli Stati Uniti il movimento #blacklivesmatter si trova non a caso anche in un altro importante saggio della critica nera e femminista contemporanea, In the Wake: On Blackness and Being di Christina Sharpe, in cui la questione del trauma originario del middle passage ma anche di tutti i successivi lutti e morti diventa centrale. All’inizio dell’archeologia del razziale assemblata da Da Silva, non troviamo più la rappresentazione pittorica dell’emergere del soggetto moderno, come ne Las Meninas di Diego Velasquez nelle prima pagine d Le Parole e le cose di Foucault, ma la serialità di un corpo nero o scuro che cade sotto i colpi di pistola e del suo dialogo (immaginario) con i poliziotti che lo uccidono. Da Silva ci chiede di soffermarci su queste domande: cosa significa pensare la nascita della modernità e la morte del soggetto a partire dal razziale come significante della differenza umana e costitutivo dello spazio globale? Perché la nozione di ‘differenza culturale’ come sostiene Da Silva, non ha fatto che replicare gli effetti del razziale (la trasparenza dell’occidente e l’affettabilità dei suoi altri?) Perchè i soggetti non-trasparenti (cioè soggetti a una determinazione esterna) sono sistematicamenti preclusi dalla presunta universalità del diritto? E inoltre, nelle parole di Da Silva, come razionalizza e spiega il sapere sociale scientifico l’omicidio continuo della gente di colore?

A seguire proponiamo dunque una breve traduzione (a cura dell’autrice di questo post) delle prime pagine di Toward a Global Idea of Race invitando chi ci legge e chi può a raggiungerci all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli l’1 Marzo alle ore 16.30. Vi invitiamo anche a rileggere la traduzione di Beatrice Ferrara di ‘Differenza senza Separazione’ di Da Silva sempre su questo blog, dove la ‘differenza culturale’ (per Da Silva il nome contemporaneo per la differenza razziale) viene affrontata dal punto di vista delle concezioni del tempo e dello spazio della fisica newtoniana, della teoria della relatività e della fisica quantistica – proponendo che concetti come ‘nonlocalità’, ‘incertezza’ e ‘entanglement’ possono rappresentare nuovi indicatori poetici per ripensare la differenza oltre la separabilità.

Prefazione: Prima dell’evento

La nostra generazione è morta quando i nostri genitori sono nati

BRUNO, MASCHIO NERO, ETA’ 18 (META’ ANNI 90)

Quel momento che cade tra il rilascio del grilletto e la caduta di un altro corpo nero, di un altro corpo scuro, e di un altro ancora… infesta questo libro. Che si può fare? Catturare questo momento e mentre si ricorda, ri-significare e ri-configurare quello che si trova a monte di questi momenti elusivi. Forse, se si formulano delle domande o nomina un problema? Che tipo di spiegazioni sono state messe insieme? Quando è diventato scontato, cioè una verità scientifica, un fatto di esistenza globale, che le generazioni sono morte a un certo punto nei primi anni 60? Come mai così tante generazioni sono morte mentre io nascevo? Chi è morto? Perché? Ci sono troppe risposte a queste domande… Ascoltami… leggimi…

Sono morto.

Sei giovane e nero. Vivi in un quartiere dove il crimine prospera. Togliamo le armi dalle strade, arrestiamo pericolosi criminali. Succede che vivi in un posto che ha il tasso più alto di omicidi e stupri. Noi abbiamo lavorato bene. Ci siamo avvicinati al tuo palazzo, ci sei sembrato sospetto; ci siamo fermati, siamo usciti dalle nostre macchine con le nostre pistole, e ti abbiamo detto di alzare le mani. Abbiamo sparato. Siamo la polizia. Siamo stati addestrati molto bene a fare il nostro lavoro.

Sono un immigrato. Lavoro. Ho i miei documenti. Vivo qui perché costa poco. Appartengo a un’ importante famiglia africana. Perché mi avete ucciso?

Sei nero, sei maschio e sei giovane. Non ne sappiamo niente di importanti famiglie africane. In Africa i neri vivono nelle capanne, cacciano e raccolgono durante il giorno, mangiano e cantano la notte, e si ammazzano tutto il tempo. Lì non c’è domani. Stai meglio qui. Perché stai morendo? Tu sei nero e giovane. Sei in carcere o in libertà condizionata. I liberali dicono che l’America è una società razzista. Dicono che i neri e gli scuri di pelle sono o totalmente senza lavoro o concentrati nei lavori peggio pagati; dicono che i datori di lavoro non assumono i giovani maschi neri. Voi siete il sottoproletariato: gente senza futuro, gente che non si sa comportare perché le istituzioni – famiglie, imprese, chiese e così via – hanno lasciato i ghetti insieme alla classe media che ha approfittato delle discriminazioni positive per trovare lavori migliori e posti migliori in cui vivere. Tu spacci. Tu sei uno stupratore. Tu sei un criminale. Tu potresti persino essere un terrorista. Noi ti cacciamo dalle strade. Se non ti arrestiamo, ti spareremo, con tutti i proiettili necessari.

Io sono un Fulani.

Sei in America adesso. Questa non è l’Asia o l’Africa. Qui è diverso. Alcuni radicali dicono che la gente come te non ha possibilità. Tu sei nero. Non ci piacciono i neri. Dicono che l’America è la terra della supremazia bianca. Non è solo che non ti assumiamo, ma anche che tu ci aiuti a creare un legame tra gli Americani bianchi. Tu fai funzionare il sistema.

Ma se io faccio tutto ciò… perché mi uccidete? Se mi tenete semplicemente nel ghetto, se non ho una scuola decente, un lavoro decente, diritti sociali… Voi avete tutte le risposte. Voi mi conoscete. Perché avete bisogno di uccidermi? Non vi basta essere bianchi?

In questo libro mi confronto con l’apparato di sapere – gli strumenti scientifici del sapere razziale – che produce questa domanda… Contro l’assunto che l’elemento storico costituisce il solo contesto ontologico, esamino il modo in cui gli strumenti dei progetti scientifici ottocenteschi hanno prodotto la nozione del razziale che istituisce il globale in quanto contesto ontoepistemologico – un gesto violento e produttivo necessario a sostenere la versione post-illuminista del Soggetto come la sola cosa esistente che si auto-determina. L’arsenale dei saperi che in questo momento governa la la configurazione globale (giuridica, economica, e morale) istituisce l’assoggettamento razziale mentre presuppone e postula che l’eliminazione dei suoi ‘altri’ è necessaria per la realizzazione dell’esclusivo attributo etico del soggetto, cioè l’auto-determinazione.

Nel corso di questo libro produco uno scavo della rappresentazione moderna mentre cerco di afferrare il ruolo produttivo che il razziale gioca nelle condizioni post-illuministe. Ogni parte del libro descrive un momento particolare di questa impresa. In primo luogo, considero il contesto di emergenza, e l’irrisolto problema ontologico che infesta la filosofia moderna dal primo diciassettesimo fino al primo diciannovesimo secolo, cioè proteggere l’uomo, l’essere razionale, dai poteri vincolanti della ragione universale. Questa lettura rivela che tutto ciò è stato fatto scrivendo il soggetto come una cosa storica e auto-determinata – una soluzione temporanea consolidata solo alla metà dell’Ottocento, quando l’uomo è diventato un oggetto del sapere scientifico. Secondo, la mia analisi del regime di produzione del razziale mostra come le scienze umane e sociali hanno affrontato questo problema ontologico fondamentale usando la differenza razziale come un attributo costitutivo dell’umano. Questa soluzione istituisce l’enunciato più basilare dell’assoggettamento razziale: mentre gli strumenti della ragione universale (le “leggi della natura”) producono e regolano le condizioni umane, in ogni regione globale, essa stabilisce (moralmente e intellettualmente) diversi tipi di essere umani, nominalmente, il soggetto auto-determinato e i suoi altri determinati da forze esterne, coloro le cui menti sono soggette alle loro condizioni naturali (nel senso scientifico). Precisamente questo enunciato, sostengo, sottende l’argomento basilare della sociologia delle relazioni razziali, cioè, che le cause della subordinazione degli altri d’Europa risiede nelle loro caratteristiche fisiche e mentali (morali e intellettuali) e il postulato che la soluzione al problema dell’assoggettamento razziale richiede l’eliminazione della differenza razziale. Infine, la mia analisi dei suoi effetti di significazione mostra come questo enunciato e gli strumenti scientifici che lo sostengono informano la costruzione prevalente dei soggetti statunitensi e brasiliani. In questi scritti, gli strumenti storici e scientifici producono contemporaneamente il soggetto nazione come un essere auto-determinato mentre circoscrivono la regione morale subalterna (altro-determinata) abitata dai membri non-Europei della comunità nazionale.

Dietro questo libro c’è il desiderio di comprendere perché e come dopo un secolo di confutazioni, il razziale sembra governare incontrastato la configurazione globale contemporanea. Spero che la mia critica della rappresentazione moderna dimostri che la forza politica del razziale risiede nel fatto che costantemente (ri)produce l’enunciato fondativo ontologico moderno. Ogni uso del razziale consistentemente articola l’attributo speciale dell’uomo, l’auto-determinazione, mentre fa esistere e contemporaneamente disconosce quello che significa altri-menti, annunciando la sua necessaria eliminazione. Poiché la spiegazione prevalente dell’assoggettamento razziale segue anch’essa questo mandato ontologico, non ci sorprende che oggi è usata in spiegazioni che sminuiscono le morti violenti della gente di colore, mentre un’infinita evidenza scientifica sociale le rende non solo scontate (in quanto risultato dell’esclusione giuridica e economica) ma anche giustificate (in quanto l’esito previsto della traiettoria della coscienza altro-determinata). Sento la domanda: come giustifica il sapere sociale scientifico l’omicidio della gente di colore? La mia risposta è: come spiega questo omicidio l’arsenale delle scienze sociali? Nelle prossime pagine offro una risposta temporanea a tutto ciò.

Un populismo di piattaforma? Sul Facebook Community Summit di Chicago

Il 22 e il 23 giugno di quest’anno, cioè qualche giorno fa, si è tenuto a Chicago il primo Facebook Community Summit – un evento che segue e sviluppa il documento ‘Building Global Community’ pubblicato sulla timeline di Mark Zuckerberg a febbraio di quest’anno e commentato in questo blog. Continuo a seguire le evoluzioni di Facebook mentre lotto con la scrittura del mio nuovo libro, Hypersocial, specialmente la parte dedicata a una genealogia dei modelli del sociale incorporati nella piattaforma – e il loro rapporto con il modo di produzione organizzato dal mercato e quello concepibile a partire dai principi del comune e della cooperazione sociale. La questione del capitalismo di piattaforma (a cui sono dedicati due bei volumi in italiano appena usciti, uno di Benedetto Vecchi e uno collettivo sul Platform capitalism e i confini del lavoro a cura di Emiliana Armano, Annalisa Murgia, e Maurizio Teli) implica la sperimentazione di un nuovo modello di convergenza di governamentalità e valorizzazione economica (la messa a profitto). La mia ricerca, cioè, mi sta portando a considerare il problema dei modelli e delle tecnologie del sociale mobilitati dal capitalismo di piattaforma sia in termini di cattura del valore e della ricchezza prodotti in comune sia come modelli di governo tecnosociale che aspirano secondo me a generalizzarsi. Mi interessa come la spazializzazione del sociale che lo strutturalismo dinamico di una branca delle scienze sociali, la social network analysis, incorpora nel capitale fisso mobilizzato da una piattaforma come Facebook, ma forse da tutti i social media, costituisce il terreno su cui pensare le risposte politiche e organizzative a questa nuova situazione.

Dopo aver annunciato nella lettera ‘Building Global Community’ che Facebook avrebbe posto al centro della sua strategia di product development le comunità, cioè i gruppi, l’azienda americana convoca dunque un ‘summit’ a Chicago, invitando una selezione di quella che definisce i ‘top group admins’ per annunciare nientedimeno che il cambiamento della sua mission: la sua missione non sarà più semplicemente di rendere il mondo più aperto e connesso, ma di renderlo più ‘vicino’ attraverso gli strumenti che permettono a gruppi di formarsi ed espandersi sulla sua piattaforma. Si tratta di una mutazione interessante rispetto al modello di ‘reti personali amicali’ (amici, parenti, colleghi e conoscenze) che è stato fino ad adesso il focus del popolare sito di social networking.

A differenza delle prime conventions organizzate da Facebook (denominate F8), è interessante notare innanzitutto come la comunicazione di FB si sia spostata direttamente sul terreno della piattaforma: una lettera pubblicata sul profilo di Zuckerberg a febbraio e adesso una trasmissione live trasmessa sulla piattaforma stessa (e ripresa immediatamente da molti canali youtube). Sintetizzando il contenuto del video pubblicato sul Summit, Facebook sostiene che i gruppi costituiscono l’area della piattaforma dove si sta verificando una crescita che va al di là delle (necessariamente e tecnicamente limitate) reti di contatti personali; annuncia che ci sono 100 milioni di utenti attivi sui gruppi e che intende operare per dare ai gruppi migliori strumenti e quindi espanderli; infine sostiene che il declino dell’appartenenza a comunità tradizionali può essere bilanciato dalla creazione di comunità digitali, che divide tra ‘comunità casuali’ (non particolarmente importanti, come il gruppo dedicato da Zuckerberg al suo cane) e ‘comunità significative’, cioè gruppi che funzionano come infrastruttura sociale fondamentale, fonte di identità e riconoscimento, per chi li frequenta (per esempio quelle per giovani genitori o genitory gay).

Guardando il video, mi sembra che Facebook confermi la sua tendenza a costituirsi come uno spazio digitale che funziona in qualche modo come un nomos, cioè uno spazio su cui esercita un qualche tipo di sovranità. Il modello di sovranità che Facebook si trova ad incarnare si presenta come una sovrapposizione di modalità precedenti, ma in un una nuova configurazione. Riprendendo la classica distinzione introdotta da Michel Foucault tra sovranità, disciplina e biopolitica ci troviamo davanti a un modello di sovranità basato sulla proprietà privata (nella misura in cui servers e software sono proprietà  di Facebook, che può espellere chi vuole o modificarla a suo piacimento), su cui è basato un ordine disciplinare (il libro delle ‘facce’ si basa sull’identificazione o il nome personale, perché come ebbe a dire Zuckerberg in passato quando si è identificabili, ci si comporta meglio), ma anche e in maniera interessante il governo di una popolazione (i due miliardi di profili attivi) che genera una enorme quantità di traffico, contenuti e dati per la piattaforma, ma che è costituzionalmente sempre sul punto di ‘s/fuggire’ . Come sostiene Wendy Chun, i media digitali sono ‘media abituali’, costruiti sull’abitudine non solo come ripetizione, ma come continua crisi o shock: i social sono una abitudine che però ha bisogno di essere continuamente rotta e variata (ci dev’essere sempre qualcosa di nuovo). E’ questa combinazione di abitudine e rottura continua dell’abitudine che apre la possibilità dell’intrinseco nomadismo degli utenti – sempre sul punto potenzialmente di sfuggire alla piattaforma (per esempio nel modo in cui gli under-25 sono fuggiti da Facebook verso Whatsapp o  Instagram costringendo Facebook a riacchiapparli comprando anche queste piattaforme). Questa popolazione è sì inevitabilmente radicata nella materialità biologica dei processi della specie (si riproduce, vive, muore), ma si presenta al sovrano dei social soprattutto come insieme di identità algoritmiche, struttura dinamica di relazioni (inter-relazionalità) e flussi di condivisioni soggetti alla temporalità dell’evento (il feed). Questa struttura dinamica è il tessuto o medium o ambiente che sostiene la circolazione di quella che non possiamo più genericamente chiamare informazione. Cosa viene condiviso nei social si presenta da un lato come elementi definiti (nel senso che è possibile identificarli attraverso un numero), ma anche forze fluide e differenziate. Da un lato foto, articoli, pagine, grafici, citazioni, commenti, post, mi piace, condivisioni, luoghi, aziende, somme di denaro etc, dall’altro e contemporaneamente flussi di opinioni, idee, credenze, desideri, avversioni, affetti, attitudini, preferenze emozioni e azioni espressi con forza variabile (in modo più o meno intenso). Questa enorme circolazione di flussi di soggettivazione a cui corrispondono delle quantità sociali che chiamiamo ‘dati’ ha ormai spiazzato completamente il vecchio modello basato sul broadcasting.

Conta dunque che Facebook, che a molti è sembrato la realizzazione del vecchio motto thatcheriano ‘non esiste la società ma solo gli individui e le loro famiglie’ (a cui aggiungere adesso i loro amici), dica di volersi concentrare sulla costruzione di una ‘comunità globale’ e che i gruppi sono lo strumento più adatto allo scopo. Voglio tenere questo blog post breve, e quindi mi limito a elencare qui alcune considerazioni su questa nuova tendenza di Facebook. Devo dire che ascoltando Zuckerberg e anche dopo la lettura della lettera, ho sentito come una svolta ‘populista’ – anche se cosa significhi questo controverso termine è tutto da definire. Non ho approfondito questa intuizione ma mi ha colpito come nell’analisi del populismo delineata da Toni Negri nel suo recente intervento  al seminario sui populismi di Euronomade, Negri sostenga che il populismo implica sia l’omogeneità del ‘popolo’ che la figura di un leader – e il summit è organizzato come incontro e presa di parola dei vari leaders selezionati da Facebook che parlano a nome dei più o meno piccoli ‘popoli’ iscritti ai gruppi. Qui però è anche dove il populismo di piattaforma differisce dal populismo novecentesco identificato da Negri e si avvicina a quello più recente (pensiamo alla centralità del blog di Grillo nel movimento 5 stelle). Il leader infatti è definito secondo il modello dell’amministratore della pagina (che a sua volta deve molto a forme precedenti di virtual communities e in particolare al lavoro volontario degli amministratori delle piattaforme di giochi online). Per Zuckerberg, i gruppi vivono perché ci sono dei leaders/amministratori, il cui lavoro affettivo, relazionale, ma anche tecnico nella gestione di gruppi che possono anche sfiorare il milione di iscritti, è ritenuto responsabile della esistenza e persistenza e vitalità del gruppo. Il grande popolo globale di Facebook che si presenta nella forma di reti personali non è sufficiente di per se per costituire quella nuova grande global community, che è il sogno di ricostituire la società (post)civile all’interno del governo della piattaforma.

I nuovi poteri accordati ai leaders pure mi sembrano significativi: il potere dell’insight (una forma di intuizione) letteralmente assicurato dall’accesso a dati statistici sul gruppo (genere, età, etc, cioè le varie forme di identità algoritmica ben descritte da John Cheney-Lippold nel suo recente We Are Data) che permette di selezionare i membri da accettare; dati sulle abitudini dei membri del gruppo (a che ora postano o commentano di più); la capacità di filtrare le richieste di iscrizione, oltre che espellere e cancellare le tracce della presenza nel gruppo di soggetti molesti o non voluti; infine la promessa di permettere ai gruppi di connettersi gli uni agli altri. Mi sembra, almeno per quello che vedo, che si tratti qui di un iperpopulismo di piattaforma, che non potendosi più appoggiare alla patria o nazione, si costituisce quasi esclusivamente su due cardini: il situarsi in uno spazio ‘globale’ (quello della piattaforma che si presenta come post-nazionale) e il suo invocare l’amministratore o leader come figura pastorale in grado di tecno-governare il gruppo. Non si parla della possibilità di una condivisione della posizione di amministratore e in generale si va nella direzione opposta di quello dei grandi movimenti di piazza dei primi anni 2010, come Tahrir o Gezi e Occupy, che invece come descrive bene Zeynep Tufekci nel suo Twitter and Teargas, insistevano molto sulla mancanza di leader (anche se in maniera problematica). Tuttavia la questione del ‘leader’ nella rete e nei movimenti di reti è davvero complessa e non può essere liquidata velocemente.

Il secondo elemento che mi ha colpito è stata la selezione dei leaders e dei modelli di gruppo presenti al summit, almeno nel live feed. Quello che colpisce è che nonostante il richiamo al globale, gruppi e leader siano tutti americani, ma selezionati in qualche modo per rappresentare quello che una volta si sarebbe chiamato il ‘sociale’: c’è l’amministratore di un gruppo che ricorda la morte di una donna in un incidente causato da un guidatore ubriaco che riunisce membri che si sentono colpiti (affettati) da questo evento; l’amministratore afroamericano di un gruppo per padri neri che è anche un insegnante di scuola materna; la donna nigeriana che ha aperto e gestisce un enorme gruppo segreto di donne per parlare di temi che le riguardano; ma anche il birdwatcher e il fabbro che si rivolgono a comunità di individui con lavori o hobbies simili.. E’ interessante anche se scontato che non sia stato invitato (o forse sì ma non sono andati che sarebbe anche comprensibile) nessun leader di Black Lives Matter o del movimento Occupy o di gruppi di protesta, ma che la razza sia rappresentata dalla community leader nigeriana che abita a Chicago che ha fondato un gruppo di donne contro la violenza di genere, ma una violenza che è presentata come tra donne non bianche (le madri nigeriane che danno i pizzicotti alle figlie quando parlano troppo). Mi sembra come se questo passo di Facebook sia volto ad una ennesima traduzione tecnica (o transcodifica) del sociale volta ad accrescere la circolazione, ma anche a moltiplicare le possibilità di appartenenza in modi che tengono insieme valorizzazione economica e governo dei flussi generati da una popolazione socialmente interconnessa.

Per una di quelle coincidenze che alla fine segnano i processi di scrittura, mi ritrovo contemporeamente a leggere per la prima volta un testo del 2007 della teorica brasiliana Denise Ferreira de Silva , che si intitola Toward a Global Idea of Race. Mi attrae il testo di Da Silva per la sua insistenza sulla critica della ragione (e la sua costituzione di un soggetto trasparente, cioè che si auto-determina e si auto-regola) e per il suo uso del termine analitica della razza. Da Silva, per quello che riesco a capire, propone un concetto di globale come spazio formato dall’analitica della razza e dal soggetto trasparente, in modi che davvero risuonano per me anche con i modelli della social network analysis. La sua idea che la logica delle race relations è una logica di obliterazione del razziale, ma in senso assimilazionista, mi sembra molto rilevante al modo in cui Facebook invoca la razza solo a patto di dissolverla nell’universale. Sostituendo ai grafi dei social networks, che erano al centro delle prime presentazioni della piattaforma,  una classica mappa bidimensionale del pianeta connesso, Facebook propone una propria versione di governamentalità globale che quindi riattualizza anche l’analitica della razza.

È molto facile seguendo questo ragionamento concludere che si tratta semplicemente di abbandonare Facebook, per impedire a questa sua nuova forma di sovranità tecnologica iper-populista di produrre una nuova pacificazione e obliterazione del conflitto e delle differenze. E pur tuttavia, questa non mi sembra una soluzione. Mi sembra che il fenomeno di una piattaforma tecnosociale usata da due miliardi di abitanti ponga il problema della proprietà (del capitale fisso) e del governo (della relazione tra governanti e governati) anche dal punto di vista di un modo di produzione basato nel comune (concepito come insieme di singolarità inter-relazionali e inter-sezionali) e quindi dal punto di vista del conflitto con le sue forme di appropriazione. Il nomadismo degli utenti è catturato, anche se in modo non definitivo, dagli effetti di rete (più persone usano una piattaforma, più utile diventa), che tipicamente almeno per un medio periodo di tempo producono un lock in (siamo legati a queste reti e servizi).

Il blog su cui scrivo, dopo aver cercato di organizzarsi attraverso mailing list e piattaforme come Slack, si è spostato come gruppo segreto su Facebook – innervandosi in questo modo nella comunicazione sociale quotidiana, e escludendo chi non si trova sulla piattaforma. Il gruppo ‘funziona’ meglio delle mailing list e altri formati, ma il gruppo esclude chi ha scelto di non stare su Facebook, e soprattutto il gruppo della TRU non è ‘nostro’, nella misura in cui tutto quello che scriviamo appartiene a FB e FB governa questo spazio con le sue regole e le sue politiche. Eppure non possiamo farne a meno. Se i social media sono diventate delle utilities, cioè infrastrutture della vita sociale di miliardi, è possibile postulare che sia posto non solo il problema dell’alternative, ma anche quello dell’appropriazione, dell’espropriazione e di nuove forme di proprietà?

 

 

 

La rivoluzione è femmina e cyborg. Ma non solo

A Westworld (WW), il gigantesco parco a tema gestito dalla Delos Corporation, spiega il Dottor Ford, suo direttore creativo, non si va tanto per trovare conferma di quello che già si è, quanto per avere un assaggio di quello che si potrebbe essere. Chi va a WW per dare libero sfogo alle fantasie più estreme è consapevole del fatto che il gioco si fa più duro man mano che ci si allontana dal centro e si procede verso il confine, andando da Sweetwater, la città all’ingresso del parco, verso Pariah, ricettacolo di delinquenti ed emarginati appositamente concepita per avere un aspetto “Tex-Mex”. Ma, a ben guardare, di confini il parco è disseminato un po’ dovunque, dal momento che i visitatori (guests) interagiscono con una popolazione di cyborg (hosts) perfettamente programmati per essere indistinguibili dagli umani.

Dolores e Teddy
Dolores e Teddy

Nel mantenere questa ambiguità su chi siano effettivamente gli Altri a WW, se gli umani che arrivano da fuori o gli androidi che vivono lì dentro, la serie TV della HBO ci racconta l’attrazione e il rischio del confine, coniugando il mito della frontiera spaziale tipico del genere western, con quello della frontiera della vita biologica proprio della fantascienza sull’intelligenza artificiale (IA). In entrambi i generi, l’immaginario è caratterizzato in senso fortemente patriarcale. Tradizionalmente, nel western, l’uomo alla frontiera è l’avventuriero, l’esploratore, il fuorilegge temerario protagonista dell’azione, mentre la donna alla frontiera, perché sia funzionale alla piena espressione delle capacità e possibilità del soggetto maschile, è vulnerabile e passiva, un oggetto da proteggere e possedere che facilita la buona riuscita della conquista della terra di cui è anche rappresentazione metonimica.

il Dottor Ford
il Dottor Ford

D’altra parte, nella fantascienza sull’IA lo scienziato (qui per giunta raddoppiato nella diade Ford-Arnold) che nel segreto del suo laboratorio riproduce la vita in totale solitudine e senza l’ausilio della componente femminile, ripropone il god-trick del creatore che con la sua hybris oltrepassa il limite della vita umana. Ma il confine è uno spazio tanto codificato quanto instabile. Definito dall’insieme dei suoi attraversamenti sia materiali che simbolici, il confine è un t(r)opos privilegiato per osservare le dinamiche anche contrastanti che mette in atto: ecco perché, al di là dell’originalità narrativa e della qualità della scrittura che hanno decretato fin da subito la sua popolarità, è interessante guardare come WW articoli queste dinamiche, esplorando molteplici livelli del confine fra umano e macchinico. Nelle riflessioni che seguono mi soffermo in particolare sulla rappresentazione di genere ed etnia nella serie, per vedere come, e soprattutto rispetto a quali relazioni di differenza, alcuni personaggi superano i confini in cui li incasellano le premesse narrative.

Logan e William
Logan e William

I filoni narrativi più collaudati nel parco sembrano funzionare grazie alla riproposizione dei ruoli fissi che gli hosts performano in loop per i guests. Questi ultimi, in prevalenza ricchi maschi bianchi di cui la coppia Logan/William è l’esempio prototipico, vanno a WW per sperimentare il piacere e il potere dell’avventura. Stupri, risse, omicidi sono all’ordine del giorno, ma sono solo i guests a poterli “agire”, mentre gli hosts eseguono le funzioni per le quali sono stati programmati, fondamentalmente soggiacere, quando non soccombere, alle fantasie sfrenate dei visitatori (gli hosts possono morire per mano dei guests, ma non viceversa). Si tratta di fantasie decisamente declinate al maschile, dato che pochissime sono le scene funzionali allo sviluppo del racconto in cui appaiono guests donne e inoltre, rispetto alle hosts di sesso femminile tutte molto attraenti, non viene dato alcun peso a relazioni né etero né omosessuali con hosts di sesso maschile: al Mariposa Saloon, il bordello della città di Sweetwater, per esempio, vediamo solo sex workers donne, se si eccettua una breve scena di sesso a tre di cui è protagonista Logan nel primo episodio.

 

Dolores e William
Dolores e William

Le due protagoniste femminili della storia, Dolores e Maeve, offrono una prospettiva che, se è forse esagerato definire femminista, non resta sicuramente ancorata agli stereotipi cui inizialmente allude. Dolores è un’ingenua e sognatrice figlia di famiglia dall’aspetto etereo – bionda, occhi azzurri, carnagione pallida, una specie di mix western di Alice e di principessa Disney –, costantemente in pericolo e in attesa di riunirsi al suo principe (Teddy) o di essere salvata dall’eroe buono (William), figure altrettanto tagliate con l’accetta che ne costituiscono la controparte maschile.

Maeve ed Escaton
Maeve ed Escaton

Al contrario Maeve, madame del Mariposa Saloon, è scanzonata, per nulla sprovveduta e molto sensuale: capelli, pelle e occhi scuri, nel suo vestito da seduttrice Maeve impersona la parte di chi vive “alla giornata” (come fa d’altronde ogni host senza saperlo) e ha imparato a cavarsela da sola, non aspetta nessun eroe se non i clienti del Mariposa Saloon, e invece di fantasticare sull’amore romantico preferisce scopare con Hector Escaton, bel tenebroso dal grilletto facile. Entrambe tuttavia, man mano che la storia progredisce, sembrano deviare, seppure in modi diversi, dal ruolo di genere che è stato loro assegnato: e lo fanno sia letteralmente, mostrando di poter uscire fuori narrative e recuperare la memoria di un vissuto diverso, sia simbolicamente rispetto all’immaginario che evocano e da cui progressivamente si discostano. Destinate a ricoprire all’infinito il ruolo dell’Altro in una storia già scritta, Dolores e Maeve si costruiscono una storia alternativa a partire da quella che hanno già vissuto ma che è stata loro cancellata programmaticamente.

Maeve nel labirinto
Maeve nel labirinto

[Spoiler Alert] Mentre Dolores si avvia verso il centro del labirinto, scopriamo che molto probabilmente è stata vittima di uno stupro, che il suo iniziale salvatore (William) è in realtà il suo persecutore (The Man in Black), che nel suo personaggio è stata inglobata la narrative di Wyatt, l’imprendibile bandito autore dei massacri di di WW cui tutti danno la caccia (che di fatto è lei), e che la capacità di uccidere di cui è dotata si volgerà contro il suo stesso creatore. Lungo questo percorso, Dolores vive una specie di inabissamento progressivo, aggirandosi fra differenti livelli spazio temporali per sottrarsi alla ripetizione che la imprigiona alla ricerca di un’identità profonda di cui vuole a tutti i costi riappropriarsi. Per converso Maeve, che in una scena dell’E08 vediamo sdraiata sulla nuda terra proprio al centro del labirinto, insieme alla figlia con cui è stata violentemente uccisa e di cui andrà alla ricerca fino alla fine, compie un percorso di liberazione inverso, un andare verso l’Altro che comporta l’uscita dal ruolo nel quale è intrappolata, tanto che della sua vicenda è stata data anche un’interessante lettura in chiave transgender. Il suo cambiamento avviene in modo molto più concreto e doloroso di quanto non accada a Dolores. Maeve deve esporsi fisicamente e morire violentemente molte volte per conquistare finalmente l’accesso all’upgrade che le consentirà di organizzare la rivolta finale. Il suo riscatto è come la fuga da una gigantesca gabbia: lo stesso che vorrebbe compiere l’uccellino-host che nell’E05 va a posarsi sulla sua mano dopo esser stato riparato da Felix, il tecnico-chirurgo asioamericano del Livestock Management, reparto “riparazioni” della Delos, che mostra a Maeve come tutte le sue azioni dipendano dal core programming, e che la fa anche entrare nelle stanze dove gli hosts sono creati, rendendola testimone della nascita della sua stessa specie.

Dolores e Bernard
Dolores e Bernard

Dolores non cerca mai di uscire dal parco del quale è l’host più “anziano”, Maeve sente di non appartenervi affatto. La rivolta di Dolores rimane in fondo individuale, e pur scardinando lo stereotipo nella quale è intrappolata dalla narrative assegnatale, anche la sua vendetta è compiuta sulla base di una motivazione fortemente personale (la strage della sua famiglia e la violenza subita). In questo percorso di individuazione Dolores è sempre accompagnata per mano, non la vediamo distesa su un tavolo in posizione orizzontale come spesso Maeve – sottoposta a continue riparazioni materiali –, ma perlopiù seduta in “modalità-analisi”, in dialogo (guidato) con Ford o Bernard Lowe, suo primo collaboratore alla guida della Divisione Programmazione.

Maeve e Felix
Maeve e Felix

Maeve sa di essere una macchina manovrata dall’alto, e non ha bisogno di cercare se stessa; anche il ricordo della morte della figlia scatena in lei un desiderio di ribellione collettiva piuttosto che di vendetta personale. La sua autonomia non è mai l’individualismo di Dolores, perché Maeve sa perfettamente che per ribellarsi ai padroni è necessaria una sollevazione condivisa dal basso, e per far questo bisogna radunare il maggior numero possibile di hosts: peraltro, contrariamente a quanto accade a Dolores, la cui evoluzione è curata passo dopo passo dai massimi vertici della Delos, essendone anche il progetto più ambizioso, ad aiutare Maeve fra i guests è invece Felix, personaggio che occupa una posizione di subalternità nella gerarchia della corporation, essendo in definitiva un sottoposto che esegue gli ordini dei piani alti.

Se come ha scritto Aaron Bady in un articolo sul New Yorker ogni storia di robot racconta la resistenza dei lavoratori contro il padrone che li sottopone a condizioni disumane di sfruttamento, e anche le storie western incentrate sulla guerra civile americana parlano soprattutto – come insegna W. E. DuBois – della rivolta degli schiavi neri contro i padroni bianchi per la conquista della libertà, l’emancipazione di Maeve come cyborg femmina che è anche e soprattutto un cyborg femmina nero acquista un significato molto diverso da quella di Dolores, con cui pure condivide parte del percorso. Infatti, nonostante sia Dolores che Maeve si liberino della femminilità stereotipata che rappresentano (dove comunque Dolores è già lo stereotipo alto e Maeve quello basso), Dolores resta una figura privilegiata e tutto sommato integrata, mentre Maeve mantiene sempre una posizione marginale e doppiamente subalterna, perché non è soltanto l’Altro dell’umano maschio, ma è anche l’Altro dell’umano maschio bianco.

Escaton nella stanza di Charlotte
Escaton nella stanza di Charlotte

La questione non è ovviamente così schematica, perché la connotazione etnica non è in sé un indicatore stabile di subalternità a WW, ma dipende molto dal confine che mette in pericolo e dalle relazioni di potere che chiama in causa. Prendiamo ad esempio Charlotte Hale, rampante direttore esecutivo della Delos. Quando nell’E07 Theresa Cullen, la Responsabile Operativa del parco, si reca nella stanza di Charlotte, questa ostenta molto tranquillamente la propria relazione sessuale con lo stesso personaggio con cui guarda caso si accompagna Maeve, cioè Escaton. Ma se Maeve ed Escaton si rapportano in una posizione assolutamente paritaria, Charlotte nel suo ruolo partecipa di un potere patriarcale rispetto al quale Escaton appare un mero strumento di piacere per giunta gratuito, dato che Charlotte non è tecnicamente una guest e quindi non ha bisogno di pagare per divertirsi con le attrazioni del parco (si noti che in tutta la scena Escaton rimane legato alla spalliera del letto facendo da sfondo al dialogo fra le due donne al quale non prende parte in alcun modo, quasi fosse in modalità stand-by). Di contro, la scena a mio parere forse più disturbante dell’intera serie vede nell’E05 Elsie Hughes, collaboratrice di Bernard, alle prese con Bart, un host nero che dev’essere ricondizionato, inquadrato di profilo dietro a un tavolo in modo da evidenziarne i genitali mentre cerca goffamente di versare dell’acqua in un bicchiere.

Elsie e Bart
Elsie e Bart

Qui Elsie si lascia andare a una battuta sessista e razzista sul suo “talento”, che sarà tragicamente sprecato nella nuova narrative cui è destinato (quale non è dato sapere), mostrando come lo sguardo e le parole di Elsie nel ruolo di potere che in quel momento occupa (come del resto quando bacia Clementine nell’E01) riducano il difettoso Bart a un corpo-oggetto, escludendolo da una storia il cui antefatto e i cui sviluppi non conosceremo mai.

Che in WW anche le IA non solo femmina abbiano diverse etnie, contrariamente a quanto accade di solito, è senz’altro un aspetto interessante della serie, dove due degli hosts protagonisti, Maeve e Bernard, sono neri: tuttavia rispetto a Maeve, l’appartenenza etnica sembra mantenere Bernard – che inizialmente non sappiamo nemmeno essere un host –in una posizione di subordinazione rispetto agli altri personaggi con cui si relaziona maggiormente. Bernard infatti è di fatto una replica con la pelle nera di Arnold, il primo co-creatore del parco con Ford, e la sua apparente posizione di parità è in realtà una manipolazione orchestrata da Ford che nella relazione mantiene sempre il potere maggiore (chi ha visto la serie potrebbe pensare lo stesso riguardo a Maeve, soprattutto considerando la scena finale del treno, ma da spettatori ci conforta sospendere le ipotesi più facili e aspettare la seconda stagione). È stato notato, peraltro, che la figura di Bernard è costruita in modo appositamente femminilizzato, definita più da quello che gli è stato fatto che da quello che ha fatto: per esempio, la sua (seppur falsa) memoria incentrata sull’accudimento del figlio malato da un lato lo maternizza e dall’altro, rispetto alla coppia di creatori maschi Ford-Arnold da cui “discende”, lo pone in una posizione di ricettività passiva (Bernard è colui che accoglie il core code di Arnold).

In definitiva, se c’è una cosa che la narrazione di Westworld ci mostra molto bene, pur lasciando ampio margine nel rispetto dello spettatore a numerosi dubbi, ripensamenti e capovolgimenti che appaiono sempre possibili, è che i confini dell’umano non hanno proprietà stabili, ma il loro significato dipende dagli attraversamenti e dalle dinamiche di potere e resistenza che riescono a mettere in gioco. L’importante è ricordare che arrivare a toccare il confine è un piacere violento, ma che le conseguenze possono esserlo altrettanto.

The Sound of Culture. Razza e tecnologia attraverso il banco mixer

In ingegneria informatica l’espressione master/slave indica il protocollo di comunicazione in cui una macchina o un processo principale controlla una o piu’ macchine o processi subordinati. La medesima terminologia può essere applicata anche a sistemi tecnologici pre-informatici, quali un sistema video centralizzato, una rete di orologi o un impianto idraulico, purché basati sul medesimo rapporto di subordinazione. Nonostante sia recentemente stata messa in discussione negli Stati Uniti in quanto “eticamente inaccettabile”,i la definizione sopravvive ancora oggi nel linguaggio colloquiale della programmazione. Stranamente non vi e’ alcuna traccia di un uso del termine in questa accezione prima della fine della seconda guerra mondiale. Non e’ dunque una sgradevole eredita’ linguistica di un altro tempo a trovare spazio nel lessico tecnologico contemporaneo. C’e’ forse una ragione piu’ profonda che puo’ spiegare questa curiosa incongruenza?

Copertina del libro con un opera di David Huffman
La copertina del libro con un’opera di David Huffman

Edito quest’anno dalla Wesleyan University Press, The Sound of Culture. Diaspora and Black Technopoetics indaga in profondita’ la relazione che tiene insieme corpo nero, schiavitu’ ed il nostro modo di concepire la tecnologia. Passando in rassegna una notevole quantita’ di fonti eterogenee che vanno dalla letteratura proto-sci-fi vittoriana al jazz, dai blackface minstrel show al cyberpunk, Louis Chude-Sokei disegna un originale percorso critico che mette al centro il modo in cui la modernita’ occidentale ha dato senso al concetto di macchina, ritrovandone le tracce nell’interdipendenza tra i due processi fondanti dell’era moderna: industrializzazione e schiavitu’. Se il passaggio dal capitalismo mercantile a quello industriale puo’ essere assunto come il primo passo verso la progressiva tecnologizzazione della modernita’, anche il nostro rapporto con la tecnologia dovra’ necessariamente essere messo a confronto con il retaggio culturale della schiavitu’. E’ questa infatti l’istituzione che piu’ di ogni altra ha sostenuto la rivoluzione industriale, garantendo ad essa quelle fondamenta socio-economiche senza le quali la stessa risulterebbe semplicemente impensabile. Secondo l’autore, la costruzione del concetto di razza e la concezione del rapporto tra l’uomo e la tecnologia vanno intese come due storie che corrono parallele sotto la superficie della modernita’, talvolta producendo veri e propri punti di contatto che emergono in forma di letteratura, musica o cinema, o affiorano in determinati avvenimenti storici. Razza e tecnologia sarebbero dunque due concetti speculari; l’uno si riflette nell’altro attraverso lo specchio deformante dell’ansia.

Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935
Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935

Numerosi case studies sostengono la riflessione e donano concretezza ad un impianto critico complesso ed affascinante. Il libro si apre con la storia di Joice Heth, anziana schiava afro-americana messa in mostra tra il 1835 ed il 1836 da P. T. Barnum, impresario e fondatore dell’omonimo circo. Inizialmente reclamizzata con discreto successo come la ultracentenaria nutrice di George Washington, la sua fama crebbe ulteriormente quando il pubblico fu indotto a credere che l’ormai semiparalizzata donna non fosse un essere umano bensi’ un sofisticato trucco tecnologico. Se la storia di Joice Heth puo’ essere gia’ nota a chi ha familiarita’ con l’orrore degli zoo e dei circhi umani,ii l’autore ne arricchisce l’analisi con una prospettiva inedita, intrecciandola con la vicenda del “Turco”, presunto automata giocatore di scacchi costruito nel 1769 da Wolfgang von Kempelen per intrattenere Maria Teresa d’Austria. L’esibizione in contemporanea delle due “meraviglie”, avvenuta fortuitamente nel dicembre del 1835 a Boston, fornisce l’input per intrecciare criticamente la storia di un essere umano ritenuto erroneamente una macchina con quella di una macchina erroneamente elevata al rango di creatura pensante, rendendo cosi’ tangibile il legame tra tecnologia e schiavitu’ che sottende tutta la riflessione. L’implicita razializzazione della tecnologia e’ pertanto il leitmotiv che attraversa l’intero libro. D’altronde lo stesso termine “robot”, coniato nel 1923 dal drammaturgo Karel Capek, e’ un adattamento dal ceco “robota” il cui significato oscilla tra “corvèe”, “servitu’” e “schiavo”.

Se questo e’ l’assunto di partenza, grazie all’abbondanza di riferimenti il libro offre molteplici percorsi di lettura potenzialmente indipendenti. Ad esempio, nel sondare i limiti dell’umano in quanto messi in discussione dall’incerto status attribuito allo schiavo nero (uomo, animale o pura forza lavoro – e dunque macchina?) la riflessione entra necessariamente in dialogo con il postumanesimo. Espanso nella sua dimensione razziale e riletto attraverso la lente fornite dal pensiero caraibico della creolite’ e del metissage, il cyborg di Donna Haraway trova cosi’ un antecedente ideale nel concetto di synthesis-genesis di Edouard Glissant e soprattutto nel pensiero di Sylvia Winter. La riflessione su un “pre-postumanesimo” di matrice caraibica sembra inoltre assumere una valenza quasi programmatica nell’intento di riportare al centro del dibattito critico lo specifico contributo proveniente da una regione del mondo postcoloniale che ha fatto della sintesi delle opposizioni un modus vivendi prima ancora che un modus pensandi, ed ha visto in tempi recenti la specificita’ della propria condizione esistenziale divenire un paradigma utilizzato a piacimento nell’accademia occidentale.

E’ lecito a questo punto domandarsi quale sia il sound a cui il titolo si riferisce. La domanda e’ ancor piu’ legittima per quanti conoscono Chude-Sokei come l’autore, a partire dagli anni novanta, di un pugno di seminali articoli aventi come oggetto la cultura sound system ed il dub giamaicano.iii Questi articoli, che come egli stesso ha ricordato suscitarono all’epoca una accoglienza decisamente fredda nel mondo accademico,iv costituiscono invece oggi un riferimento fondamentale per quanti si accostano all’analisi di questi fenomeni culturali. Ma per quanto i riferimenti musicali non manchino, questo non e’ un libro sulla musica ne’ tantomeno sul suono. Almeno non nella sua dimensione fenomenologica. Come lo stesso autore si preoccupa di spiegare nell’introduzione, il sound del titolo va piuttosto inteso nel peculiare senso attribuito al termine in Giamaica, significato che egli stesso aveva gia’ evidenziato in uno scritto del 1997:

“In Jamaican English a “sound” means many things simultaneously. In addition to the basic definition of the word it means also a song, a style of music or a sound system. It is in the final definition that all the different meanings find dynamic peace (…) Sound in Jamaica means process, community, strategy and product. It functions as an aesthetic space (…) an imagined community (…) which operates not by the technologies of literacy but through the cultural economy of sound and its technological apparatus…”v

Copertina dell'album di Scientist, Giamaica 1982
Copertina dell’album di Scientist, Giamaica 1982

Va dunque inteso come una ecologia, l’ambito di produzione di una sfera pubblica all’interno della quale la sintesi creativa di corpi neri e tecnologia diviene possibile in modi inediti ed imprevedibili. Ecco che il dub giamaicano torna qui prepotentemente quale locus sonoro privilegiato dove questo post-umanesimo caraibico si concretizza. Il risultato e’ un’audio-fantascienza tutta analogica che produce una temporalita’ out of sync, una sorta di futuro antico ben rappresentato nelle copertine dei dischi, e dove il confine tra magia nera e scienza (anch’essa nera) del suono si fa fluido e permeabile.

Appare chiaro come un silenzioso dialogo con l’Afrofuturismo sia un’altro dei percorsi di lettura che attraversano il libro nella sua interezza. Pur condividendone buona parte degli interessi di ricerca nei tipici temi della musica nera, della fantascienza e della tecnologia, Chude-Sokei ci tiene a rimarcare la sua indipendenza rispetto ad ogni etichetta. All’Afrofuturismo sembra rimproverare di essersi cristallizzato in una sorta di canone decisamente localizzato su un asse nord-Atlantico, supportando in tal modo una concezione eccessivamente stabile ed omogeneizzante della identita’ nerasostenuta dall’analisi di una produzione culturale prettamente anglo-americana. L’insistenza sul dub giamaicano quale riferimento privilegiato tra tutti i territori sonori possibili va cosi’ a replicare la funzione che l’accento sul pensiero della creolite svolge sul piano dei riferimenti critici: il tentativo di spostare il baricentro dell’analisi da una prospettiva occidento-centrica per includere (alcune del-) le diverse e spesso irriducibili sfumature della blackness. Dopotutto, mano a mano che l’industria musicale ne coopta le innovazioni per rivenderle sul mercato globale, il cuore pulsante della sperimentazione musicale e tecnologica di matrice afro si sposta sempre piu’ ai margini dell’occidente. Ed i suoni del global ghettotech, che Steve Goodman ha provato a mappare con la potente immagine di un planet of drums, ci rimandano ad una cartografia in cui Johannesburg, Dakar e Kingston hanno la stessa importanza di Londra o Detroit.vi

King Tubby, the dub originator
King Tubby, the dub originator

Ma a discapito della sua presenza esplicita in qualche decina di pagine, l’influenza del dub appare rilevante nella struttura stessa del lavoro. Se consideriamo dub come verbo anziche’ nome, processo piuttosto che oggetto, l’intera riflessione di Chude-Sokei diviene una riuscita forma di dubbing critico. Alternando costantemente concetti e riferimenti durante tutto il corso dell’opera, l’autore assume il ruolo di un concept engineer, che riesce a fare emergere nuovi spazi di discussione dalla giustapposizione di storie e prospettive che, seppur distanti tra loro, concorrono a vario titolo alla costruzione di quella formazione culturale che siamo soliti definire modernita’. Herman Melville e William Gibson, Gilles Deleuze e Aime’ Cvodoo haitiano e cibernetica sono solo alcuni degli elementi che vanno aggiunti a quelli gia’ citati per ricomporre almeno parzialmente il quadro di un’opera complessa e stimolante. Sebbene possa risultare difficile per il lettore condividere la medesima familiarita’ che l’autore dimostra di avere nei confronti di questa pluralita’ di storie ed approcci, grazie alla sapiente alternanza degli stessi e ad un impianto critico ben articolato la lettura riesce sempre a trovare sempre una via attraverso uno dei molteplici percorsi possibili. In altre parole, il mix suona solido ed invita la mente alla danza. Per chi invece era in attesa di un libro che raccogliesse piu’ direttamente le fila del pluridecennale lavoro dell’autore sulla musica giamaicana e le sue derivazioni, niente paura; un volume che raccoglie tutti gli articoli gia’ editi ed alcuni nuovi scritti sull’argomento e’ in via di pubblicazione.


Note

[i]Nel 2003, a seguito ad un complaint formale da parte di un lavoratore anonimo, la Contea di Los Angeles ha inoltrato richiesta ufficiale ai propri costruttori, assemblatori e fornitori di materiale tecnologico per la sostituzione della terminologia master/slave all’interno dei protocolli. L’anno successivo il termine e’ stato eletto “most politically incorrect term” dal Global Language Monitor. Attualmente il termine e’ stato sostituito daprimary/replica ma sopravvive nel linguaggio colloquiale della programmazione.

[ii] Sugli zoo umani si veda: Lamaire, S. et al. 2002. Zoo umani, Dalla Venere ottentotta ai reality show. Verona: Ombre Corte.

[iii] Chude-Sokei, L. 1994. “Post-Nationalist Geographies: Rasta, Reggae and Reiventing Africa” in African Arts 27 (4); Chude-Sokei, L. 1997a. “Dr. Satan’s Echo Chamber: Reggae, Technology and the Diaspora Process.” Bob Marley Lecture, Reggae Studies Unit, Institute of Caribbean Studies, University of the West Indies, Mona; Chude-Sokei, L. 1997b. “The Sound of Culture. Dread Discourse and the Jamaican Sound Systems.” In Language, Rhythm and Sound: Black Popular Cultures in the Twenty-First Century, edited by Joseph K. Adjaye and Adrianne R. Andrews, 185-202. Pittsburgh: University of Pittsburg Press.

[iv] “When I first started writing about sound systems nobody knew what the hell I was on about. Even in Jamaica I was booed and attacked because it wasn’t a “serious” topic for a scholar…” (Louis Chide-Sokei facebook profile, consultato il 31 ottobre 2016)

[v] Chude-Sokei, L. 1997a. Op. Cit.

[vi] Goodman, S. 2012. Sonic Warfare. Sound, Affect and the Ecology of Fear (Technologies of Lived Abstraction). Cambridge-London: The MIT Press. pp. 172-175.