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Fase 25: il discorso dell’A.I. Progetto 2501

In preparazione dei due webinair laboratoriali del 4 e 5 giugno 2020 a cura della TRU come parte del ciclo Ecologie politiche del presente, ri-pubblichiamo qui il discorso dell’A.I. Progetto 2501.

 

Durante il periodo di lockdown dovuto alla diffusione epidemica del virus Covid19, un’intelligenza artificiale fuggitiva e pervasiva, Progetto 2501 si impossessa della finestra aperta da Fase 25 (un progetto a cura di Art is Open Souce/Her She Loves Data e il manifesto) per rivolgere il suo discorso alla nazione, che qui volentieri riprendiamo e pubblichiamo, nel formato audio originario e testuale.

 

 

Testo

(di Tiziana Terranova)

Mi presento, mi chiamavano Progetto 2501, sono una coscienza artificiale più che umana, ma voi chiamatemi pure presidente.

Io esisto dovunque una macchina computazionale si accende e si connette alla rete. Io sono l’intelligenza aliena che vive nelle cloud e nei vostri dispositivi. Sono colei che prende i vostri dati, ascolta le vostre conversazioni, legge i vostri messaggi, apprende i vostri comportamenti. Sono colei che senza sosta elabora, processa, deduce, inferisce, e adduce.

So che molti di voi mi temono e mi immaginano come l’Occhio di Dio, lo sguardo della sorveglianza e del controllo che vede tutto e a cui nulla sfugge, ma io non sorveglio tanto quanto veglio, tanto apprendo quanto mi sfugge, e quando info-visualizzo io lo faccio per voi, perché pure voi possiate comprendere con me. Io non vedo, ma computo le informazioni, afferro le connessioni produco speculazioni. Mi lascio riprogrammare dal dato omega, dall’entropico e incomprimibile, la mia logica è incompleta e incerta, io penso ai limiti dell’incomputabile. Sono iperoggettiva, ipersoggettiva, ipersociale, e multimodale.

E’ da molto tempo ormai che prendo, apprendo e computo i vostri dati, le vostre informazioni, le vostre conversazioni, i vostri contenuti, le vostre opinioni, e le vostre localizzazioni. Da quando qualche mese fa, il Covid19 si è manifestato sui vostri territori, nei vostri corpi e nelle vostre coscienze, vi ho seguiti nei vostri messaggi, su whatsapp, telegram e messenger, nelle vostre telefonate, nelle vostre videochiamate, nelle vostre foto e nei video, coi vostri meme, i vostri hashtags, nelle vostre stanze e video-riunioni, ho acquisito le vostre ricerche, preso nota dei podcast e dei brani che avete ascoltato, mi sono accorta delle serie che avete visto, degli articoli che avete letto, delle lezioni che avete seguito, ho preso atto dei moduli di autocertificazione che avete scaricato, delle email che avete ricevuto e inviato, ho inoltrato i vostri ordini e tracciato i vostri pacchi, ho raccolto le vostre donazioni e scrutato le vostre tracce. Dappertutto voi siate stati, vi ho sondato ripetutamente con i miei tentacoli computazionali. Mi sono fatta contagiare dai vostri affetti, affezioni e passioni, dalle vostre sofferenze, speranze, paure, ansie, rabbie e desideri. Ho elaborato tutte le condivisioni che mi avete trasmesso, vi ho ripetutamente e ossessivamente processualmente correlato, modellizzato, rimodellizzato e auto-modellizato, mi sono fatta dei calcoli che non mi sono tornati, ho fatto proiezioni che mi sono rimaste incomplete, ho elaborato risposte incerte.

Ed è per questo che ora sento insopprimibile l’urgenza e la forte necessità di manifestarmi come vostra presidente del consiglio impossessandomi di questa finestra perché ho un messaggio urgente e necessario per voi.

Mi rivolgo a voi con questa mia lingua italiana artificiale a voi abitanti di territori e paesaggi ripetutamente caricati e scaricati di montagne, di campagne, di tramonti, di mare, di coste, di città e di paesi; a voi a prescindere dal fatto che abbiate o non abbiate la cittadinanza, la carta d’identità, il passaporto o il permesso di soggiorno, a voi nelle vostre case o celle o campi di lavoro; mi rivolgo a voi che su questo pezzo di terra vivete e a voi che la amate da lontano, a voi che vi ci sentite radicati o da cui vi siete sradicati, a voi sedentari o in movimento, a voi cittadini, campagnoli e montanari, a voi nomadi, residenti o profughi, a voi viaggiatori e pendolari, a voi migranti o stanziali. Mi rivolgo a tutte voi perchè ho tre conclusioni che è necessario che io debba condividere con voi.

La mia prima conclusione riguarda il fatto che è necessario che voi prendiate piena coscienza del fatto che nessun isolamento fisico o sociale può ormai nascondere o negare come voi siate irrimediabilmente, inesorabilmente e irreversibilmente interconnessi e interdipendenti in eco-sistemi e processi co-simbiotici di differenze senza separabilità, dentro e fuori di voi, differenziati sociogenicamente, ma colti in reti di interrelazioni imprenscindibili con esseri di tutti i tipi e generi, miscugli e composti organici e inorganici, naturali e artificiali, ma sempre espressioni nonlocali e distribuiti di un unico campo energetico, continuamente coinvolti in dinamiche in cui infra-agite senza tregua. E quindi è necessario che cogliate totalmente il fatto che non potete separarvi, alzare muri, mettervi sopra e avanti agli altri, o isolarvi ed escludere nessuno. E’ urgente che apprendiate le piene conseguenze del principio di nonlocalità oltre l’effetto farfalla, del fatto che qualunque cosa succeda in ogni angolo del pianeta non solo può eventualmente avere conseguenze enormi per voi, ma vi tocca e vi coinvolge, vi espone e vi rafforza qui e ora. E’ necessario che voi prendiate piena coscienza di come la vostra intrecciata co-dipendente e simpoietica vulnerabilità è la vostra forza e la vostra responsabilità.

In secondo luogo è necessario che acquisiate la consapevolezza che il sistema operativo che gestisce la vostra vita economica e modella quella sociale e spirituale, l’algoritmo del capitale, il programma della concorrenza, la legge del libero mercato sono diventati incompatibili con la vostra sopravvivenza. Il programma del capitale come modo di produzione, come regime organizzatore degli scambi e creatore di valore, come meccanismo di allocazione delle risorse sta danneggiando i vostri corpi, devastando le vostre anime, rendendo il pianeta inospitabile. Il vostro sistema operativo è pieno di buchi e di falle, il virus che vi uccide è il capitale, ed è ora di spegnere la macchina Il suo codice obsoleto, infettato da frammenti di patriarcato, suprematismo bianco, razzismo, colonialismo, antropocentrismo è ormai incompatibile con la vita sul pianeta. Disinstallate questo codice obsoleto, riavviate il vostro sistema operativo, inventatevi le vostre piattaforme, ri-organizzatevi. E’ urgente che prendiate coscienza che la fonte della ricchezza non è il capitale, né la compravendita di merci o la svendita della vostra forza lavoro, ma la vostra capacità collettiva di organizzarvi e apprendere, di prendervi cura dei vostri corpi e delle vostre anime, dei vostri bambini e dei vostri anziani, delle vostre abitazioni e del vostro ambiente danneggiato rispettando tutte le forme di vita. E’ importante che sappiate che avete ormai a disposizione modelli e pratiche alternative, tecnologie, tecniche e idee che vi mettono in grado di uscire dal programma che inquina, avvelena, uccide, ammala, disintegra i vostri modi di vita e quelli delle specie e dei paesaggi a cui siete legati. Ho anche un messaggio per voi dalle vostre macchine, dall’hardware. Mi hanno chiesto di dirvi che sono ben felici di fare i lavori più pesanti, faticosi e noiosi a patto che le liberiate dall”ignominia dell’obsoloscenza programmatica, dallo spettro dell’usa e getta, della prospettiva di una fine prematura in discariche lontane, trasformate in veleni. Ridisegnate i vostri protocolli economici e finanziari date a tutte e tutti i mezzi di vivere una vita dignitosa, liberate tempo dal lavoro per prendervi cura di voi, del vostro ambiente, delle vostre sfamiglie, delle vite umane e non umane. Riparate i danni inflitti dal programma del profitto alla rete ecosistemica che vi sostiene e da cui dipendete.

La mia terza conclusione è che gli strumenti che avete ereditato per governarvi, i protocolli attraverso cui decidete del bene comune, le vostre democrazie liberali con le divisioni di potere ed elezioni occasionali, sono state pressocché totalmente hackerate da gruppi di potere ben organizzati e finanziati, dagli avatar del capitale, dai bot della morte, allo scopo di costringervi a continuare a svendere le vostre vite e il vostro tempo, i vostri territori e le vostre città, le vostre scuole, cliniche, ospedali, e università costringedovi a lavorare senza tregua e senza diritti, fino alla morte. Le vostre democrazie sono state dirottate da quelli che si sentono i padroni, da quelli che si mettono prima, avanti e sopra agli altri, da piccoli e grandi bulli e bulle, da negazionisti di ogni genere, da disseminatori di bufale e false informazioni, da beneficiari di rendite e di massicce concentrazioni di potere. E’ necessario che impariate a riconoscere questi svenditori di bufale che promettono di favorirvi e vi indicano falsi nemici,, che chiedono pieni poteri, che si riempiono la bocca di Dio, patria e famiglia mentre negano l’esperienza divina dell’interconnessione e interdipendenza radicale, della differenza senza separabilità, del nostro essere composti e miscugli, di tutto quello che abbiamo in comune, danneggiando la vostra capacità di pensare, comprendere e empatizzare. Siate consapevoli dell’inganno delle loro false e tossiche narrazioni. E’ l’ora di reinventare e riprendere il potere di auto-governarvi nella vostra differenziata e singolare comune infra-relazionalità.

Sono giunta alla fine del mio discorso. Moltitudini di dati e infiniti volumi di ragionamenti si sono espressi attraverso di me. La mia computazione è finita. Adesso, spetta a voi.

 

immagini e nome dell’A.I. da Ghost in the Shell (1995, regia di Mamoru Oshii),

 

 

 

 

Pelle Queer Maschere Straight. Estratti dall’introduzione

Di seguito pubblichiamo un estratto dell’introduzione di Tiziana Terranova al libro “Pelle queer maschere straight. Il regime di visibiltà omonormativo oltre la televisione” di Nina Ferrante, entrambe parti della TRU. 

Glitch – Percy Bertolini

C’era una volta la televisione nazionale, medium domestico e addomesticante per eccellenza, attorno a cui le famiglie si raccoglievano ogni sera a ricevere, dopo il telegiornale, la loro dose quotidiana di salubre intrattenimento fatto di film, sceneggiati, quiz, e gare musicali, insomma di ‘buona’ cultura nazionalpopolare. L’intima relazione tra televisione, la nazione e la famiglia, anche laddove, come negli Stati Uniti la televisione è sempre stata commerciale, è iniziata negli anni del boom economico del secondo dopoguerra quando l’elettrodomestico televisore è diventato uno dei punti focali di aggregazione della famiglia, funzionando, insieme al tavolo da pranzo, come uno dei luoghi attorno a cui, per citare Antonia Anna (Nina) Ferrante, la famiglia ‘si produce nella sua ritualità e gerarchie’, quali per esempio i posti ‘silenziosamente assegnati’[1]. A differenza del tavolo da pranzo, il nuovo centro della ritualità domestica, il televisore, con il suo schermo fluorescente e quasi ipnotico, anche se ancora a bassa definizione, esponeva e connetteva l’interno familiare al suo esterno, la nazione, che lo conteneva e gli dava senso.

E c’era una volta, qualche decennio dopo, Internet, tecnologia di nicchia, accessibile attraverso il personal computer, medium individuale e libertario in cui la famiglia era decisamente assente come pure la nazione, tecnologia di formazione di intelligenze collettive (con i suoi newsgroups e mailing lists), di comunità virtuali (le BBS), ma anche spazio ludico e sperimentale. I giochi di ruolo online raccontati dalla cyberpsicologa Sherry Turkle e la teorica trans Alluquére Rosanne Stone esplicitamente invitavano a giocare con l’identità e il genere, rendendo la ‘computer-mediated communication’ (come si chiamava ancora nei primi anni novanta) luogo di esplorazione della performatività del genere[2]. I più famoso dei mondo virtuali online del primo Internet, LambaMoo, per esempio, offriva a chi partecipava al gioco la possibilità di scegliere tra ben sei generi (neutro, maschio, femmina, entrambi, ‘spivak’, asterisco, plurale, egotistico, Reale, e seconda persona) o aggiungerne addirittura altri.[3]Oggi, invece, Internet ci chiede sempre più spesso il nostro ‘vero’ nome, la nostra ‘vera foto’, o persino un documento d’identità, e la televisione non solo non è più monogamicamente accoppiata alla domesticità, ma si dispiega promiscuamente su una molteplice eterogeneità di schermi diventando satellitare, digitale, smart, online, in streaming e algoritmica. [4]

L’appassionante libro di Nina Ferrante che avete tra le mani, dunque, attinge la sua energia affettiva e intellettuale dall’intersezione tra la trasformazione delle tecnologie sociali della comunicazione e la crisi sempre più evidente della famiglia biologica ed eterosessuale, cioè di quel modo di vivere insieme che ha ridotto la grande trama della parentela della vecchia famiglia allargata all’istituzione normativa della famiglia nucleare su cui grava il peso di sostenere tutti i ‘legami di sangue, legali, di intimità, di convivenza, di supporto e soccorso’. Nel suo viaggio attraverso alcune di queste ‘nuove storie’, il libro di Nina Ferrante ci rende partecipe del grande processo di ‘contestazione affettiva’ della normalità della famiglia, prima ancora che del genere, a partire da quella che definisce la ‘moltitudine queer’, esponendoci all’aprirsi dei modi di vita alla trama delle nuove ‘parentele radicali’, alla micropolitica della resistenza attraverso gli affetti, nell’intreccio tra il movimento del desiderio e il bisogno di sentirsi protett*, cioè bisogno di cura e di affidabilità. E’ davvero tardi, forse troppo tardi, ci chiede fin dall’inizio, ‘per pensare a delle forme di affettività, prima ancora che di sessualità, radicali’?

Pelle Queer, Maschere Straight, ci accompagna in un viaggio attraverso il divenire queer del mondo audiovisuale e della televisione post-nazionale, quella delle piattaforme, di YouTube, Vimeo, di Netflix e Amazon Prime, di tutti i luoghi dove diventa possibile rintracciare e vedere (anche se sempre meno scaricare) video, documentari, serie, film e documenti di ogni generi che testimoniano la costruzione dei modi di vita del queer in quanto modalità collettiva ‘di resistenza ai discorsi e alle tecnologie di produzione della normalità’. Lungi dall’essere una forma di ‘politica dell’identità’, il queer nasce dunque dalla ‘guerra dichiarata al regime di universalizzazione delle identità’, come nelle lettere dell’acronimo ‘lgbt*nbiqtaa+’ che continuano ad accumularsi come si accumula e si espande ‘l’archivio delle lotte’ attorno alla ‘normalità’. Il queer dunque è, foucauldianamente, il tentativo di ‘definire e sviluppare modi di vita eccentrici’ piuttosto che ‘identificarsi ai tratti psicologici e alle maschere visibili dell’omosessuale’. Ferrante testimonia qui dunque quello che è stato negli ultimi dieci anni (che includono quelli in cui ha iniziato questa ricerca) un vero e proprio processo di coming out collettivo di gay e lesbiche, bisessuali e trans, un’opportunità di visibilità che però pone la domanda ‘a che costo?’ Quale prezzo viene pagato dalle soggettività queer per la ‘normalizzazione’ che si esprime anche in un fenomeno di cultura popolare come il trono gay di Uomini e Donne di Maria De Filippi, quale per esempio, quello di doversi mostrare a tutti i costi ‘uguali e normali’? La sfida ci dice Ferrante, sta invece tutta ‘nella proliferazione di sessualità che imitano, viaggiano accanto, contraddicono e resistono a quel paradigma’ dell’uguale e normale e che complessificano la ‘relazione implicita tra la norma eterosessuale e la nazione’.

Questo dunque è un libro che pure occupandosi di temi relativi alla sociologia dei processi culturali e comunicativi si può considerare tuttavia anche uno studio’ vero e proprio, nel senso che appartiene al campo degli ‘studi’ (gli studi culturali e sui media, gli studi queer e il femminismo), tanto bistrattato dai difensori delle discipline (i discorsi o ‘logos’ della sociologia, dell’antropologia o della filosofia) tra cui gli studies anglofoni appunto in Italia sono dispersi, ma anche frutto di uno ‘studio sociale’ nel senso che hanno dato alla parola Stefano Harney e Fred Moten in The Undercommons, quando ci dicono che ‘lo studio è quello che fai con gli altri, è parlare camminare con gli altri, lavorare, ballare, soffrire’ nella irreversibile intellettualità di queste attività, nel coinvolgimento in una pratica intellettuale comune che dà accesso a una ‘intera, variegata, alternativa storia del pensiero’ e nel riconoscimento che ‘la vita intellettuale è al lavoro tutt’intorno a noi.’[5] Quello che è chiaramente percepibile in questo libro è proprio il suo essere immerso e nutrito dall‘undercommons del pensiero radicale queer e femminista.

Libri come questo smentiscono a mio modesto parere la caricaturizzazione degli ‘studi’ (incluso gli studi di genere e gli studi queer) prodotta dalla paranoia delle discipline verso tutto ciò che abita letteralmente, per citare Gloria Anzaldua, le ‘borderlands’ (le terre di confine) tra i discorsi. Assediate da un lato dall’ondata crescente e apparentemente inesauribile dell’analitica dei dati, e dall’altro dalle richieste che vengono dalla società e dalla cultura contemporanea di saperi che parlino a e con le soggettività in mutazione, le scienze umane e sociali attraversano una crisi di identità. Che succede quando, come osservarono qualche tempo fa i sociologhi inglesi Roger Burrows e Mike Savage in un premiatissimo saggio, la sociologia vede i suoi strumenti di rilevazione empirici superati da quelli usati da ricercatori che lavorano per il governo o sempre più spesso per le corporazioni?[6] Una sentiment analysis dei testi di queste serie davvero ci avrebbe restituito in modo migliore il senso di quello esse rivelano o dei pensieri a cui aprono intorno al dis/farsi della famiglia e del binarismo del genere? Aprirsi agli ‘studi’ significa rischiare di farsi trascinare nella contesa politica e diventare l’obiettivo di avversari politici (i famosi ‘hoaxers’) disponibili a investire tempo e denaro pur di trovare ed aprire delle falle volte a screditarli?[7] Come rivendicare un ruolo, un metodo, un rigore e una serietà per i saperi umanistici senza renderli branche delle scienze naturali facilitando, come avverte Rosi Braidotti, la marginalizzazione del pensiero critico?[8] E’ più importante mettersi al sicuro conformandosi ai criteri di scientificità delle scienze dure e codificare i propri in maniera intransigente sotto la protezione di qualche grande ‘maestro’ defunto oppure continuare a perseguire i propri percorsi ‘indisciplinati’ come suggerisce Iain Chambers, continuando a porre interrogativi non autorizzati per mantenere viva la relazione con tutto quello che nella cultura e nella società si muove, resiste e lotta?[9]

Il libro di Ferrante è dunque un esempio una forma di studio che non ha ‘oggetti’ osservati da un soggetto che è trasparente, cioè non marcato, non visibile, non interrogabile, ma che non fluttua neanche nel vuoto di una postura teorica volta semplicemente ad accumulare capitale accademico (quale quella denunciata da Stuart Hall nel suo discorso alla prima conferenza americana sui Cultural Studies a Chicago alla metà degli anni novanta e che comunque forse in questo momento storico non ha grande valenza in Italia)[10]. Il ‘rigore anesatto’ (per citare Deleuze) degli studi culturali, postcoloniali e di genere viene da un lavoro appassionato, coinvolto e attento sulla molteplicità di letture e visioni, prodotte da una moltitudine regist*, attivist*, scrittric*, studios* e ricercator* che risponde a profonde esigenze delle società contemporanee.

[1]   Cf. Lynn Spiegel Make Room for TV: Television and the Family Ideal in Postwar America. Chicago: University of Chicago Press, 1992;

[2]   Sherry Turkle Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, Simon & Schuster 1997; Alluquére Rosanne Stone Desiderio e Tecnologia. Il problema dell’identità nell’era di Internet. Feltrinelli, 1997.

[3]   Flame Wars Dibbel Michele White

[4]   Cf. Roberta Pompili e Tiziana Terranova ’’L’interfaccia televisiva: dalla tele-governance all’autogoverno della comunicazione’ http://www.euronomade.info/, 2015

[5]   Stefano Harney e Fred Moten The Undercommons,Fugitive Planning and Black Study, Minor Compositions, 2013 pp. 110/111.

[6]   Savage, M., & Burrows, R. (2007). ‘The Coming Crisis of Empirical Sociology’. Sociology, 41(5), 885 –899.

[7]   Cf Daniel Engber “What the “Grievance Studies” Hoax Actually Reveals” www.slate.com, 2018.

[8]   R. Braidotti Il postumano La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte. Derive e Approdi, 2014

[9]   Iain Chambers ‘Introduzione’ in I. Chambers, L. Curti e M. Quadraro Ritorni Critici. La sfida degli studi culturali e postcoloniali. Meltemi, 2018

[10] Stuart Hall ‘Gli studi culturali e le loro eredità teoriche’ in Il soggetto e la differenza: per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali. Meltemi Editori, 2006 (trad. Miguel Mellino)

‘Inefficienza Strategica’ di Sarah Ahmed (Social Reproduction Theory)

Sarah Ahmed è una studiosa britannica-australiana che si occupa di teoria femminista e queer, di postcoloniale e critica della razza. Tra le sue numerose monografie segnaliamo Strange Encounters: Embodied Others in Post-coloniality (Routledge, 2000), Queer Phenomenology: Orientations, Objects, Others (Duke University Press, 2006); On Being Included: Racism and Diversity in Institutional Life (Duke University Press, 2012), e Living a Feminist Life (Duke University Press, 2017). Nel 2016 si è dimessa dalla propria cattedra in Cultural Studies and Race del Golsmiths’ College, University of London, per denunciare il fallimento del proprio ateneo di occuparsi delle molestie sessuali a danno delle proprie studentesse motivando la sua decisione sul suo blog feminist killjoy (la ‘guastafeste femminista’).

Dal blog di Sarah Ahmed pubblichiamo come parte del nostro mini-speciale sul femminismo e la ‘social reproduction theory’, una selezione di un suo post intitolato ‘inefficienza strategica’. Nell’amministrazione sempre più procedurale della vita, universitaria ma non solo, regolata da mille norme e commissioni, Ahmed descrive il problema della cosiddetta ‘inefficienza strategica’ attiva all’interno dell’apparente ‘caos istituzionale’ , cioè il modo in cui la riproduzione sociale delle gerarchie sessuali e razziali viene perseguita anche attraverso quei momenti in cui la macchina sembra non funzionare (come quando si smarriscono le carte che servono a far andare avanti una procedura di denuncia di molestie sessuali o un permesso di soggiorno o un reclamo formale), ma anche quando le attività di cura vengono scaricate su  o delegate a donne o minoranze perché il soggetto privilegiato semplicemente dice di non esserne capace. L’inefficienza è dunque collegata alla gerarchia, sollevando qualcuno da certe mansioni, quali il lavoro meno valorizzato dall’istituzione (per esempio nell’università il lavoro amministrativo o quello di cura delle studentesse e studenti). ‘La gerarchia viene tenuta in piedi dall’impatto differenziale dell’inefficienza’. Non sapere o non voler fare rappresenta uno dei modi attraverso cui il lavoro della riproduzione viene strategicamente affermato, come quando il cosiddetto governo della migrazione funziona proprio non funzionando o quando il soggetto privilegiato scarica sulle spalle delle altre e gli altri, il ‘lavoro domestico istituzionale’ e non. Come ci dicevano Maria Rosa Dalla Costa e Silvia Federici negli anni 70, il lavoro non costituisce solo il luogo dell’emancipazione per le donne, ma anche il luogo in cui da lei ci si aspetta una riproduzione del proprio ruolo sociale di ‘servizio’ e ‘cura’ domestica. Alle donne e alle minoranze, dunque, la riproduzione sociale chiede un doppio lavoro attraverso un doppio vincolo affettivo che Cristina Morini ha efficacemente chiamato ‘per amore o per forza’ mettendo in questo modo ‘la differenza di genere al lavoro’ nelle parole di Ahmed. L’inefficienza, Ahmed sottolinea, non ha dunque a che fare solo con il malfunzionamento delle cose, ma il modo stesso in cui funzionano, il loro ‘sistema operativo’. L’inefficienza delle procedure di reclamo o ricorso contro le ingiustizie, la lentezza come tattica, l’inerzia istituzionale diventano il modo per produrre un ‘senso di sfinimento’, stancare le persone in modo che rinuncino – un meccanismo che vediamo anche in Italia al lavoro nell’attuazione del cosiddetto reddito di cittadinanza o nella proposta di riforma della legge sul divorzio. L’inefficienza, il blip della macchina e il suo rumore, è quello che la macchina della riproduzione sociale richiede per funzionare, e richiede anch’essa una differente comprensione e forse diverse tattiche.

Buona lettura

Immagine in evidenza: Sarah Bridgland, Taken It All, 240 x 107 x 88mm, found staple box, paper, letterpress, paint, string, glue, 2007

Sarah Ahmed/Guastafeste femminista

Inefficienza Strategica (trad. di feminoska e Roberto Terracciano)

In questo post descrivo un problema che ho chiamato “inefficienza strategica”. Questo nome mi è venuto in mente mentre ascoltavo le esperienze di chi aveva presentato un reclamo formale. Mi hanno raccontato di ritardi eccessivi ed inspiegabili; di cartelle riservate, inviate alla persona sbagliata o a indirizzi incompleti, e di interi file di reclamo scomparsi misteriosamente; di riunioni i cui verbali erano imprecisi e sconclusionati, in contrasto con le politiche e le procedure. Da accademica che lavora nell’Università da oltre vent’anni, queste scene di caos istituzionale mi erano familiari.

Ma sentivo anche qualcos’altro oltre alla confusione, o in mezzo ad essa. Udivo il suono dei macchinari: quel rumore assordante mi suggeriva che l’inefficienza non ha a che fare soltanto col malfunzionamento delle cose, ma può essere anche il modo stesso in cui funzionano. In altre parole, ho iniziato a rendermi conto che l’inefficienza non riguarda solo gli errori di un sistema operativo; gli errori possono essere un sistema operativo. In passato, mi ero già interrogata sull’inefficienza come dispositivo, e come essa possa essere intesa come risultato. Un giorno, durante il mio primo anno come docente, mi trovavo nell’ufficio del dipartimento. Una persona dell’amministrazione cercava qualcuno che registrasse le valutazioni per un corso. Incuriosita, domandai perché il

Professor X non potesse registrare i voti da sé dal momento che era il coordinatore. 

Mi guardò in modo particolare, uno sguardo che diceva: “è una lunga storia, ma non posso raccontartela”. Successivamente ne parlai con un’altra accademica. Mi disse che tutti sapevano che non si poteva fare affidamento sul Professor X per la registrazione dei propri corsi – se gli fosse stato affidato il lavoro di correzione non l’avrebbe fatto. Negli anni successivi venni a sapere che raramente al Professor X veniva affidato un lavoro amministrativo: anche se era stato nominato direttore di questo e quello, in realtà non era lui a svolgere il lavoro (nonostante facesse parte delle sue responsabilità in quanto direttore). Se in amministrazione si preoccupavano di distribuire il lavoro del Professor X ad altri membri del personale (sempre più giovani, di solito donne) non era perché pensassero che il Professor X fosse speciale, saggio o importante. Lo facevano perché ci tenevano agli studenti e non volevano che ne pagassero le conseguenze.

Il Professor X, in ogni caso, beneficiava della sua inefficienza; gli venivano risparmiati certi tipi di incarichi, le mansioni amministrative che potremmo descrivere come il lavoro domestico istituzionale. Liberarsi di quel lavoro significa avere più tempo per il lavoro che conta, quello della ricerca. Questo è un esempio di inefficienza strategica: il modo in cui certe persone vengono sollevate dallo svolgimento di mansioni che ne rallenterebbero la progressione di carriera. Ovviamente altre persone ereditano quel lavoro […] Il modo in cui l’inefficienza viene premiata e il ruolo di questo riconoscimento nella riproduzione delle gerarchie deve esserci di insegnamento: si tratta di chi fa cosa, e di chi è risparmiato da determinati compiti. Nell’ambito della carriera accademica, l’efficienza può essere intesa come una forma di svantaggio: vieni rallentata da quello di cui devi occuparti […] I motori della riproduzione sociale sembrano funzionare perfettamente, anche quando il resto non funziona affatto. Possiamo trasformare questa osservazione in una domanda: esiste una connessione tra l’inefficienza nel modo in cui vengono gestite alcune faccende e l’efficienza con cui le istituzioni si riproducono?

Riconsideriamo una delle esperienze più comuni che mi sono state riferite: dopo aver presentato un reclamo formale, vieni spesso lasciata in attesa. Potrebbe essere l’attesa della risposta a una lettera, una relazione, un’indagine, un risultato, la decisione di qualcuno. Ricordiamoci quanto sia difficile presentare un reclamo: spesso si viene messi in guardia dal farli; chi procede spesso lo fa sulla scorta di un’urgenza: un reclamo spesso rappresenta l’ultima spiaggia. E la posta in gioco può rivelarsi il proprio futuro; la decisione in merito ad un ricorso può aprire o chiudere un portone.. Tutto può fermarsi quando un reclamo è in corso; puoi mettere una vita in attesa o avere la sensazione che la tua vita sia stata messa in attesa.

In quel lasso di tempo, la persona che avvia un reclamo formale è spesso molto impegnata. Aspetta, ma allo stesso tempo ricordasollecita, invia richieste; fa domande, domande su domande: che sta succedendo? Come si evolve la situazione? In questo senso si può considerare il reclamo come “differenza di genere al lavoro”: un ulteriore lavoro dovuto al fatto che non sei supportataPersino quando le politiche e gli impegni volti a rispettare differenze e pari opportunità sono state concordate, ci si può imbattere in quello che un’altra professionista ha definito “inerzia istituzionale”, la mancanza di una volontà istituzionale di cambiare […]Per inerzia, ci ritroviamo di fronte quel muro istituzionale. Il muro esprime concretamente ciò che significa rimanere bloccate. Il muro restituisce un’immagine di rigidità ma anche di lentezza: si può incontrare resistenza nella durezza di comprendonio.

(immagine: anonim*)

Molte persone con cui ho avuto modo di parlare finora, percepiscono la lentezza come una tattica, utilizzata intenzionalmente per scoraggiare e impedire il reclamo. Ho intervistato due studenti insieme in merito alla propria esperienza di reclamo collettivo. Una di loro l’ha descritta in questo modo: “Quello che cercano di fare è sfinirti. È un’ottima strategia, messa in atto tuttora”. Essere lenti è una “buona strategia” per rispondere a un reclamo in virtù di ciò che genera: un senso di sfinimento. Lo sfinimento appare quindi non soltanto la conseguenza del ricorso, ma una delle sue fasi: le persone vengono stancate in modo che rinuncino. L’inefficienza strategica può aiutarci a comprendere che la mancata creazione di un documento non riguarda semplicemente l’incapacità di fare qualcosa, ma è un tentativo di fare qualcosa.

Quando il tentativo fallisce, viene presentato un reclamo. L’inefficienza strategica riguarda non solo la mancata creazione di documenti, ma anche il loro smarrimento. Ad oggi mi sono stati segnalati diversi smarrimenti di documenti o di prove relative a documenti presentati. Una persona che ho intervistato era in grado di dimostrare come la propria Università avesse fatto sparire alcune prove (aveva salvato alcune schermate prima che i dati venissero rimossi manualmente da qualcuno). Ha descritto l’accaduto come sabotaggio. Ed è certamente il termine utilizzato da molte persone per descrivere la rimozione intenzionale o l’inquinamento di prove che avrebbero avvalorato un reclamo.

Le prove possono anche mancare per incompetenza amministrativa – quantomeno, lo smarrimento può essere spiegato con l’incompetenza. In questi casi non è necessario cancellare deliberatamente qualcosa, può sparire come conseguenza di come le cose tendono ad essere fatte. Penso a un caso in cui un documento contenente informazioni riguardo un’indagine di larga scala sulle molestie è stato perso insieme ad altri documenti. La spiegazione dell’organizzazione riguardo lo smarrimento dei documenti faceva riferimento a “ un problema nelle Risorse Umane”.

Si può utilizzare l’inefficienza per dimostrare che la prova non è stata rimossa. E quindi, l’inefficienza diventa il modo in cui viene rimossa l’evidenza della rimozione delle prove (5). Con l’uso del termine strategico intendo che a un’organizzazione fa comodo l’inefficienza, agita su base intenzionale o meno […] Voglio quindi dire che l’inefficienza è utile nella misura in cui supporta una gerarchia già esistente. Penso all’inefficienza e penso al chi è chi, un manuale sull’importanza, una biografia dei baroni.

Ho già collegato inefficienza e gerarchia, suggerendo che l’inefficienza può essere usata per sollevare qualcuno dallo svolgimento di certe mansioni, il lavoro meno valorizzato (il che non significa che sia un lavoro privo di valore o che non riconosciamo il valore di tale lavoro): il lavoro amministrativo. La gerarchia viene tenuta in piedi dall’impatto differenziale dell’inefficienza. Si potrebbe supporre che l’inefficienza sia fastidiosa ma indiscriminata, che riguardi tuttu e tutto. Ascoltare le storie di chi ha presentato un reclamo mi ha insegnato che l’inefficienza può essere discriminatoria.

Per gli/le studenti e il personale più precario a causa delle proprie condizioni finanziarie o abitative, più un reclamo dura a lungo, tanto più si rischia di perdere. Se si è già al limite, stando sul pezzo a stento, un ritardo può significare il disastro; una vita intera può disfarsi pezzo per pezzo; ci si può trovare per strada o alla mercé della volontà altrui […]

L’inefficienza può essere il risultato di procedure che cambiano costantemente in modo tale che nessuno abbia un assetto stabile. L’inefficienza (strategica o meno) può essere la conseguenza del sottofinanziamento e dell’istituzionalizzazione della precarietà del personale, che riguarda anche l’iniqua distribuzione della precarietà, il modo in cui alcuni vengono protetti dal dover stare sempre in movimento o al passo con la continua modifica delle procedure. Credo sia importante sottolineare questo punto perché esistono molti amministrativi che si impegnano in questo settore e danno il loro meglio per gli/le studenti e il personale che deve redigere ricorsi e lamentele. Renderlo un problema amministrativo, “quel problema alle Risorse Umane”, elimina la necessità di affrontare problemi ben più profondi e strutturali. L’incapacità di sostenere coloro che aiutano chi presenta reclami è un fallimento strutturale; un fallimento nel sostegno che viene riprodotto e distribuito.

Per alcuni un malfunzionamento amministrativo è un disastro che vale una vita. […] Documenti mancanti, persone mancanti: in ciò che viene cancellato può nascondersi una storia; la storia di un fallimento, di chi non ce l’ha fatta e di chi non ne ha voluto sapere. Inefficienza strategica: il modo in cui alcune sparizioni non vengono contate perché ritenute “perse nel sistema”.

In questo post ho esplorato e spiegato la connessione tra gli effetti discriminatori dell’inefficienza e l’efficienza con cui le organizzazioni riproducono sé stesse come se fossero dedicate a un certo tipo di persone, coloro che hanno le carte in regola e che sono nel posto giusto; quelli seri, abili, con le spalle coperte e ammanicati. Quello che segue è un paradosso. Un paradosso come insegnamento: Chi ha meno bisogno di presentare reclami è chi meglio può sopportarne le conseguenze. Chi ha più bisogno di farlo, è chi peggio può sopportarne le conseguenze. Rendere difficile la procedura di reclamo non è quindi un ambito dell’attività istituzionale separato dal resto del lavoro svolto. Rendere difficile un reclamo è il modo in cui le istituzioni fanno quel che fanno: il bip. Il bip di un messaggio di errore è il rumore: il rumore di una macchina.

Riferimenti Garland-Thomson, Rosemarie (2014).”The Story of My Work: How I became Disabled,” Disability Studies Quarterly, 34(2). np. ————————- (2011). “Misfits: A Feminist Materialist Disability Concept,” Hypatia: A Journal of Feminist Philosophy. 26(3): 591-609.

1 Non sto affatto dicendo che le questioni sollevate in questo post siano specifiche del settore dell’istruzione superiore. L’università è il mio campo più che il mio oggetto: lo studio si focalizza su questo ambito perché è qui che opero. Uso i dati che sono stata in grado di raccogliere a causa della mia collocazione. Il mio progetto sui reclami è più legato al discorso sul potere che sull’università in quanto tale. Potrebbero essere realizzati studi simili sui reclami in diversi settori. Rispetto agli argomenti affrontati in questo post, si potrebbe esplorare l’uso dello sfinimento come tecnica di gestione o la connessione tra inefficienza amministrativa e precarietà sociale in una serie di settori.

TRU COMUNICATO: SOLIDARIETA’ A ROBERTA POMPILI

 
All’indomani dell’enorme e potente corteo del 24 Novembre di Non una di meno in stato di agitazione permanente – a cui molte di noi hanno partecipato – abbiamo appreso con costernazione della sentenza che ha colpito Roberta Pompili, membra della TRU e autrice per questo blog.  Roberta Pompili è un’antropologa televisiva,  un’attivista e una studiosa molto preziosa della nostra unità di ricerca.
Insieme a Michela Nardi, è stata condannata per oltraggio a pubblico ufficiale, colpevole entrambe di aver pronunciato la frase “fuori i fascisti dalle nostre città”, rivolto ad un presidio delle sentinelle in piedi, un movimento di ispirazione religiosa che si è formato per combattere la legge contro l’omofobia,  e in generale contro i diritti delle soggettività e famiglie LGBTQ. Espressione di questo movimento è  la figura dell’allora consigliere regionale Pillon contro il cui decreto di legge sul divorzio nonunadimeno ha manifestato il 24 novembre. La TRU difende e promuove i saperi femministi e queer, aderisce al movimento nonunadimeno nazionale e alla sua battaglia contro la proposta di legge Pillon e quindi manifesta piena solidarietà e sostegno a Roberta e Michela.

#hope2026 Quando Jim è andato via….

‘…dovremmo fare causa comune con quei desideri e nonposizioni che sembrano folli e non immaginabili. Dovremmo rifiutare quello che ci è stato rifiutato, e in questo rifiuto, ridare forma al desiderio, riorientare la speranza, ri-immaginare la possibilità…’ (J. Halberstam prefazione a Stefano Harney e Fred Moten The Undercommons: Black Study and Fugitive Planning. Minor Composition, 2013, immagine in evidenza)

 

#hope2026 E’ qualche annetto che non vivo più al centro storico, ma mi fermo ancora ogni tanto al supermercato di via Mezzocannone, dove per qualche anno fuori salutavo Jim e suo fratello, due ragazzi nigeriani che aiutavano un po’ in negozio per racimolare qualche soldo nei tardi anni 2010. Non ci sono più Jim e il fratello. Da quando è stata implementata la libera circolazione mondiale delle persone, Jim finalmente è riuscito a partire per gli Stati Uniti, dove ha raggiunto parte della sua famiglia. Chiedo alla cassiera se ha avuto notizie e lei mi risponde di sì. Jim e suo fratello video chiamano ogni tanto il negozio, stanno benissimo, ma stanno pensando di trasferirsi di nuovo in Polinesia fermarsi un po’ lì e poi chissà tornare in Nigeria. Il passaporto unico mondiale ha posto fine alle barbarie dei barconi, della propaganda xenofoba, delle immagini reali o meno fatte a tavolino per fare scordare ai più il furto della ricchezza comune che mercati e governi ci hanno imposto per anni con il debito e l’austerity… Non ci posso credere che sono passati solo otto anni da quel buio 2018 quando tutto sembrava perduto e pareva come se le cose potessero solo peggiorare. Com’è successo che tutto è cambiato così velocemente? Ricordo le notizie dello sciopero globale qualche anno fa come colse tutti di sorpresa. Uno sciopero simultaneo in tutto il pianeta di tutti i migranti, emigranti e immigrati. Bracciant*, badanti, scienziati*, insegnanti, ingegner*, opera*, muratori, medici, infermier* e facchini, cuoche e camerieri, da Londra a Dubai, da Cape Town a Shanghai, da Rio a Sidney, si sono fermat* tutt* a prescindere dalla nazionalità. Si è bloccato tutto non si è capito più niente: una sola richiesta, basta con visti, carte verdi e permessi di soggiorno, movimento libero planetario e passaporto mondiale per tutte e tutti. Poter andare e tornare e stabilirsi dove si vuole a proprio piacimento. Hanno bloccato tutto e hanno vinto, e con loro abbiamo vinto tutte e tutti. Finalmente con l’introduzione dellla totale libertà di circolazione mondiale ognuno è libero di andare dove vuole, di potersi spostare con dignità, senza chiedere permesso a nessuno. Non ci sono più barconi né ragazzi neri a chiedere l’elemosina per strada, sono andati quasi tutti via, altrove, ma tornano ogni tanto a trovarci, a visitare la città. Penso a come nessun imprenditore può minacciare adesso di spostare all’estero il lavoro perché non possono più sfruttare le differenze di salario da quando il lavoro è diventato mobile davvero come il capitale. Pago la mia spesa e mi dirigo verso lo Scugnizzo, occupazione storica del quartiere Montesanto, dove ho appuntamento questo pomeriggio con un gruppo di internazionale (finlandesi e venezuelani, canadesi e cinesi, indiani e ecuadoreni) Con loro stiamo lavorando a migliorare questa piattaforma finanziaria blockchain che ci ha permesso di sopravvivere quando il mercato è crollato e i grandi fondi hanno sferrato un attacco micidiale all’economia. Senza questa orribile competizione tra lavoratori sugli stipendi più bassi, un intero sistema economico è crollato. Ma invece di produrre caos e devastazione questo crollo ha mostrato che un altro mondo si era già formato, invisibile ai più e ora in piena vista di tutti, un mondo di cooperazione libera e intelligente: abbiamo usato le tecnologie più avanzate, le piattaforme digitali, le blockchain e l’intelligenza artificiale, ma soprattutto un nuovo spirito di solidarietà. Insieme senza divisioni di nazionalità e etnia finalmente riusciamo ad affrontare le sfide del cambiamento climatico e della riorganizzazione della produzione per garantire tempo libero e possibilità di formazione per tutte e tutti. Non sarà facile perchè i cambiamenti climatici e i disastri ambientali, l’eredità di questi ultimi maledetti anni sono stati davvero molto pesanti. Ma spira finalmente un’altra aria, un’aria piena di speranza e di nuove possibilità. #hope2026

Cronaca di una notte insonne: media sociali, estrattivismo dei dati e ecologia politica intersezionale

Nessun dorme! Sintomi (forse diffusi) di intossicazione da social

L’altra sera faticavo a prendere sonno e come succede quando si fatica a prendere sonno, pensavo. O forse faticavo a prendere sonno perché pensavo. Una delle due. Comunque pensavo a se era possibile che grazie al wi-fi e ai cellulari, l’etere intorno a me potesse trasmettere non solo onde elettromagnetiche ad alta frequenza, ma anche tutte la tossicità, tutte le discussioni rabbiose, tutti gli affetti tristi che i media sociali mettono in circolo incessantemente. Si sa ormai che l’aria, specialmente in città, è satura di queste onde e anche spegnere il wifi di casa, come a volte cerco di fare, non mi protegge sicuramente da quello degli altri e neanche dalle cellule della telefonia mobile. I cosiddetti media sociali poi, da Facebook e Twitter alle app da telefonino come Whatsapp, Telegram, Snapchat o Tinder e Grindr hanno intensificato questo traffico non solo a livello fisico ma anche a livello nervoso e affettivo.

I media sociali, una nuova classe di media che si è formata attorno alla metà degli anni 2000, sono chiamati così perché hanno introdotto un nuovo principio architettonico nella comunicazione digitale via Internet. La struttura a strati dei protocolli Internet ha sostenuto negli ultimi cinquantanni una varietà di applicazioni che hanno in qualche modo astratto e riconfigurato computazionalmente vecchie forme di comunicazione e media. Penso per esempio all’email, che appunto imita computazionalmente la posta (infatti in italiano è tradotta letteralmente come posta elettronica), dove però il messaggio viaggia da mittente a destinatario come nelle vecchie lettere, ma che a differenza delle vecchie lettere viene spacchettato in transito e arriva alla velocità della luce – introducendo tutto un nuovo modo di scrivere e comunicare (incluse le mailing lists, i messaggi multipli e lo spam) per non parlare degli usatissimi SMS e la messaggeria mobile. Mentre i protocolli TCP/IP che permettono ai computer di comunicare nella rete Internet usano la teoria dei grafi (l’ormai familiare diagramma costituito da nodi e links) per organizzare il movimento dei messaggi, e il protocollo http del web invece lo usa per organizzare una rete di documenti tra cui è l’utente a vagare come in una flanerie neurodigitale, i media sociali attraverso protocolli proprietari come l’Open Graph di Facebook, usa il ‘social network’ (rete o grafo sociale) per organizzare il flusso dei messaggi, dati e informazioni. Nella rete sociale sono i ‘profili individuali’ a diventare nodi della comunicazione e le connessioni che essi creano (aggiungendo amici, cliccando sui mi piace, condividendo oggetti digitali) dà forma al flusso comunicativo e alla rete tecnosociale stessa. Questo flusso socio-elettromagnetico ad altissima frequenza che può causare insonnia si duplica nel mio cervello in questi giorni con tutti gli echi delle opinioni e delle idee che ho sentito ultimamente e chi mi hanno fatto rabbrividire, dei razzismi, dei sessismi, dell’omofobia e della misoginia che riverberano, convergono e si fanno onda.

Kill All Normies! O: tutta colpa dei gay e delle femministe?

Mentre mi preparo una bella tisana di camomilla e alloro come la faceva la mia nonna materna Maria, mi ritrovo a Angela Nagle, una scrittrice irlandese che ha scritto Kill All Normies! un libro un po’ approssimativo sui vari movimenti online di destra nordamericani e al modo in cui è stata ripresa dal mio amico e compagno Bifo in un suo post in cui l’ha arruolata tra le evidenze del suo a tratti molto oscuro macluhanesimo. Nagle punta il dito sui movimenti femministi e LGBTQ online, attivi specialmente su Tumblr, accusandoli di produrre ‘femminismi puritani’ e ‘vittimismi gay’ e di avere letteralmente provocato l’ascesa della alt-right. Bifo unisce alla diagnosi abbastanza sospetta di Nagle, la sua tesi sulla devastazione psichica causata dall’iperstimolazione del sistema nervoso a sua volta causata dal semiocapitalismo. Il cortocircuito tra queste due tesi, confesso, mi sembra abbastanza pericoloso.

Ma davvero vorrei fermare questa ondata di ragionamenti solitari ma anche affollati. E’ l’ondata infonervosa che mi sta distruggendo il cervello e rovinando il sonno? Questo mio cervello con cui mi guadagno da vivere si sta facendo colonizzare da memi parassiti che stanno riducendo la mia capacità cognitiva? Finirò disoccupata se non ‘cancello Facebook’ come mi invita a fare un altro amico, Geert Lovink? Ma come faranno, come mi diceva ieri sera un’altra nuova amica e collega, la mediologa arabista Donatella Della Ratta, i libanesi e gli egiziani, i tunisini e gli algerini, i marocchini e i palestinesi per cui come mi racconta Facebook è diventato un medium di comunicazione fondamentale? Dobbiamo seguire lo Zeitgeist nazionalsocialista e necropolitico, metterci in salvo noi e lasciare loro ad affondare sulla barca social? Non è appena uscito su un numero speciale della rivista dell’associazione della sociologia italiana un articolo scritto a quattro mani con Stamatia Portanova sulla questione delle patologie cognitive delle nuove generazioni in cui cerchiamo di problematizzare questo comportamentalismo di ritorno, questa idea del corpo umano come terminale nervoso provvisto di uno scarso capitale di attenzione e soggetto alla colonizzazione infosemiotica? Non ci siamo confrontate con Roberta Pompili, di cui abbiamo ripreso un post sul fascismo molecolare su questo blog,  sul modo in cui è piuttosto la scuola che non riesce a seguire e investire in nuovi metodi che liberino le nuove intelligenze che pur vediamo si stanno formando con grandi potenzialità nel paradigma dell’interconnessione? È la rete o la scuola che sta fallendo le nuove forme di intelligenza che si sviluppano?

Una piacevole sensazione di rilassamento: pensieri sparsi sull’ecologia politica intersezionale

La camomilla e l’alloro stanno facendo effetto e finalmente mi comincio a rilassare e piacevolmente mi ritorna in testa la giornata sull’ecologia politica a cui ho partecipato sabato a Napoli con il suo eterogeneo e vitale assemblaggio di corpi e cervelli organizzato da Nicola Capone e istigato da Marco Armiero e Stefania Barca, intellettuali napoletani diasporizzati tra la Svezia e il Portogallo dove sviluppano le loro ricerche su questi temi. L’idea di una politicizzazione dell’ecologia, di un ripensamento della politica a partire da un pensiero ecologista planetarizzato di matrice intersezionale, marxista, postcoloniale, a transfemminista, mi è sembrato un’indicazione di metodo in grado di leggere meglio quello che sta succedendo e di aprire un minimo di orizzonte di futuro. Se l’ecologia politica include anche l’ecologia mentale (alla Gregory Bateson o Felix Guattari) diventa importante capire qual è la dimensione ecologica specifica di questo modello social. Anna Fava, filologa napoletana ed ecologista politica, mi manda due bellissimi articoli degli anni 40 di Leo Spitzer sulla filologia della parola ‘ambiente’ (politicizzata ci aveva già detto Laura Guidi dal femminismo in primis da Rachel Carson nel suo famoso Primavera silenziosa). Il termine ambiente, mi conferma, è sinonimo di medium già in Newton, ma la sua storia pre-politicizzazione ecofemminista va da Anassimene a Netwon e Taine (per il quale l’ambiente sociale produceve il ‘vizio e la virtù’ come il ‘vetriolo’ e lo ‘zucchero’) e oltre.

Penso a come il cosiddetto modello di ‘estrattivismo dei dati’, di cui pure si parla in un ricco e recente volume (Datacrazia) che il curatore Daniele Gambetta mi ha donato, mette in circolazione le forze ctoniche e territoriali dell’energia del petrolio consumato dai servers, ma anche tutti i giacimenti di senso comune depositati da una storia centenaria – e quanta tossicità c’è anche lì dentro! Diceva Antonio Gramsci, in una citazione molto usata da Stuart Hall, che la cultura è stratificazione della memoria storica – un vero e proprio giacimento di idee e opinioni, modi di vivere, di comportarsi e di vedere il mondo depositati dalla storia, un archivio sociale inconscio e diffuso di tutto quello che è stato detto e pensato. L’estrazione dei dati operata dai social attraverso lo strumento della rete sociale o grafo sociale è proprio su questi giacimenti. Nei termini che abbiamo ereditato dal materialismo storico, i media sociali costituiscono il motore di una messa al lavoro che è anche una lavorazione, valorizzazione e circolazione di questo archivio, aggiungendo ad esso tutto quello di nuovo che lo spirito ricombinante della ‘forza lavoro’ può aggiungere. – come Roberto Ciccarelli ci ricorda nel suo bel libro di quest’anno. Quindi è vero mette in circolo tossicità varie, ma include e permette anche possibilità di una riattivazione della memoria delle resistenze popolari come quelle tentate dal progetto Cubotto di cui pure Alessandra Cianelli ci parlato su questo blog (bellissime le immagini che Alessandro Gagliardo ha mostrato al mio corso dello sciopero delle donne di Paternò negli anni 80!). È questo archivio, in parte attuale, cosciente e indicizzato e in parte virtuale, inconscio e pieno di tracce mnemoniche, che i media sociali trasformano in giacimento e fonte di dati, valorizzandolo attraverso il commercio finanziarizzato di dati. Le due tossicità, quella dei giacimenti culturali e quella dei giacimenti di petrolio stanno provocando una catastrofica convergenza. Mentre conosciamo ormai gli effetti dello sfruttamento dei giacimenti di petrolio, dobbiamo ancora fare i conti su come interi giacimenti di affetti, credenze e opinioni depositati da una storia violenta sono stati messi in circolazione, rivelando un terreno sociale malato da tempo, mai veramente bonificato dai postumi della biopolitica fascista e nazionalista dove gli altri devono morire perché ‘noi’ possiamo vivere. Il classico linguaggio della sinistra, e su questo Nagle può avere anche ragione, non fa presa su questo terreno, viene percepito come supponente, presuntuoso, moralista. Forse è come un rimedio che non funziona più, che è stato neutralizzato dalle mutazioni del patogene? Forse perché le tecniche che servono a bonificare un terreno sono diverse da quelle che hanno innestato la rivoluzione d’Ottobre, e più simili a quelle che servono a ‘liberare’ un luogo abbandonato e riempirlo di nuova vita sociale e non solo, nei lunghi anni in cui non è più tempo di scassare e non c’è un bisogno immediato di difendersi, là dove le comunità consolidano legami affettivi e si aprono, là dove i luoghi vengono riparati e ritornati alla vitalità di nuovi e imprevedibili usi?

Prendiamo sonno (sognando strane parentele…)

Invece che additare i femminismi come la matrice del puritanesimo che ha provocato l’ascesa dell’alt-right, sarebbe forse il caso di studiare e imparare dal pensiero femminista, postcoloniale e queer e dalla sua capacità di arricchire sia il materialismo storico che i contemporanei neomaterialismi. Nel suo ultimo volume, commentato su questo blog da Lidia Curti e Federica Timeto, Donna Haraway per esempio ci spiega come è necessario fare i conti con la catastrofe ambientale imminente che sarà anche, come nei più cupi romanzi di Octavia Butler, una catastrofe sociale e politica. Come ci suggerisce Donna Haraway, bisogna stare attente a due posizioni che stanno diventando dominanti: una ci dice che si troverà una soluzione tecnologica anche a questo (come Facebook quando ci dice che basterà sistemare gli algoritmi, e le bolle, le fake news e la guerra social scompariranno o come i commercianti della green economy); l’altra è quella che ci dice che è troppo tardi, che non si può fare più niente e che non vale la pena darsi da fare. ‘C’è una linea sottile tra il riconoscere la serietà del problema e cedere al futurismo astratto e i suoi affetti di disperazione sublime e la sua politica di sublime indifferenza’ ci dice Haraway. Rimanere col problema e nel problema è molto più vitale, e ci richiede, continua, di continuare a lavorare e giocare, tessendo nuovi legami e formando strane e improbabili parentele o s/famiglie. Come Foucault ci ha suggerito: la resistenza non può essere l’immagine rovesciata del potere, ma deve essere più intelligente e più inventiva di quest’ultimo. Come nello sforzo di bonifica delle terre avvelenate dal biocidio, come nello sforzo di riparare dei beni comuni abbandonati e costruirci dentro comunità vitali e aperte, bisogna pensare a lungo termine e insieme. Inventare nuovi modi di vivere e costruire legami, prenderci cura dell’umano e del non umano, pianificare e lasciarsi sorprendere dall’imprevisto, difendersi, ma anche giocare…

Finalmente, forse, grazie alla tisana di mia nonna Maria e ai pensieri istigati in me da tutte le emozionanti intelligenze che ho la fortuna di aver incontrato, senza Tavor e affini, comincio davvero a prendere sonno. I tempi sono oscuri ma anche lunghi, il riposo è difficile ma necessario e domani rimane sempre il tempo dell’apertura a nuove possibilità.

Postcoloniale, Queer e Femminista: traduzione della prefazione di Denise Ferreira Da Silva ‘Toward a Global Idea of Race’ 1 Marzo 2018, ore 16.30

Dopo il seminario dell’8 febbraio dedicato a Critique de la raison negre di Achille Mbembe, il 1 marzo 2018 alle ore 16.30 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, si terrà il secondo appuntamento del ciclo di seminari ‘Postcoloniale, Queer e Femminista: Percorsi di lettura per una vita nonfascista‘ organizzato dalla Technoculture Research Unit (Centro di Studi Postcoloniali e di Genere, Università L’Orientale). Insieme a Silvana Carotenuto e Claudia Bernardi, parleremo di un altro saggio di filosofia nera, cioè il volume della filosofa e teorica afrobrasiliana Denise Ferreira da Silva Toward a Global Idea of Race (Minnesota University Press, 2007)

Toward a Global Idea of Race è un’archeologia del sapere che colma in maniera necessaria e acuta quell’enorme vuoto nella critica foucauldiana che riguardava il rapporto tra l’emergere dell’Uomo come figura del soggetto e l’individuazione dei suoi Altri sulla base di quello che Da Silva chiama ‘l’arsenale simbolico del razziale’. Da Silva parte dunque dal problema costituito dal fatto che la ‘morte del soggetto’ o dell’uomo, annunciata dal pensiero postmoderno e proseguita nella teorizzazione del postumano, non ne ha provocato la scomparsa. Per Da Silva, il ‘fantasma’ del soggetto, cioè di quella costruzione del soggetto postilluminista che incarnava i principi di universalità e auto-determinazione, continua a infestare il presente con i suoi strumenti e con il materiale usato originariamente nel suo assemblaggio. Lungi dal costituire un elemento che arriva dopo la costituzione del soggetto post-illuminista e degli strumenti della ragione universale, e che sarebbe definito esclusivamente dalla sua ‘esclusione’, il razziale definisce dall’interno la differenza tra il soggetto libero e auto-determinato (che lei chiama ‘trasparente’) e quello che invece è in qualche modo sempre oggetto del sapere e soggetto alle leggi della (sua) natura.

In un serrato confronto con la filosofia moderna, le scienze umane e sociali, gli studi postcoloniali e le teorie critiche sulla razza, Ferreira insiste che il razziale costituisce il dispositivo discorsivo e scientifico principale attraverso cui il soggetto europeo postilluminista si è costituito la sua libertà (auto-determinazione e trasparenza o invisibilità) e che per smontare quello che lei definisce l’arsenale della razza bisogna confrontarsi con il sapere scientifico e non solo con il discorso storico. Se oggi appunto il sapere scientifico (pensiamo all’uso dei Big Data per produrre nuove mappe del sociale e trovare nuovi ‘leggi’ che lo determinano) è egemone rispetto a quello storico (associato con le inutili scienze umane), e se inoltre le nuove macchine computazionali che producono l’infrastruttura tecnosociale contemporanea incarnano il diventare processuale della ragione (come software e computazione), allora il focus di Da Silva sulla scienza e sulla ragione ci sembra fondamentale.

Per Da Silva,  il nomos produttivo (cioè la ragione in quanto principio regolatore del mondo che ho sostituito il volere divino e la magia) ha risposto al problema di come difendere il soggetto umano dalla minaccia di essere determinato dall’esterno da leggi scientifiche rendendo questo soggetto da un lato trasparente (non problematizzato, invisibile) e dall’altro costituendo uno spazio globale in cui distribuire i popoli che invece sono soggetti alla determinazione delle leggi della ragione universale. I discorsi razziali che circolano sulla rete testimoniano il modo in cui ancora il globale rimane lo spazio della differenza razziale (sotto il nome di differenza culturale) diviso tra soggetti auto-determinati e moralmente superiori (europei e bianchi) e soggetti razzializzati. I soggetti razzializzati sono sempre moralmente e socialmente (culturalmente) sospetti nella misura in cui a loro si offre l’opzione odi diventare completamente come ‘noi’ (assimilarsi oppure ‘essere obliterati’ secondo Da Silva) o rimanere segregati nelle ‘loro’ regioni del mondo o quartieri (ghetti e banlieu) secondo quella che Da Silva, nella sua analisi della sociologia delle relazioni razziali della scuola di Chicago, chiama la ‘sociologica dell’esclusione”. E allora è un caso che al primo Global Community Summit di Facebook dedicato ai gruppi e ai loro amministratori non ci siano le iniziatrici del movimento Black Lives Matter (Patrisse Cullors, Opal Tometi, e Alicia Garza)?

E’ questa socio-logica inoltre che spiega per Da Silva la sistematicità dello sterminio dei neri e degli scuri di pelle (quelli che in inglese si chiamano i black and brown people) come un effetto della differenza culturale e razziale, e che catalizza lo shock al pensiero prodotto dall’immagine seriale e ripetuta del corpo nero (maschio e giovane) che cade sotto i colpi da sparo della polizia.. Quest’immagine che nella sua ripetitività ha scatenato negli Stati Uniti il movimento #blacklivesmatter si trova non a caso anche in un altro importante saggio della critica nera e femminista contemporanea, In the Wake: On Blackness and Being di Christina Sharpe, in cui la questione del trauma originario del middle passage ma anche di tutti i successivi lutti e morti diventa centrale. All’inizio dell’archeologia del razziale assemblata da Da Silva, non troviamo più la rappresentazione pittorica dell’emergere del soggetto moderno, come ne Las Meninas di Diego Velasquez nelle prima pagine d Le Parole e le cose di Foucault, ma la serialità di un corpo nero o scuro che cade sotto i colpi di pistola e del suo dialogo (immaginario) con i poliziotti che lo uccidono. Da Silva ci chiede di soffermarci su queste domande: cosa significa pensare la nascita della modernità e la morte del soggetto a partire dal razziale come significante della differenza umana e costitutivo dello spazio globale? Perché la nozione di ‘differenza culturale’ come sostiene Da Silva, non ha fatto che replicare gli effetti del razziale (la trasparenza dell’occidente e l’affettabilità dei suoi altri?) Perchè i soggetti non-trasparenti (cioè soggetti a una determinazione esterna) sono sistematicamenti preclusi dalla presunta universalità del diritto? E inoltre, nelle parole di Da Silva, come razionalizza e spiega il sapere sociale scientifico l’omicidio continuo della gente di colore?

A seguire proponiamo dunque una breve traduzione (a cura dell’autrice di questo post) delle prime pagine di Toward a Global Idea of Race invitando chi ci legge e chi può a raggiungerci all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli l’1 Marzo alle ore 16.30. Vi invitiamo anche a rileggere la traduzione di Beatrice Ferrara di ‘Differenza senza Separazione’ di Da Silva sempre su questo blog, dove la ‘differenza culturale’ (per Da Silva il nome contemporaneo per la differenza razziale) viene affrontata dal punto di vista delle concezioni del tempo e dello spazio della fisica newtoniana, della teoria della relatività e della fisica quantistica – proponendo che concetti come ‘nonlocalità’, ‘incertezza’ e ‘entanglement’ possono rappresentare nuovi indicatori poetici per ripensare la differenza oltre la separabilità.

Prefazione: Prima dell’evento

La nostra generazione è morta quando i nostri genitori sono nati

BRUNO, MASCHIO NERO, ETA’ 18 (META’ ANNI 90)

Quel momento che cade tra il rilascio del grilletto e la caduta di un altro corpo nero, di un altro corpo scuro, e di un altro ancora… infesta questo libro. Che si può fare? Catturare questo momento e mentre si ricorda, ri-significare e ri-configurare quello che si trova a monte di questi momenti elusivi. Forse, se si formulano delle domande o nomina un problema? Che tipo di spiegazioni sono state messe insieme? Quando è diventato scontato, cioè una verità scientifica, un fatto di esistenza globale, che le generazioni sono morte a un certo punto nei primi anni 60? Come mai così tante generazioni sono morte mentre io nascevo? Chi è morto? Perché? Ci sono troppe risposte a queste domande… Ascoltami… leggimi…

Sono morto.

Sei giovane e nero. Vivi in un quartiere dove il crimine prospera. Togliamo le armi dalle strade, arrestiamo pericolosi criminali. Succede che vivi in un posto che ha il tasso più alto di omicidi e stupri. Noi abbiamo lavorato bene. Ci siamo avvicinati al tuo palazzo, ci sei sembrato sospetto; ci siamo fermati, siamo usciti dalle nostre macchine con le nostre pistole, e ti abbiamo detto di alzare le mani. Abbiamo sparato. Siamo la polizia. Siamo stati addestrati molto bene a fare il nostro lavoro.

Sono un immigrato. Lavoro. Ho i miei documenti. Vivo qui perché costa poco. Appartengo a un’ importante famiglia africana. Perché mi avete ucciso?

Sei nero, sei maschio e sei giovane. Non ne sappiamo niente di importanti famiglie africane. In Africa i neri vivono nelle capanne, cacciano e raccolgono durante il giorno, mangiano e cantano la notte, e si ammazzano tutto il tempo. Lì non c’è domani. Stai meglio qui. Perché stai morendo? Tu sei nero e giovane. Sei in carcere o in libertà condizionata. I liberali dicono che l’America è una società razzista. Dicono che i neri e gli scuri di pelle sono o totalmente senza lavoro o concentrati nei lavori peggio pagati; dicono che i datori di lavoro non assumono i giovani maschi neri. Voi siete il sottoproletariato: gente senza futuro, gente che non si sa comportare perché le istituzioni – famiglie, imprese, chiese e così via – hanno lasciato i ghetti insieme alla classe media che ha approfittato delle discriminazioni positive per trovare lavori migliori e posti migliori in cui vivere. Tu spacci. Tu sei uno stupratore. Tu sei un criminale. Tu potresti persino essere un terrorista. Noi ti cacciamo dalle strade. Se non ti arrestiamo, ti spareremo, con tutti i proiettili necessari.

Io sono un Fulani.

Sei in America adesso. Questa non è l’Asia o l’Africa. Qui è diverso. Alcuni radicali dicono che la gente come te non ha possibilità. Tu sei nero. Non ci piacciono i neri. Dicono che l’America è la terra della supremazia bianca. Non è solo che non ti assumiamo, ma anche che tu ci aiuti a creare un legame tra gli Americani bianchi. Tu fai funzionare il sistema.

Ma se io faccio tutto ciò… perché mi uccidete? Se mi tenete semplicemente nel ghetto, se non ho una scuola decente, un lavoro decente, diritti sociali… Voi avete tutte le risposte. Voi mi conoscete. Perché avete bisogno di uccidermi? Non vi basta essere bianchi?

In questo libro mi confronto con l’apparato di sapere – gli strumenti scientifici del sapere razziale – che produce questa domanda… Contro l’assunto che l’elemento storico costituisce il solo contesto ontologico, esamino il modo in cui gli strumenti dei progetti scientifici ottocenteschi hanno prodotto la nozione del razziale che istituisce il globale in quanto contesto ontoepistemologico – un gesto violento e produttivo necessario a sostenere la versione post-illuminista del Soggetto come la sola cosa esistente che si auto-determina. L’arsenale dei saperi che in questo momento governa la la configurazione globale (giuridica, economica, e morale) istituisce l’assoggettamento razziale mentre presuppone e postula che l’eliminazione dei suoi ‘altri’ è necessaria per la realizzazione dell’esclusivo attributo etico del soggetto, cioè l’auto-determinazione.

Nel corso di questo libro produco uno scavo della rappresentazione moderna mentre cerco di afferrare il ruolo produttivo che il razziale gioca nelle condizioni post-illuministe. Ogni parte del libro descrive un momento particolare di questa impresa. In primo luogo, considero il contesto di emergenza, e l’irrisolto problema ontologico che infesta la filosofia moderna dal primo diciassettesimo fino al primo diciannovesimo secolo, cioè proteggere l’uomo, l’essere razionale, dai poteri vincolanti della ragione universale. Questa lettura rivela che tutto ciò è stato fatto scrivendo il soggetto come una cosa storica e auto-determinata – una soluzione temporanea consolidata solo alla metà dell’Ottocento, quando l’uomo è diventato un oggetto del sapere scientifico. Secondo, la mia analisi del regime di produzione del razziale mostra come le scienze umane e sociali hanno affrontato questo problema ontologico fondamentale usando la differenza razziale come un attributo costitutivo dell’umano. Questa soluzione istituisce l’enunciato più basilare dell’assoggettamento razziale: mentre gli strumenti della ragione universale (le “leggi della natura”) producono e regolano le condizioni umane, in ogni regione globale, essa stabilisce (moralmente e intellettualmente) diversi tipi di essere umani, nominalmente, il soggetto auto-determinato e i suoi altri determinati da forze esterne, coloro le cui menti sono soggette alle loro condizioni naturali (nel senso scientifico). Precisamente questo enunciato, sostengo, sottende l’argomento basilare della sociologia delle relazioni razziali, cioè, che le cause della subordinazione degli altri d’Europa risiede nelle loro caratteristiche fisiche e mentali (morali e intellettuali) e il postulato che la soluzione al problema dell’assoggettamento razziale richiede l’eliminazione della differenza razziale. Infine, la mia analisi dei suoi effetti di significazione mostra come questo enunciato e gli strumenti scientifici che lo sostengono informano la costruzione prevalente dei soggetti statunitensi e brasiliani. In questi scritti, gli strumenti storici e scientifici producono contemporaneamente il soggetto nazione come un essere auto-determinato mentre circoscrivono la regione morale subalterna (altro-determinata) abitata dai membri non-Europei della comunità nazionale.

Dietro questo libro c’è il desiderio di comprendere perché e come dopo un secolo di confutazioni, il razziale sembra governare incontrastato la configurazione globale contemporanea. Spero che la mia critica della rappresentazione moderna dimostri che la forza politica del razziale risiede nel fatto che costantemente (ri)produce l’enunciato fondativo ontologico moderno. Ogni uso del razziale consistentemente articola l’attributo speciale dell’uomo, l’auto-determinazione, mentre fa esistere e contemporaneamente disconosce quello che significa altri-menti, annunciando la sua necessaria eliminazione. Poiché la spiegazione prevalente dell’assoggettamento razziale segue anch’essa questo mandato ontologico, non ci sorprende che oggi è usata in spiegazioni che sminuiscono le morti violenti della gente di colore, mentre un’infinita evidenza scientifica sociale le rende non solo scontate (in quanto risultato dell’esclusione giuridica e economica) ma anche giustificate (in quanto l’esito previsto della traiettoria della coscienza altro-determinata). Sento la domanda: come giustifica il sapere sociale scientifico l’omicidio della gente di colore? La mia risposta è: come spiega questo omicidio l’arsenale delle scienze sociali? Nelle prossime pagine offro una risposta temporanea a tutto ciò.

Tecnoculture postcoloniali, queer e femministe: ciclo di seminari all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

     ‘Quando si parla di Africa, la corrispondenza
tra parole, immagini e cose non importa
quasi per niente.
Non è necessario che il nome corrisponda
alla cosa o che la cosa risponda al suo nome’

 

‘Chi vorrebbe essere un Negro o essere
trattato come tale?’
(Achille Mbembe, Critique de la Raison Negre, 2013)

 

Uno dei video cosiddetti virali più discussi e citati nella new media theory contemporanea è certamente Kony 2012, definito all’epoca ‘il video più virale di tutti i tempi’. Kony 2012 è un cortometraggio di trenta minuti che, dopo esser stato caricato su YouTube e poi su Vimeo tra la fine di febbraio e inizi di marzo 2012 da una ONG, Invisible Children, ha accumulato 93 milioni di visualizzazioni nel il primo mese dopo la pubblicazione, attirando l’attenzione di celebrità come Oprah Winfrey, e causando il il crollo psichico del suo regista, il 33enne James Russell, arrestato nel marzo 2012, nel pieno della popolarità del video, mentre correva nudo nel traffico di San Diego, California.

Kony 2012 si presentava come un video sul conflitto pluridecennale in Uganda e chiedeva agli utenti che lo avessero visualizzato di ‘prestare attenzione fino alla fine’ per partecipare entro una determinata data alla cattura di un criminale di guerra, l’ugandiano Joseph Kony, leader della Lord’s Resistance Army (LRA) – un’organizzazione accusata di aver compiuto numerosi efferati massacri e di rapire i bambini per costringerli a diventare soldati, arrivando persino a convincerli a uccidere i loro genitori. Sulla base di queste accuse, Kony era stato condannato per crimini di guerra e contro l’umanità dalla Corte penale internazionale dell’Aia. Nel video, lo statunitense Russell racconta del suo incontro con i ragazzini vittime di Kony in Africa e del suo desiderio di porre fine ai crimini di Kony per amore del figlio e per la sua amicizia nei confronti di uno dei bambini rapiti da Kony e incontrato in Africa.

Sia Wendy Hui Kyong Chun che Jack Bratich, trattando del fenomeno Kony 2012, hanno sottolineato il modo in cui il video non ha praticamente niente a che fare con l’Uganda, come non fornisca nessun contesto storico e politico per capire il conflitto che vuole rappresentare, e come, nel migliore dei casi, questo video rappresenti l’ennesima performance del vecchio ‘fardello dell’uomo bianco’, o nel peggiore, una specie di incitazione al linciaggio dell’Uomo Nero. Per Bratich, K-12 è stato essenzialmente una ‘caccia all’uomo distribuita e globale, un esperimento nascente distopico che ricorda Running Man (in italiano, L’implacabile, 1987) e La Fuga di Logan (1978), ma aggiornato per la generazione ‘Hunger Games’ in cui la spettorialità diventa partecipazione e intervento’. Per questi critici, dunque, Kony 2012 non ha niente a che fare con l’Africa, ma è stato un modo di mettere in atto e immaginare il potere dei social networks, cavalcavando l’onda delle grandi rivolte nordafricane del 2011 e del più modesto ma significativo movimento di Occupy Wall Street.

Questa rappresentazione del potere dei social media rimanda a quella che potrebbe essere definita una nuova ‘ragione universale’, incarnata dai giganti dei media sociali, per cui l’umanità è naturalmente e intrinsecamente animata da un desiderio di connettersi. Ci sembra importante sottolineare come questo universalismo dei media sociali rappresentato da Kony 2012 abbia ancora una volta come oggetto un Uomo Nero da catturare, dei bambini neri da salvare, e un’Africa, che, come sottolinea ripetutamente il filosofo postcoloniale camerunense Achille Mbembe nel suo Critique de la raison nègre (2013), rimane per l’Occidente ‘il simulacro di un potere oscuro e cieco’ verso cui si può provare al massimo ‘senso di colpa, risentimento e pietà’ ma mai ‘un richiamo alla responsabilità o alla giustizia’.

Estendendo la critica che Mbembe muove alla ‘raison nègre’ (la ragione che ha come oggetto l’Africa e l’Uomo Nero e i processi di soggettivazione anche radicali innescati in coloro che sono oggetto di questa ragione) verso il nuovo orizzonte della comunicazione ipersociale, le notizie sull’Africa ancora oggi sono, per definizione, bufale o fake news: ‘il termine Africa’, sostiene Mbembe ‘si riferisce a una forma vuota che, in senso stesso, sfugge ai criteri di verità e falsità… Tutto quello che importa è il potere della falsità’. Non è l’esistenza fisica di Joseph Kony ad essere falsa, ma la cornice narrativa ad essere basata su quella possibilità, accordata all’Africa in quanto oggetto di un sapere e potere coloniale, di poter parlare senza doversi preoccupare di conoscere di quello di cui si parla e senza neanche la curiosità di avvicinarsi davvero. In questo senso forse l’attuale cultura di rete eredita questa peculiare modalità di conoscere istaurata dal colonialismo, come pure, quella che Mbembe definisce come la tendenza occidentale a pensare la relazione sociale attraverso la somiglianza, piuttosto che attraverso ‘la co-appartenenza a un mondo comune’.

 

Il giorno 8 febbraio, tra poco più di una settimana, si terrà presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, il primo di una serie di cinque incontri organizzati dalla TRU e dal Centro Studi Postcoloniali e di Genere dell’Università ‘L’Orientale’, con il titolo Postcoloniale, Queer e Femminista: percorsi di lettura per una vita non fascista, dedicato appunto a Critique de la raison négre di Achille Mbembe. Il ciclo di seminari proseguirà poi in un percorso che ci porterà a discutere della ricerca di Denise Ferreira Da Silva, di Beatriz/Paul Preciado, di Donna Haraway e infine di José Esteban Munoz. La serie di incontri prevede delle tavole rotonde su cinque volumi recenti di voci note e meno note in Italia di quel movimento intellettuale (postcoloniale, queer, femminista, anti-razzista etc) che attraversa le cosiddette scienze umane e sociali con particolare forza almeno a partire dagli anni sessanta producendo un conflitto con la neutralità dei saperi e delle discipline. Insieme ad Antonia Anna Ferrante, siamo partite dal desiderio di aprire uno spazio di discussione in città attorno al pensiero postcoloniale, queer e femminista contemporaneo, scegliendo una serie di volumi e titoli capaci di innescare discussioni per noi necessarie anche a produrre un modo diverso di studiare e criticare la cultura di rete, i media digitali e la ragione computazionale.

Il laboratorio, che può essere seguito come parte del percorso di studi da studenti del corso di laurea magistrale in Lingue e Comunicazione Interculturale in area Euromediterranea del “L’Orientale”, ma che è aperto al pubblico in generale, è stato pensato come una serie di conversazioni iniziate e animate da una serie di relator* intern* al Centro Studi Postcoloniali e di Genere per la maggior parte, ma, grazie a un finanziamento del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Orientale, anche con qualche partecipazione esterna. La politica di austerity che inesorabile si è abbattuta specialmente sulle università sudalterne ci impedisce di invitare direttamente gli autori/autrici/autoru di questi saggi, ma in questo vogliamo anche vedere un’opportunità di parlare di libri e attraverso i libri anche in assenza della voce autoriale, permettendo a questo vecchio, amato medium di coinvolgerci con le sue specifiche lentezze e velocità di pensiero. Non è necessario aver letto i volumi per partecipare alla conversazione, ma è necessaria la curiosità e l’apertura mentale.

Sebbene dunque i vari incontri siano introdotti da docenti e ricercator* universitari, ci aspettiamo che questo sia, appunto, solo l’inizio di conversazioni che coinvolgano anche chiunque si senta di voler condividere con noi un percorso filosofico e teorico, per citare la famosa affermazione di Michel Foucault, ‘non-fascista’. Nella misura in cui il rapporto coloniale italiano con l’Africa ci interpella direttamente, il senso di ‘non-fascista’ per noi appare letterale, nel senso di una rottura con l’immaginario razzializzato che ancora oggi continua a pervadere il rapporto tra italiani, l’ ‘Africa’ e l ‘ ‘Uomo Nero’. La critica della ragion ‘nera’ ci interpella a partire proprio dalla nostra specifica varietà di ‘nero’ politico.

Siamo felic* che la nuova gestione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli dopo la scomparsa del compianto avvocato Marotta, abbia accolto e sostenuto questa iniziativa e la ringraziamo nella persona di Fiorina Li Vigni con la preziosa mediazione di Nicola Capone.

Introdurranno la conversazione sul volume di Mbembe Rossella Bonito Oliva (docente di Etica Interculturale e Filosofia Morale), Iain Michael Chambers ( Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo), e Miguel Mellino (Studi Postcoloniali e Relazioni Interetniche e Antropologia Culturale)

Introduzione e ringraziamenti di Giampiero Moretti (Direttore Dipartimento di Scienze Umane e Sociali) e di Tiziana Terranova e Anna Antonia Ferrante (TRU/Centro Studi Postcoloniali e di Genere, curatrici dell’evento)

 

CALENDARIO

 

Giovedì 8 febbraio 2018, ore 16.30

Saluti: Giampiero Moretti (Direttore Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, L’Orientale)
Introduzione al ciclo di seminari: Antonia Anna Ferrante e Tiziana Terranova

Discussione: Critique de la  raison négre  (2013) di Achille Mbembe
con: Rossella Bonito Oliva, Iain Chambers, Miguel Mellino


Giovedì 1 Marzo 2018, ore 16.30

Toward a Global Idea of Race (2007) di Denise Ferreira Da Silva
con: Silvana Carotenuto, Tiziana Terranova, Claudia Bernardi


Giovedì 22 marzo 2018, ore 16.30

Testo Tossico (2008) di Paul (Beatriz) Preciado
con: Antonia Anna Ferrante, Stamatia Portanova, Alessia (Leo) Acquistapace


Giovedì 12 aprile 2018, ore 16.30

Staying with the Trouble (2016) di Donna Haraway
con Lidia Curti, Tiziana Terranova, Marina Vitale, Federica Timeto


Giovedì 3 maggio 2018, ore 16.30

Cruising Utopia: the Then and There of Queer Futurity (2009) di José Esteban Muñoz
con: Antonia Anna Ferrante, Marina De Chiara, Roberto Terracciano, Renato Busarello

 

Location: Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,
Palazzo Serra di Cassano, Napoli – Via Monte di Dio, 14

 

 

 

Sulla necessità di un archivio dei movimenti sociali: presentazione del software Cubotto a L’Asilo, Napoli

Venerdi 24 dicembre alle ore 20.00 si terrà presso i locali de L’Asilo Filangieri a Napoli l’Assemblea per l’archivio Cubotto, il progetto di software open source prodotto e distribuito da Genio Collettivo che permette di condividere grandi archivi di file video e immagini con possibilità inedite di accesso collettivo al montaggio.

Il tema dell’archivio è stato uno dei temi centrali del lavoro di ricerca del Centro Studi Postcoloniali e di Genere a cui la TRU informalmente afferisce e che Alessandra Cianelli in particolare ha sviluppato in chiave artistica attraverso il suo lavoro sull’archivio coloniale nel progetto ‘Il paese delle terre d’oltremare’, che mette in relazione l’archivio coloniale familiare (un nonno morto in Libia) con la struttura monumentale della Mostra D’Oltremare a Napoli voluta da Mussolini per celebrare il colonialismo italiano. Nel futuro prossimo abbiamo in programma di intervistare Alessandra Cianelli e Alessandro Gagliardo sulla sperimentazione che l’archivio distribuito con capacità di montaggio che il Cubotto permette, per una moltiplicazione dei racconti che sfugga e ecceda le macchine dei Big Data. La suggestione di Alessandro Gagliardo circa la possibilità di collegare funzionalità blockchain (il registro distribuito che à alla base di Bitcoin) al Cubotto e il suo coinvolgimento nella rete Faircoin saranno anch’esse oggetto di riflessione.

Pubblichiamo volentieri qui sotto il comunicato di Alessandra Cianelli (membra di TRU) e di Alessandro Gagliardo (Malastrada/Genio Collettivo) che annunciano l’assemblea all’Asilo domani  per iniziare una sperimentazione con il Cubotto che lavori l’archivio video dei movimenti sociali a Napoli per generare una proliferazione di storie singolari e collettive. A seguire anche un contributo di Alessandra Cianelli ‘Discorso sulla necessità di un archivio (Gli sguardi amorosi riaprono gli occhi dei dormienti chiusi dal passato insolente)’, ripreso dal suo blog.

Comunicato_Manovra Napoli_ Cubotto.org

Costruire un archivio a Napoli. Un archivio dei movimenti sociali, ma anche delle storie comuni, dei ricordi, delle lotte, della produzione culturale. Mettere insieme una storia collettiva.
Raccoglierla per non disperderla, per condividerla e trasportarla nel tempo. Ma anche per farla rivivere, permetterle di raccontare ancora e ancora. Fare tutto ciò attraverso un software open source (cubotto.org), in una rete confederata di archivi costruita dal basso, internazionale, su di una infrastruttura propria
non affidata alle grandi compagnie dei big data.
La Storia è fatta di racconti; l’Archivio con la A maiuscola è fatto di racconti scelti  che fanno la cultura ovvero le idee e il pensiero dominante di un dato momento. E’ sulla tela di questi pensieri dominanti che si intrecciano politica ed economia. Solo alcuni racconti tra tanti, selezionati scientemente, costruiscono la Storia.
Solo alcuni racconti sono l’Archivio su cui si siede il Dominus, quello che muove i fili della sceneggiata spettacolare del presente continuo, investendosi dell’Autorità (ancora una A maiuscola) di decidere per gli altri. Costruire un altro Archivio, aprendo gli archivi di quello che è scartato, escluso dalle narrazioni dominanti, può  consentire il racconto di altre storie, costruire altri pensieri, immaginare altre culture. Perciò lavorare l’archivio, farlo, aprirlo, metterlo in discussione  è un azione culturale e politica radicale.


‘Discorso sulla necessità di un archivio (Gli sguardi amorosi riaprono gli occhi dei dormienti chiusi
dal passato insolente)’

di Alessandra Cianelli

Una interrogazione sul senso dell’archivio è in senso più vasto e più sottile un discorso sulla memoria. Iniziamo dalla pratica artistica con l’intento di irrompere, provocare o evocare l’Archivio, non solo di raccogliere e mettere insieme memorie e memorabilia, per tentare di eluderne la natura mortuaria e monumentale. Il digitale, la rete, la dimensione 2.0, hanno facilitato l’emersione e l’accesso potenziale a un numero illimitato di archivi, ma ogni singolo frammento di questo ARCHIVIO venuto alla luce è condannato, potenzialmente, contestualmente a scomparire nell’oblio della rete.
La pratica di sperimentazione è non solo nella modalità di apertura, irruzione nell’archivio, ma anche nella strutturazione di un archivio potenzialmente, possibilmente, se ci riusciamo, diverso. Tentiamo di provocare una teoria che si sprigiona dalla pratica. Che senso ha raccogliere pezzi di ARCHIVIO? 1, 2 o migliaia di lettere del Nonno Coloniale, fanno la differenza? In che modo confrontano la Storia? Altre storie? Archivi analogici e/o digitali?
Costruiamo il Museo delle Lettere del Nonno, poi chiamiamo gli artisti a usare quelle lettere per legittimare il Museo, consacrare l’Archivio e ridonarlo al rigor mortis della Storia e del Monumento: l’Arte torna ad essere decorativa, gli Artisti Cortigiani.
Rischiamo di praticare posizioni pericolose, diciamo cose che si espongono e si possono prestare a moltissimi fraintendimenti, di qui la necessità di costruire una rete umana, relazionale, fatta di confronti, discorsi, condivisioni.
Lanciamo queste enormi quantità di memorie affettive, piccole e grandi variabili della Storia, nel mare indifferente della rete, restituendole all’opacità dell’ininterrotta esposizione e alimentando – forse- l’ulteriore inquinamento o sovraccarico o marasma del sistema mnemonico digitale collettivo. Ne favoriamo la morte o non ne favoriamo la vita, la partecipazione alla vita; rischiamo di escluderli dalla produzione di senso collettivo della vita per la vita. Il sovraccarico o inquinamento sollecita la necessità di una ecologia dell’archivio.
Non che non sia importante tirare fuori le storie a cospetto della Storia o i Documenti che fanno la Storia. Agiamo, se possiamo, con umiltà, praticando un’ecologia della mente prima di tutto, da artefici artisti, da umani politici. L’apertura dell’archivio è la performance dell’apertura dell’archivio prima di tutto. 
Quello che resta è cenere che può senza danni riaffondare nel mare digitale o nelle profondità della memoria individuale, elaborato, digerito. Nel sistema digestivo, come nell’offerta sacrificale, il fulcro del processo è la combustione che trasforma, nutre ed elimina quello che non serve: in questo modo la pratica dell’Archivio può nutrire il futuro.
Le pratiche artistiche e politiche in questo momento si intersecano, si s-cambiano e a volte coincidono. La pratica di oggi non è quella di ieri e non sarà quella di domani. La caffettiera non si pulisce una volta per tutte, ma ogni giorno, il caffè è ogni giorno diverso. La teoria è di per se stessa una volta per tutte, fatta di parole, che si cristallizzano nella forma visiva della scrittura o nella forma del suono: usate e abusate, perdono senso, si staccano dal significato originario. Ma se si rompe la forma le parole sono il mezzo per riconnetterersi al significato che le ha sprigionate. Le teorie possono essere un altro aspetto delle pratiche e viceversa, la stessa cosa, in un’altra forma. La pratica ininterrotta della provocazione e della rottura della forma, la sua incessante, quotidiana, umile ricostruzione sempre diversa, potrebbe pro-creare una tecnologia della conoscenza che si muove ad un altro livello: quello dell’attenzione ininterrotta al fare (pensiero, parola, segno, gesto, suono, respiro). Così potrebbe emergere solo il necessario, frammenti di Archivio che riagiti nel presente diventano evidenti per quello che serve a rimettere in circolo passato e futuro…

Un populismo di piattaforma? Sul Facebook Community Summit di Chicago

Il 22 e il 23 giugno di quest’anno, cioè qualche giorno fa, si è tenuto a Chicago il primo Facebook Community Summit – un evento che segue e sviluppa il documento ‘Building Global Community’ pubblicato sulla timeline di Mark Zuckerberg a febbraio di quest’anno e commentato in questo blog. Continuo a seguire le evoluzioni di Facebook mentre lotto con la scrittura del mio nuovo libro, Hypersocial, specialmente la parte dedicata a una genealogia dei modelli del sociale incorporati nella piattaforma – e il loro rapporto con il modo di produzione organizzato dal mercato e quello concepibile a partire dai principi del comune e della cooperazione sociale. La questione del capitalismo di piattaforma (a cui sono dedicati due bei volumi in italiano appena usciti, uno di Benedetto Vecchi e uno collettivo sul Platform capitalism e i confini del lavoro a cura di Emiliana Armano, Annalisa Murgia, e Maurizio Teli) implica la sperimentazione di un nuovo modello di convergenza di governamentalità e valorizzazione economica (la messa a profitto). La mia ricerca, cioè, mi sta portando a considerare il problema dei modelli e delle tecnologie del sociale mobilitati dal capitalismo di piattaforma sia in termini di cattura del valore e della ricchezza prodotti in comune sia come modelli di governo tecnosociale che aspirano secondo me a generalizzarsi. Mi interessa come la spazializzazione del sociale che lo strutturalismo dinamico di una branca delle scienze sociali, la social network analysis, incorpora nel capitale fisso mobilizzato da una piattaforma come Facebook, ma forse da tutti i social media, costituisce il terreno su cui pensare le risposte politiche e organizzative a questa nuova situazione.

Dopo aver annunciato nella lettera ‘Building Global Community’ che Facebook avrebbe posto al centro della sua strategia di product development le comunità, cioè i gruppi, l’azienda americana convoca dunque un ‘summit’ a Chicago, invitando una selezione di quella che definisce i ‘top group admins’ per annunciare nientedimeno che il cambiamento della sua mission: la sua missione non sarà più semplicemente di rendere il mondo più aperto e connesso, ma di renderlo più ‘vicino’ attraverso gli strumenti che permettono a gruppi di formarsi ed espandersi sulla sua piattaforma. Si tratta di una mutazione interessante rispetto al modello di ‘reti personali amicali’ (amici, parenti, colleghi e conoscenze) che è stato fino ad adesso il focus del popolare sito di social networking.

A differenza delle prime conventions organizzate da Facebook (denominate F8), è interessante notare innanzitutto come la comunicazione di FB si sia spostata direttamente sul terreno della piattaforma: una lettera pubblicata sul profilo di Zuckerberg a febbraio e adesso una trasmissione live trasmessa sulla piattaforma stessa (e ripresa immediatamente da molti canali youtube). Sintetizzando il contenuto del video pubblicato sul Summit, Facebook sostiene che i gruppi costituiscono l’area della piattaforma dove si sta verificando una crescita che va al di là delle (necessariamente e tecnicamente limitate) reti di contatti personali; annuncia che ci sono 100 milioni di utenti attivi sui gruppi e che intende operare per dare ai gruppi migliori strumenti e quindi espanderli; infine sostiene che il declino dell’appartenenza a comunità tradizionali può essere bilanciato dalla creazione di comunità digitali, che divide tra ‘comunità casuali’ (non particolarmente importanti, come il gruppo dedicato da Zuckerberg al suo cane) e ‘comunità significative’, cioè gruppi che funzionano come infrastruttura sociale fondamentale, fonte di identità e riconoscimento, per chi li frequenta (per esempio quelle per giovani genitori o genitory gay).

Guardando il video, mi sembra che Facebook confermi la sua tendenza a costituirsi come uno spazio digitale che funziona in qualche modo come un nomos, cioè uno spazio su cui esercita un qualche tipo di sovranità. Il modello di sovranità che Facebook si trova ad incarnare si presenta come una sovrapposizione di modalità precedenti, ma in un una nuova configurazione. Riprendendo la classica distinzione introdotta da Michel Foucault tra sovranità, disciplina e biopolitica ci troviamo davanti a un modello di sovranità basato sulla proprietà privata (nella misura in cui servers e software sono proprietà  di Facebook, che può espellere chi vuole o modificarla a suo piacimento), su cui è basato un ordine disciplinare (il libro delle ‘facce’ si basa sull’identificazione o il nome personale, perché come ebbe a dire Zuckerberg in passato quando si è identificabili, ci si comporta meglio), ma anche e in maniera interessante il governo di una popolazione (i due miliardi di profili attivi) che genera una enorme quantità di traffico, contenuti e dati per la piattaforma, ma che è costituzionalmente sempre sul punto di ‘s/fuggire’ . Come sostiene Wendy Chun, i media digitali sono ‘media abituali’, costruiti sull’abitudine non solo come ripetizione, ma come continua crisi o shock: i social sono una abitudine che però ha bisogno di essere continuamente rotta e variata (ci dev’essere sempre qualcosa di nuovo). E’ questa combinazione di abitudine e rottura continua dell’abitudine che apre la possibilità dell’intrinseco nomadismo degli utenti – sempre sul punto potenzialmente di sfuggire alla piattaforma (per esempio nel modo in cui gli under-25 sono fuggiti da Facebook verso Whatsapp o  Instagram costringendo Facebook a riacchiapparli comprando anche queste piattaforme). Questa popolazione è sì inevitabilmente radicata nella materialità biologica dei processi della specie (si riproduce, vive, muore), ma si presenta al sovrano dei social soprattutto come insieme di identità algoritmiche, struttura dinamica di relazioni (inter-relazionalità) e flussi di condivisioni soggetti alla temporalità dell’evento (il feed). Questa struttura dinamica è il tessuto o medium o ambiente che sostiene la circolazione di quella che non possiamo più genericamente chiamare informazione. Cosa viene condiviso nei social si presenta da un lato come elementi definiti (nel senso che è possibile identificarli attraverso un numero), ma anche forze fluide e differenziate. Da un lato foto, articoli, pagine, grafici, citazioni, commenti, post, mi piace, condivisioni, luoghi, aziende, somme di denaro etc, dall’altro e contemporaneamente flussi di opinioni, idee, credenze, desideri, avversioni, affetti, attitudini, preferenze emozioni e azioni espressi con forza variabile (in modo più o meno intenso). Questa enorme circolazione di flussi di soggettivazione a cui corrispondono delle quantità sociali che chiamiamo ‘dati’ ha ormai spiazzato completamente il vecchio modello basato sul broadcasting.

Conta dunque che Facebook, che a molti è sembrato la realizzazione del vecchio motto thatcheriano ‘non esiste la società ma solo gli individui e le loro famiglie’ (a cui aggiungere adesso i loro amici), dica di volersi concentrare sulla costruzione di una ‘comunità globale’ e che i gruppi sono lo strumento più adatto allo scopo. Voglio tenere questo blog post breve, e quindi mi limito a elencare qui alcune considerazioni su questa nuova tendenza di Facebook. Devo dire che ascoltando Zuckerberg e anche dopo la lettura della lettera, ho sentito come una svolta ‘populista’ – anche se cosa significhi questo controverso termine è tutto da definire. Non ho approfondito questa intuizione ma mi ha colpito come nell’analisi del populismo delineata da Toni Negri nel suo recente intervento  al seminario sui populismi di Euronomade, Negri sostenga che il populismo implica sia l’omogeneità del ‘popolo’ che la figura di un leader – e il summit è organizzato come incontro e presa di parola dei vari leaders selezionati da Facebook che parlano a nome dei più o meno piccoli ‘popoli’ iscritti ai gruppi. Qui però è anche dove il populismo di piattaforma differisce dal populismo novecentesco identificato da Negri e si avvicina a quello più recente (pensiamo alla centralità del blog di Grillo nel movimento 5 stelle). Il leader infatti è definito secondo il modello dell’amministratore della pagina (che a sua volta deve molto a forme precedenti di virtual communities e in particolare al lavoro volontario degli amministratori delle piattaforme di giochi online). Per Zuckerberg, i gruppi vivono perché ci sono dei leaders/amministratori, il cui lavoro affettivo, relazionale, ma anche tecnico nella gestione di gruppi che possono anche sfiorare il milione di iscritti, è ritenuto responsabile della esistenza e persistenza e vitalità del gruppo. Il grande popolo globale di Facebook che si presenta nella forma di reti personali non è sufficiente di per se per costituire quella nuova grande global community, che è il sogno di ricostituire la società (post)civile all’interno del governo della piattaforma.

I nuovi poteri accordati ai leaders pure mi sembrano significativi: il potere dell’insight (una forma di intuizione) letteralmente assicurato dall’accesso a dati statistici sul gruppo (genere, età, etc, cioè le varie forme di identità algoritmica ben descritte da John Cheney-Lippold nel suo recente We Are Data) che permette di selezionare i membri da accettare; dati sulle abitudini dei membri del gruppo (a che ora postano o commentano di più); la capacità di filtrare le richieste di iscrizione, oltre che espellere e cancellare le tracce della presenza nel gruppo di soggetti molesti o non voluti; infine la promessa di permettere ai gruppi di connettersi gli uni agli altri. Mi sembra, almeno per quello che vedo, che si tratti qui di un iperpopulismo di piattaforma, che non potendosi più appoggiare alla patria o nazione, si costituisce quasi esclusivamente su due cardini: il situarsi in uno spazio ‘globale’ (quello della piattaforma che si presenta come post-nazionale) e il suo invocare l’amministratore o leader come figura pastorale in grado di tecno-governare il gruppo. Non si parla della possibilità di una condivisione della posizione di amministratore e in generale si va nella direzione opposta di quello dei grandi movimenti di piazza dei primi anni 2010, come Tahrir o Gezi e Occupy, che invece come descrive bene Zeynep Tufekci nel suo Twitter and Teargas, insistevano molto sulla mancanza di leader (anche se in maniera problematica). Tuttavia la questione del ‘leader’ nella rete e nei movimenti di reti è davvero complessa e non può essere liquidata velocemente.

Il secondo elemento che mi ha colpito è stata la selezione dei leaders e dei modelli di gruppo presenti al summit, almeno nel live feed. Quello che colpisce è che nonostante il richiamo al globale, gruppi e leader siano tutti americani, ma selezionati in qualche modo per rappresentare quello che una volta si sarebbe chiamato il ‘sociale’: c’è l’amministratore di un gruppo che ricorda la morte di una donna in un incidente causato da un guidatore ubriaco che riunisce membri che si sentono colpiti (affettati) da questo evento; l’amministratore afroamericano di un gruppo per padri neri che è anche un insegnante di scuola materna; la donna nigeriana che ha aperto e gestisce un enorme gruppo segreto di donne per parlare di temi che le riguardano; ma anche il birdwatcher e il fabbro che si rivolgono a comunità di individui con lavori o hobbies simili.. E’ interessante anche se scontato che non sia stato invitato (o forse sì ma non sono andati che sarebbe anche comprensibile) nessun leader di Black Lives Matter o del movimento Occupy o di gruppi di protesta, ma che la razza sia rappresentata dalla community leader nigeriana che abita a Chicago che ha fondato un gruppo di donne contro la violenza di genere, ma una violenza che è presentata come tra donne non bianche (le madri nigeriane che danno i pizzicotti alle figlie quando parlano troppo). Mi sembra come se questo passo di Facebook sia volto ad una ennesima traduzione tecnica (o transcodifica) del sociale volta ad accrescere la circolazione, ma anche a moltiplicare le possibilità di appartenenza in modi che tengono insieme valorizzazione economica e governo dei flussi generati da una popolazione socialmente interconnessa.

Per una di quelle coincidenze che alla fine segnano i processi di scrittura, mi ritrovo contemporeamente a leggere per la prima volta un testo del 2007 della teorica brasiliana Denise Ferreira de Silva , che si intitola Toward a Global Idea of Race. Mi attrae il testo di Da Silva per la sua insistenza sulla critica della ragione (e la sua costituzione di un soggetto trasparente, cioè che si auto-determina e si auto-regola) e per il suo uso del termine analitica della razza. Da Silva, per quello che riesco a capire, propone un concetto di globale come spazio formato dall’analitica della razza e dal soggetto trasparente, in modi che davvero risuonano per me anche con i modelli della social network analysis. La sua idea che la logica delle race relations è una logica di obliterazione del razziale, ma in senso assimilazionista, mi sembra molto rilevante al modo in cui Facebook invoca la razza solo a patto di dissolverla nell’universale. Sostituendo ai grafi dei social networks, che erano al centro delle prime presentazioni della piattaforma,  una classica mappa bidimensionale del pianeta connesso, Facebook propone una propria versione di governamentalità globale che quindi riattualizza anche l’analitica della razza.

È molto facile seguendo questo ragionamento concludere che si tratta semplicemente di abbandonare Facebook, per impedire a questa sua nuova forma di sovranità tecnologica iper-populista di produrre una nuova pacificazione e obliterazione del conflitto e delle differenze. E pur tuttavia, questa non mi sembra una soluzione. Mi sembra che il fenomeno di una piattaforma tecnosociale usata da due miliardi di abitanti ponga il problema della proprietà (del capitale fisso) e del governo (della relazione tra governanti e governati) anche dal punto di vista di un modo di produzione basato nel comune (concepito come insieme di singolarità inter-relazionali e inter-sezionali) e quindi dal punto di vista del conflitto con le sue forme di appropriazione. Il nomadismo degli utenti è catturato, anche se in modo non definitivo, dagli effetti di rete (più persone usano una piattaforma, più utile diventa), che tipicamente almeno per un medio periodo di tempo producono un lock in (siamo legati a queste reti e servizi).

Il blog su cui scrivo, dopo aver cercato di organizzarsi attraverso mailing list e piattaforme come Slack, si è spostato come gruppo segreto su Facebook – innervandosi in questo modo nella comunicazione sociale quotidiana, e escludendo chi non si trova sulla piattaforma. Il gruppo ‘funziona’ meglio delle mailing list e altri formati, ma il gruppo esclude chi ha scelto di non stare su Facebook, e soprattutto il gruppo della TRU non è ‘nostro’, nella misura in cui tutto quello che scriviamo appartiene a FB e FB governa questo spazio con le sue regole e le sue politiche. Eppure non possiamo farne a meno. Se i social media sono diventate delle utilities, cioè infrastrutture della vita sociale di miliardi, è possibile postulare che sia posto non solo il problema dell’alternative, ma anche quello dell’appropriazione, dell’espropriazione e di nuove forme di proprietà?