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Pelle Queer Maschere Straight. Estratti dall’introduzione

Di seguito pubblichiamo un estratto dell’introduzione di Tiziana Terranova al libro “Pelle queer maschere straight. Il regime di visibiltà omonormativo oltre la televisione” di Nina Ferrante, entrambe parti della TRU. 

Glitch – Percy Bertolini

C’era una volta la televisione nazionale, medium domestico e addomesticante per eccellenza, attorno a cui le famiglie si raccoglievano ogni sera a ricevere, dopo il telegiornale, la loro dose quotidiana di salubre intrattenimento fatto di film, sceneggiati, quiz, e gare musicali, insomma di ‘buona’ cultura nazionalpopolare. L’intima relazione tra televisione, la nazione e la famiglia, anche laddove, come negli Stati Uniti la televisione è sempre stata commerciale, è iniziata negli anni del boom economico del secondo dopoguerra quando l’elettrodomestico televisore è diventato uno dei punti focali di aggregazione della famiglia, funzionando, insieme al tavolo da pranzo, come uno dei luoghi attorno a cui, per citare Antonia Anna (Nina) Ferrante, la famiglia ‘si produce nella sua ritualità e gerarchie’, quali per esempio i posti ‘silenziosamente assegnati’[1]. A differenza del tavolo da pranzo, il nuovo centro della ritualità domestica, il televisore, con il suo schermo fluorescente e quasi ipnotico, anche se ancora a bassa definizione, esponeva e connetteva l’interno familiare al suo esterno, la nazione, che lo conteneva e gli dava senso.

E c’era una volta, qualche decennio dopo, Internet, tecnologia di nicchia, accessibile attraverso il personal computer, medium individuale e libertario in cui la famiglia era decisamente assente come pure la nazione, tecnologia di formazione di intelligenze collettive (con i suoi newsgroups e mailing lists), di comunità virtuali (le BBS), ma anche spazio ludico e sperimentale. I giochi di ruolo online raccontati dalla cyberpsicologa Sherry Turkle e la teorica trans Alluquére Rosanne Stone esplicitamente invitavano a giocare con l’identità e il genere, rendendo la ‘computer-mediated communication’ (come si chiamava ancora nei primi anni novanta) luogo di esplorazione della performatività del genere[2]. I più famoso dei mondo virtuali online del primo Internet, LambaMoo, per esempio, offriva a chi partecipava al gioco la possibilità di scegliere tra ben sei generi (neutro, maschio, femmina, entrambi, ‘spivak’, asterisco, plurale, egotistico, Reale, e seconda persona) o aggiungerne addirittura altri.[3]Oggi, invece, Internet ci chiede sempre più spesso il nostro ‘vero’ nome, la nostra ‘vera foto’, o persino un documento d’identità, e la televisione non solo non è più monogamicamente accoppiata alla domesticità, ma si dispiega promiscuamente su una molteplice eterogeneità di schermi diventando satellitare, digitale, smart, online, in streaming e algoritmica. [4]

L’appassionante libro di Nina Ferrante che avete tra le mani, dunque, attinge la sua energia affettiva e intellettuale dall’intersezione tra la trasformazione delle tecnologie sociali della comunicazione e la crisi sempre più evidente della famiglia biologica ed eterosessuale, cioè di quel modo di vivere insieme che ha ridotto la grande trama della parentela della vecchia famiglia allargata all’istituzione normativa della famiglia nucleare su cui grava il peso di sostenere tutti i ‘legami di sangue, legali, di intimità, di convivenza, di supporto e soccorso’. Nel suo viaggio attraverso alcune di queste ‘nuove storie’, il libro di Nina Ferrante ci rende partecipe del grande processo di ‘contestazione affettiva’ della normalità della famiglia, prima ancora che del genere, a partire da quella che definisce la ‘moltitudine queer’, esponendoci all’aprirsi dei modi di vita alla trama delle nuove ‘parentele radicali’, alla micropolitica della resistenza attraverso gli affetti, nell’intreccio tra il movimento del desiderio e il bisogno di sentirsi protett*, cioè bisogno di cura e di affidabilità. E’ davvero tardi, forse troppo tardi, ci chiede fin dall’inizio, ‘per pensare a delle forme di affettività, prima ancora che di sessualità, radicali’?

Pelle Queer, Maschere Straight, ci accompagna in un viaggio attraverso il divenire queer del mondo audiovisuale e della televisione post-nazionale, quella delle piattaforme, di YouTube, Vimeo, di Netflix e Amazon Prime, di tutti i luoghi dove diventa possibile rintracciare e vedere (anche se sempre meno scaricare) video, documentari, serie, film e documenti di ogni generi che testimoniano la costruzione dei modi di vita del queer in quanto modalità collettiva ‘di resistenza ai discorsi e alle tecnologie di produzione della normalità’. Lungi dall’essere una forma di ‘politica dell’identità’, il queer nasce dunque dalla ‘guerra dichiarata al regime di universalizzazione delle identità’, come nelle lettere dell’acronimo ‘lgbt*nbiqtaa+’ che continuano ad accumularsi come si accumula e si espande ‘l’archivio delle lotte’ attorno alla ‘normalità’. Il queer dunque è, foucauldianamente, il tentativo di ‘definire e sviluppare modi di vita eccentrici’ piuttosto che ‘identificarsi ai tratti psicologici e alle maschere visibili dell’omosessuale’. Ferrante testimonia qui dunque quello che è stato negli ultimi dieci anni (che includono quelli in cui ha iniziato questa ricerca) un vero e proprio processo di coming out collettivo di gay e lesbiche, bisessuali e trans, un’opportunità di visibilità che però pone la domanda ‘a che costo?’ Quale prezzo viene pagato dalle soggettività queer per la ‘normalizzazione’ che si esprime anche in un fenomeno di cultura popolare come il trono gay di Uomini e Donne di Maria De Filippi, quale per esempio, quello di doversi mostrare a tutti i costi ‘uguali e normali’? La sfida ci dice Ferrante, sta invece tutta ‘nella proliferazione di sessualità che imitano, viaggiano accanto, contraddicono e resistono a quel paradigma’ dell’uguale e normale e che complessificano la ‘relazione implicita tra la norma eterosessuale e la nazione’.

Questo dunque è un libro che pure occupandosi di temi relativi alla sociologia dei processi culturali e comunicativi si può considerare tuttavia anche uno studio’ vero e proprio, nel senso che appartiene al campo degli ‘studi’ (gli studi culturali e sui media, gli studi queer e il femminismo), tanto bistrattato dai difensori delle discipline (i discorsi o ‘logos’ della sociologia, dell’antropologia o della filosofia) tra cui gli studies anglofoni appunto in Italia sono dispersi, ma anche frutto di uno ‘studio sociale’ nel senso che hanno dato alla parola Stefano Harney e Fred Moten in The Undercommons, quando ci dicono che ‘lo studio è quello che fai con gli altri, è parlare camminare con gli altri, lavorare, ballare, soffrire’ nella irreversibile intellettualità di queste attività, nel coinvolgimento in una pratica intellettuale comune che dà accesso a una ‘intera, variegata, alternativa storia del pensiero’ e nel riconoscimento che ‘la vita intellettuale è al lavoro tutt’intorno a noi.’[5] Quello che è chiaramente percepibile in questo libro è proprio il suo essere immerso e nutrito dall‘undercommons del pensiero radicale queer e femminista.

Libri come questo smentiscono a mio modesto parere la caricaturizzazione degli ‘studi’ (incluso gli studi di genere e gli studi queer) prodotta dalla paranoia delle discipline verso tutto ciò che abita letteralmente, per citare Gloria Anzaldua, le ‘borderlands’ (le terre di confine) tra i discorsi. Assediate da un lato dall’ondata crescente e apparentemente inesauribile dell’analitica dei dati, e dall’altro dalle richieste che vengono dalla società e dalla cultura contemporanea di saperi che parlino a e con le soggettività in mutazione, le scienze umane e sociali attraversano una crisi di identità. Che succede quando, come osservarono qualche tempo fa i sociologhi inglesi Roger Burrows e Mike Savage in un premiatissimo saggio, la sociologia vede i suoi strumenti di rilevazione empirici superati da quelli usati da ricercatori che lavorano per il governo o sempre più spesso per le corporazioni?[6] Una sentiment analysis dei testi di queste serie davvero ci avrebbe restituito in modo migliore il senso di quello esse rivelano o dei pensieri a cui aprono intorno al dis/farsi della famiglia e del binarismo del genere? Aprirsi agli ‘studi’ significa rischiare di farsi trascinare nella contesa politica e diventare l’obiettivo di avversari politici (i famosi ‘hoaxers’) disponibili a investire tempo e denaro pur di trovare ed aprire delle falle volte a screditarli?[7] Come rivendicare un ruolo, un metodo, un rigore e una serietà per i saperi umanistici senza renderli branche delle scienze naturali facilitando, come avverte Rosi Braidotti, la marginalizzazione del pensiero critico?[8] E’ più importante mettersi al sicuro conformandosi ai criteri di scientificità delle scienze dure e codificare i propri in maniera intransigente sotto la protezione di qualche grande ‘maestro’ defunto oppure continuare a perseguire i propri percorsi ‘indisciplinati’ come suggerisce Iain Chambers, continuando a porre interrogativi non autorizzati per mantenere viva la relazione con tutto quello che nella cultura e nella società si muove, resiste e lotta?[9]

Il libro di Ferrante è dunque un esempio una forma di studio che non ha ‘oggetti’ osservati da un soggetto che è trasparente, cioè non marcato, non visibile, non interrogabile, ma che non fluttua neanche nel vuoto di una postura teorica volta semplicemente ad accumulare capitale accademico (quale quella denunciata da Stuart Hall nel suo discorso alla prima conferenza americana sui Cultural Studies a Chicago alla metà degli anni novanta e che comunque forse in questo momento storico non ha grande valenza in Italia)[10]. Il ‘rigore anesatto’ (per citare Deleuze) degli studi culturali, postcoloniali e di genere viene da un lavoro appassionato, coinvolto e attento sulla molteplicità di letture e visioni, prodotte da una moltitudine regist*, attivist*, scrittric*, studios* e ricercator* che risponde a profonde esigenze delle società contemporanee.

[1]   Cf. Lynn Spiegel Make Room for TV: Television and the Family Ideal in Postwar America. Chicago: University of Chicago Press, 1992;

[2]   Sherry Turkle Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, Simon & Schuster 1997; Alluquére Rosanne Stone Desiderio e Tecnologia. Il problema dell’identità nell’era di Internet. Feltrinelli, 1997.

[3]   Flame Wars Dibbel Michele White

[4]   Cf. Roberta Pompili e Tiziana Terranova ’’L’interfaccia televisiva: dalla tele-governance all’autogoverno della comunicazione’ http://www.euronomade.info/, 2015

[5]   Stefano Harney e Fred Moten The Undercommons,Fugitive Planning and Black Study, Minor Compositions, 2013 pp. 110/111.

[6]   Savage, M., & Burrows, R. (2007). ‘The Coming Crisis of Empirical Sociology’. Sociology, 41(5), 885 –899.

[7]   Cf Daniel Engber “What the “Grievance Studies” Hoax Actually Reveals” www.slate.com, 2018.

[8]   R. Braidotti Il postumano La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte. Derive e Approdi, 2014

[9]   Iain Chambers ‘Introduzione’ in I. Chambers, L. Curti e M. Quadraro Ritorni Critici. La sfida degli studi culturali e postcoloniali. Meltemi, 2018

[10] Stuart Hall ‘Gli studi culturali e le loro eredità teoriche’ in Il soggetto e la differenza: per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali. Meltemi Editori, 2006 (trad. Miguel Mellino)

Fare un salto al seminario: come praticare l’arte del fallimento nell’Università.

Questa è una lunga analisi sul perché non ho scritto un post per invitarvi tutt* a discutere intorno al testo di José Muñoz “Cruising Utopia”. Giovedì 3 Maggio ore 16,30 all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici con Renato Busarello, Mara De Chiara, Roberto Terracciano e me… forse.

È dai tempi della scuola che ho imparato a confrontarmi con il fallimento. Il fallimento anche oggi arriva all’ultima fase. All’ultima frase. Facevo traduzioni perfette, forse non giuste, ma sempre appassionate; non era questione di grammatica e di studio, ma l’esercizio di cercare le parole giuste per dire le cose. Amavo scegliere le parole; ancora adesso. Brava: brava per i professori che mi premiavano con ottimi voti; brava per i compagni di classe che mi riconoscevano più la generosità del far copiare che una qualche dote; brava per i miei genitori che potevano raccontarmi come la figlia perfetta. Eppure tutto questo pesava su di me come un macigno: il peso delle aspettative. Non tanto quelle delle persone intorno a me, ma quelle di cui mi caricavo io stessa. Nata sotto il segno della Vergine, sempre in competizione con me stessa per essere all’altezza dell’ideale che mi pongo. L’ascendente in Pesci mi ha dotata del dono della creatività e la luna in Sagittario mi ha infuso l’arte della fuga. Ho iniziato molto presto a conseguire il fallimento come pratica militante di boicottaggio, e ho continuato con una certa perseveranza per il resto della mia vita. Una lunga carriera di esami a cui mi sono presentata senza aver studiato l’ultimo capitolo. L’esercizio del fallimento l’ho praticato con più dannazione che orgoglio, aggiungendo al peso delle aspettative l’ansia e i sensi di colpa.

Sono qui a cercare l’idea migliore per il prossimo post di Technocultures. Non devo solo essere all’altezza dei post precedenti, tutti un successo di visualizzazioni, devo essere più in alto di essere all’altezza. È l’ultimo, quindi devo spaccare. Lasciare il segno non è solo un desiderio narcisista oggi; mi muovo nel paradigma della precarietà dell’università neoliberista. Non ho neanche un nome per descrivere la mia posizione: non più dottoranda, non (ancora?) post-doc. La mancanza di una parola non è solo la ricerca di una collocazione lavorativa ma il bisogno di un posto esistenziale. Devo accumulare voucher visibilità: non dire mai no ad alcuna proposta di scrittura, intervento, organizzazione e non perché mi abbiano mai pagato per questo, ma con la speranza di poter impressionare qualcuno, trovare un contatto, lasciare un segno, non sparire mentre aspetto che arrivi il mio turno.

Ma questo è il momento dell’ultima frase e io, come al solito, non posso scrivere. Niente. Riprendo in mano il libro di Muñoz, l’ho già riletto quasi tutto, ma sono ancora in cerca dell’idea perfetta. Mi manca sempre lo stesso capitolo: A Jeté Out of the Window. Fred Herko’s Incandescent Illumination. Avevo scelto di non rileggerlo sebbene fosse il primo testo che avessi mai letto di questo autore che dopo mi ha tanto appassionata. Era agosto e mi preparavo per una summer school, lo aveva dato da leggere Jack Halberstam, entrambi grandi amici si sono molto influenzati nelle loro scritture. Sin da subito ho esorcizzato il pugno nello stomaco ricevuto da questo testo, scherzando con un mio amico sul destino di una dottoranda, costretta a leggere di uno che fa un salto fuori dalla finestra, mentre gli altri sono con le chiappe al mare. Questa volta me lo sarei risparmiata, infastidita dall’apologia di un suicidio in un testo che nasce dichiaratamente come risposta alle teorie nichiliste della svolta antisociale del pensiero queer. Cosa cazzo c’entra il suicidio mentre parliamo di utopia, speranze, relazioni guardando al futuro?

Questo capitolo ha la potenza di un pensiero intrusivo. I pensieri intrusivi, in un linguaggio patologizzante, sono quei pensieri ed immagini, percepiti come esterni, che attivano le crisi ossessivo compulsive: idea di morte, droga, contaminazione… L’idea di qualcosa di estraneo, introdotto dall’esterno, per mandare in frantumi l’equilibrio. Come questo capitolo che attiva con potenza una catena di pensieri ansiogeni rispetto all’ideale di utopia che si sta delineando. Mi decido a riaffrontarlo e resto colpita immediatamente dalle prime parole “Surplus is a loaded concept”. Prosegue introducendo la teoria del valore prima in una prospettiva marxista; dunque il surplus inteso come quella parte di ricavi superiore al costo del lavoro, quindi il profitto del capitalista. Prosegue, successivamente, introducendo questo concetto nel campo dell’effimero, attraverso la produzione artistica. Solo a questo punto mi rendo conto che Muñoz, ancora una volta attraverso l’analisi dell’estetica delle pratiche, sta introducendo i suoi elementi di elaborazione di una teoria del valore queer. Un’analisi che non è dello sfruttamento da parte del potere, ma della potenzialità della performance come atto che produce l’esodo.

Forse occorre un passo indietro. Fred Herko è volato fuori dalla finestra di un appartamento del Greenwich Village nel 1964. Il suo consumo di speed era noto e imbarazzante perfino per le altre persone della Factory, che com’è altrettanto noto, non consumavano tè e biscottini ai loro incontri. Lamentava in continuazione la lentezza del mondo – sono le anfetamine, darling – in un corpo accelerato dal consumo di sostanze. Una lurida puttana, come fu definito da altri artisti dello stesso entourage, senza fissa dimora, una frocia sfranta che si bruciò troppo velocemente all’ombra della Factory di Wharol, che ha prodotto più rifiuti che arte. Il grande artista, com’è altrettanto noto, era un sadico di merda e sfruttò Herko per molte delle sue produzioni, tra queste probabilmente la più famosa è Roller Skates, alla fine della quale, dopo giorni a giare scalzo per New York, a Herko sanguinavano i piedi. Questa è grande arte signori. Fred Herko si spoglia nella casa di un suo amico; inizia a ballare, come sempre, nel suo stile sopra le righe; non è mai stato chiaro se volesse davvero suicidarsi o letteralmente stava fuori come un balcone. L’unico spettatore presente si rammaricherà per sempre di non aver filmato il suo capolavoro definitivo.

Muñoz riprende la nozione negriana di plusvalore, come quella parte incontrollabile e potenzialmente distruttiva integrata all’interno della formulazione del lavoro in questa configurazione del capitalismo contemporaneo. Sviluppando questo pensiero con quello che abbiamo analizzato nei seminari precedenti possiamo provare a formulare una nostra nozione di plusvalore queer: all’interno della produzione immateriale esiste una componente personale, che non è solo quella che produce il profitto, è anche e soprattutto quella componente sessualizzata che rappresenta la potenzialità di hackerare il sistema.

È impossibile seppellire o ignorare i pensieri intrusivi, bisogna attraversarli e provare a trovarne un senso, e comincio a intravederlo all’orizzonte. Leggo questo testo accanto a quello di Mark Fisher, un suo pensiero sulla depressione in cui racconta della sua esperienza; un testo che ha acquistato, piuttosto che perso, significato al momento del suo suicidio, anche grazie alla larghissima diffusione. In questo testo Fisher insiste sulla necessità di rileggere la depressione, che comunque ha segnato la sua personale esistenza, in una prospettiva politica più ampia di crisi generalizzata e malessere sociale. Rileggo questo pezzo di Muñoz non più come una resa al nichilismo, quanto piuttosto un ulteriore modo di tracciare delle mappe relazionali anche nei momenti più cupi dell’analisi queer. La sua tesi sull’utopia non è, infatti, la produzione di un ideale naif delle potenzialità del futuro. Tutt’altro. Questa temporalità proiettata all’orizzonte ancora da venire non è bonificata dalle memorie, è piuttosto un momento estatico in cui tutto questo può essere percepito, popolato anche di fantasmi e momenti difficili.

Il potenziale trasformativo della costruzione di relazioni ha radici piantate in un mondo percepito come insostenibile così com’è. Da qui la necessità di smettere di pensare al qui e subito e l’urgenza di direzionarsi verso l’allora altrove. Nell’analisi dell’estetica delle pratiche queer risiede la via di fuga ma anche la possibilità di fare mondi. Dunque non è corretto continuare a tracciare la vecchia riga che separa l’esodo praticato dall’artista dalla radicalità delle esperienze politiche collettive. Tutto ha radici in un mondo da trasformare. Queerness is not yet here, la frocianza non è ancora qui.

Guardare all’orizzonte come luogo e tempo delle speranze ci costringe a dover scrivere anche storie di delusioni e disillusioni, ma affrontare le aspettative significa anche abbandonarsi all’arte queer del falimento. L’utopia stessa, come mancanza di pragmatismo, è il fallimento del desiderio di essere normale, un colpo al cuore del produttivismo. Dalla teoria postcoloniale queer ho imparato che il fallimento ha un’aura di privilegio che chi deve pagare le bollette non può permettersi, ma per me, in questo momento, accogliere il fallimento mi libera dall’ansia di essere all’altezza del reach-out di questi post e mi permette di prendere parola, politicizzare e inserire in un contesto più ampio questa ansia. Mica poco per una giustificazione di non aver fatto il mio dovere?

Muñoz analizza il fallimento accanto al virtuosismo, poiché nella sua stessa matrice c’è la potenzialità: quello che poteva essere e non è stato; quello che ancora un giorno potrà essere… incluso un nuovo fallimento!

Chiara Fumai è morta, Mark Fisher è morto, Muñoz è morto, Herko è morto… e anche io non mi sento tanto bene.

Paul Preciado Testo Junkie

Le streghe son tornate incinte. Di giustizia riproduttiva, ormoni e resistenza transfemminista.

A blizzard of hormones,
for months,
undersea volcanoes spewing hot affects
tectonic emotional swings
intense food cravings
my body is foreign to me
it’s changing, in ways I don’t like,
shape, texture
and so many little blacks hairs coming back,
despite being tortured out of existence,
on my cheeks, in my cleavage,
I have to wear baggy clothes,
all my underwear was too tight
for gamete making temperatures,
I have to take my vitamins every day,
all to make a baby.
I’m a trans woman
and I’m pregnant.

 

Sullo schermo lentamente mettono a fuoco, da un lato le immagini da un microscopio, dall’altro le parole. Lentamente viene alla luce questa gravidanza di donna trans, in un progetto che mette in versi l’appropriazione della scienza per realizzare allo stesso tempo un desiderio e un atto di giustizia riproduttiva.

In Italia ci stiamo organizzando per i 40 anni della legge 194. Più che una celebrazione, un momento di condivisione di lunghe resistenze e nuove lotte, per la contraccezione consapevole, l’aborto libero e gratuito, per una visione non medicalizzata dei corpi. La difesa dei consultori non guarda al passato ma abbraccia le esperienze delle consultorie autogestite in cui i soggetti stessi possano produrre e far circolare strumenti e conoscenze per il proprio benessere.

Intanto arrivano in Europa donne dai Sud, dove i governi occidentali e le case famraceutiche sono ben liete di impiantare contraccettivi sottocutanei che le donne si fanno installare con la certa disperazione di subire stupri durante il lungo viaggio che le separa dall’Occidente. Molto spesso i medici che incontreranno una volta arrivate si rifiuteranno di rimuoverli “per ragioni di sicurezza”. La lotta per la giustizia riproduttiva ha molti volti, tutte istantanee dell’autodeterminazione oggi. Uno di questi volti è quello di micha cárdenas, teorica, ma soprattutto bio artista e hackttivista, cioè a partire dalla riappropriazione della tecnologia, soprattutto fai da te, produce interventi critici usando anche il corpo come un’opera d’arte. Nei suoi versi ci racconta l’odio per i peli, la frustrazione che aumenta con il livello del testosterone da quando ha smesso di assumere estrogeni e T blockers. Lei non è testo junkie, non ha iniziato ad assumerli per sperimentare, né smette di assumerli per lo stesso motivo. Lo fa e l’ha fatto per necessità, lo ripete più volte tra le parole che scorrono, per il bisogno che esprime un incontenibile desiderio di vita, una pratica di resistenza alle aspettative sociali che segnano il suo destino in modo violento. Un desiderio di vita comprensibile solo a chi non conosce privilegio alcuno.

 

micha cárdenas

Pregnancy, dunque, non è una sperimentazione, ma un lavoro di scienza degli oppressi, un intervento poetico militante da parte della trans women of color. Per realizzare la gravidanza produce una banca di tessuto criogenico aka banca del seme. Vediamo sui vetrini il materiale organico in modo sempre più chiaro, attraverso la poesia si fa chiaro il suo progetto. I gameti aumentano e aumenta la loro attività fino a prendere tutto lo schermo, esplodendo in una vera e propria festa danzante negli ultimi fotogrammi. Un party in barba ai medici, ai bugiardini, alle bugie della scienza che l’ha obbligata per anni al lutto di un futuro riproduttivo da cui sarebbe stata esclusa con l’inizio della terapia ormonale. In molti paesi – compresa l’Italia e la Francia da cui scrive Paul Preciado di Testo Tossico – la procedura ufficiale per iniziare una transizione passa per una diagnosi di pazzia o, in modo più sofisticato disforia di genere, e prosegue con la sterilizzazione.

 

Pregnancy – from fembot collective on Vimeo.

 

Da questa prospettiva micha ci invita a rileggere le questioni della giustizia riproduttiva come un fallimento del femminismo e delle culture queer bianche nel guardare al futuro. Ed è da questa prospettiva che lei si attiva per riscriverlo a partire dal suo corpo. La sci-fi, new media art, le tecnologie digitali e il design speculativo, a chi spetta scrivere il futuro? Ci chiede. L’imperativo del No Future ha relegato ad anatema il desiderio riproduttivo queer, leggendolo solo attraverso le lenti miopi dell’occidente cisgenere. Dai suoi versi sputa sulla filosofia occidentale, anche quella considerata più all’avanguardia e critica, e si fa prestare parole e sangue da Gloria Anzaldua, invece, per celebrare la resistenza vitale, il suo lungo sguardo volto agli orizzonti futuri, per sciogliere i cappi che da sempre legano le donne trans ad immaginari mortiferi. “I want more than just to live”.

Il video mette a fuoco lentamente e fa molto di più che trovare parole a tutte le domande che ci stiamo ponendo. Le immagini si susseguono insieme ai versi e intanto micha sente la vita crescere dentro di sé, 9 milioni di vite. Quante persone ci sono dentro di me? Una moltitudine. E ce la mostra. Sadie, un’altra donna trans conosciuta su un forum per la gravidanza di donne trans, le consiglia di non pagare nessuno specialista, quello di cui ha bisogno per portare avanti il progetto è un microscopio giocattolo e dei vestiti larghi. L’esperienza e la condivisione orizzontale sono la vera sfida alla scienza. Per conoscere la strada del Pharmacon e delle droghe bisogna battere le strade delle streghe, ci racconta Preciado, accompagnato da Silvia Federici. Dobbiamo infatti tener presente che la persecuzione delle streghe è la storia del capitalismo e del colonialismo, una storia fatta di appropriazione di terre, risorse, forza lavoro e annientamento delle resistenze. Le donne che curano, a partire da conoscenze autoprodotte e tramandate orizzontalmente, restano la più grande resistenza alla medicina, intesa come potere di disciplina dei corpi. Così tutti i saperi femminili, froci e non occidentali sono da espellere con violenza da dove si produce il sapere tradotto in scienza. I roghi sono così il tentativo di porre fine ai “saperi narco-sessuali”, ma ancora oggi, proprio come ci mostra micha cárdenas, il fuoco brucia sotto la cenere. La scienza e la tecnologia sono state utilizzate per patologizzare le esperienze di cura collettiva, bonificare del potenziale erotico i processi di soggettivazione collettiva e distruggere definitivamente l’ecologia di corpi, territori e risorse. Ed è prorio da qui che monta la resistenza.

Copertina dell’edizione in inglese di Testo Junkie

Paul B. Preciado, nel suo saggio/memoire sull’esperienza della transizione, Testo Tossico, colloca la questione degli ormoni all’interno della tecnologia dei generi. L’ormone non produce genere, ma ne apre le porte. Se Judith Butler definisce il genere come imitazione senza modello, l’ormone per Preciado realizza il sogno di transitare da una finzione all’altra. L’estrogeno non è la femminilità, che è un effetto della tecnologia sociale, ma è vettore per il divenire molecolare che apre la porta ad infinite possibilità narrative. Ormone, sin dalla sua etimologia è ciò che scatena; una frattura epistemologica che ci obbliga a dover pensare i confini tra dentro e fuori. È a tutti gli effetti una tecnologia di trasmissione wireless, che ci obbliga ad espandere i confini del corpo e della biopolitica ben oltre i confini della pelle. Allo stesso tempo a ripensare al modo in cui il potere scrive sui nostri corpi e a noi spetta appropriarcene per produrre e narrare nuove resistenze.

Giovedì 22 marzo, presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, per il ciclo di seminari “Postcoloniale, queer e femminista: percorsi di lettura per una vita non fasista“, discuteremo intorno a Testo Tossico di Preciado per ragionare sul regime post-industriale “farmaco-pornografico”, che prende in considerazione, cioè, i processi molecolari di governo della soggettività sessuale, così come le tecnologie di produzione e rappresentazione del corpo. “La verità sul sesso non è svelamento, ma sex design”.

Nina Ferrante

 

Post-coloniale, queer, femminista: Critica della Ragion Negra di Achille Mbembe

‘Quando si parla di Africa, la corrispondenza tra parole, immagini e cose non importa quasi per niente. Non è necessario che il nome corrisponda alla cosa o che la cosa risponda al suo nome’

‘Chi vorrebbe essere un Negro o essere trattato come tale?’

(Achille Mbembe Critica della Ragion Negra, 2013)

 

Uno dei video cosiddetti virali più discussi e citati nella new media theory contemporanea è certamente Kony 2012, definito all’epoca ‘il video più virale di tutti i tempi’. Kony 2012 è un cortometraggio di trenta minuti che, dopo esser stato caricato su YouTube e poi su Vimeo tra la fine di febbraio e inizi di marzo 2012 da una ONG, Invisible Children, ha accumulato 93 milioni di visualizzazioni nel il primo mese dopo la pubblicazione, attirando l’attenzione di celebrità come Oprah Winfrey, e causando il il crollo psichico del suo regista, il 33enne James Russell, arrestato nel marzo 2012, nel pieno della popolarità del video, mentre correva nudo nel traffico di San Diego, California.

Kony2012 si presentava come un video sul conflitto pluridecennale in Uganda e chiedeva agli utenti che lo avessero visualizzato di ‘prestare attenzione fino alla fine’ per partecipare entro una determinata data alla cattura di un criminale di guerra, l’ugandiano Joseph Kony, leader della Lord’s Resistance Army (LRA) – un’organizzazione accusata di rapire i bambini per costringerli a diventare soldati e arrivando persino a convincerli a uccidere i loro genitori. Sulla base di queste accuse, Kony era stato condannato per crimini di guerra e per crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale con sede all’Aia, nei Paesi Bassi. Nel video, lo statunitense Russell racconta del suo incontro con i ragazzini vittime di Kony in Africa e del suo desiderio di porre fine ai crimini di Kony per amore del figlio e per la sua amicizia nei confronti di uno dei bambini rapiti da Kony e incontrato in Africa.

Sia Wendy Hui Kyong Chun che Jack Batrich, trattando del fenomeno Kony2012, hanno sottolineato il modo in cui il video non ha praticamente niente a che fare con l’Uganda, come non fornisca nessun contesto storico e politico per capire il conflitto che vuole rappresentare, e come, nel migliore dei casi, questo video rappresenti l’ennesima performance del vecchio ‘fardello dell’uomo bianco’, o nel peggiore, una specie di incitazione al linciaggio dell’Uomo Nero. Per Bratich, K-12 è stato essenzialmente una ‘caccia all’uomo distribuita e globale, un esperimento nascente distopico che ricorda Running Man (in italiano, L’implacabile, 1987) e La Fuga di Logan (1978), ma aggiornato per la generazione ‘Hunger Games’ in cui la spettorialità diventa partecipazione e intervento’. Per questi critici, dunque, Kony2012 non ha niente a che fare con l’Africa, ma è stato un modo di mettere in atto e immaginare il potere dei social networks, che cavalcava l’onda delle grandi rivolte nordafricane del 2011 e del più modesto ma significativo movimento di Occupy Wall Street. Questa rappresentazione del potere dei social media rimanda a quella che potrebbe essere definita una nuova ‘ragione universale’, incarnata dai giganti dei media sociali, per cui l’umanità è naturalmente e intrinsicamente animata da un desiderio di connettersi. Ci sembra importante sottolineare come questo universalismo dei media sociali rappresentato da KONY 2012 abbia ancora una volta come oggetto un Uomo Nero da catturare, dei bambini neri da salvare, e un’Africa, che, come sottolinea ripetutamente il filosofo postcoloniale camerunense Achille Mbembe nel suo Critica della ragion negra, rimane per l’Occidente ‘il simulacro di un potere oscuro e cieco’ verso cui si può provare al massimo ‘senso di colpa, risentimento e pietà’ ma mai ‘un richiamo alla responsabilità o alla giustizia’. Estendendo la critica che Mbembe muove alla ‘ragion negra’ (la ragione che ha come oggetto l’Africa e l’Uomo Nero) verso il nuovo orizzonte della comunicazione ipersociale, le notizie sull’Africa ancora oggi sono, per definizione, bufale o fake news: ‘il termine Africa’, sostiene Mbembe ‘si riferisce a una forma vuota che, in senso stesso, sfugge ai criteri di verità e falsità… Tutto quello che importa è il potere della falsità’.

Il giorno 8 febbraio si terrà presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, il primo di una serie di cinque incontri organizzati dalla TRU e dal Centro Studi Postcoloniali e di Genere dell’Università ‘L’Orientale’, con il titolo ‘Postcoloniale, Queer e Femminista: percorsi di lettura per una vita nonfascista’, dedicato appunto a Critica della ragion negra di Achille Mbembe. Il ciclo di seminari proseguirà poi in un percorso che ci porterà a discutere della ricerca di Denise Ferreira Da Silva, di Beatriz/Paul Preciado, di Donna Haraway e infine di José Esteban Munoz. La serie di incontri prevede delle tavole rotonde su cinque volumi recenti di voci note e meno note in Italia di quel movimento intellettuale transversale (postcoloniale, queer, femminista, anti-razzista etc) che attraversa le cosiddette scienze umane e sociali con particolare forza almeno a partire dagli anni sessanta producendo un conflitto con la neutralità dei saperi e delle discipline. Insieme ad Antonia Anna Ferrante, siamo partite dal desiderio di aprire uno spazio di discussione in città attorno al pensiero postcoloniale, queer e femminista contemporaneo, scegliendo una serie di volumi e titoli capaci di innescare discussioni per noi necessarie anche a produrre un modo diverso di studiare e criticare la cultura di rete, i media digitali e la ragione computazionale.

Il laboratorio, che può essere seguito come parte del percorso di studi da student* del corso di laurea magistrale in Lingue e Comunicazione Interculturale in area Euromediterranea del ‘L’Orientale’, ma che è aperto al pubblico in generale, è stato pensato come una serie di conversazioni iniziate e animate da una serie di relator* intern* al Centro Studi Postcoloniali e di Genere per la maggior parte, ma, grazie a un finanziamento del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Orientale, anche con qualche partecipazione esterna. La politica di austerity che inesorabile si è abbattuta specialmente sulle università sudalterne ci impedisce di invitare direttamente gli autori/autrici/autoru di questi saggi, ma in questo vogliamo anche vedere un’opportunità di parlare di libri e attraverso i libri anche in assenza della voce autoriale, permettendo a questo vecchio, amato medium di coinvolgerci con le sue specifiche lentezze e velocità di pensiero. Non è necessario aver letto i volumi per partecipare alla conversazione, ma è necessaria la curiosità e l’apertura mentale.

Sebbene dunque i vari incontri siano introdotti da docenti e ricercator* universitari, ci aspettiamo che questo sia appunto solo l’inizio di conversazioni che coinvolgano anche chiunque si senta di voler condividere con noi un percorso filosofico e teorico, per citare la famosa affermazione di Michel Foucault, ‘non-fascista’. Nella misura in cui il rapporto coloniale italiano con l’Africa ci interpella direttamente, il senso di ‘non-fascista’ per noi appare letterale, nel senso di una rottura con l’immaginario razzista che ancora oggi continua a pervadere il rapporto tra italiani, l’ ‘Africa’ e l ‘ ‘Uomo Nero’. La critica della ragion ‘nera’ ci interpella a partire proprio dalla nostra specifica varietà di ‘nero’ politico.

Siamo felic* che la nuova gestione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli dopo la scomparsa del compianto avvocato Marotta, abbia accolto e sostenuto questa iniziativa e la ringraziamo nella persona di Fiorina Li Vigni con la preziosa mediazione di Nicola Capone.

Introdurranno la conversazione sul volume di Mbembe Rossella Bonito Oliva (docente di Etica Interculturale e Filosofia Morale), Iain Michael Chambers ( Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo), e Miguel Mellino (Studi Postcoloniali e Relazioni Interetniche e Antropologia Culturale)

Introduzione e ringraziamenti di Giampiero Moretti (Direttore Dipartimento di Scienze Umane e Sociali) e di Tiziana Terranova e Anna Antonia Ferrante (TRU/Centro Studi Postcoloniali e di Genere, curatrici dell’evento)

Questione di sguardi. Il postporno dagli occhi di Lasse Långström e i miei

Questo articolo è già stato pubblicato su Leggendaria. Libri Letture Linguaggi nel numero intitolato “Corpi Sguardi Desideri”, dedicato ai nuovi scenari nella pornografia. Ringraziamo la rivista per aver condiviso l’articolo e ancora di più chiunque avesse voglia di sostenere un progetto che è molto di più di una rivista culturale femminile e femminista.

Contempt Warnings: Nell’articolo è descritto con linguaggio esplicito un rapporto S/M.
“Robert Frank Robert Frank Robert Frank Robert Frank Robert Frank. Io mi rispecchio in lui per tutta la storia. Robert Frank, Robert Frank. Questa è grande arte. (…). È un mostro talmente immenso della storia dell’arte, lui è talmente grande che non possiamo neanche comprenderlo. Robert Frank è talmente grande e continua a diventarlo sempre di più, che perfino io mi sento diventare più grande con Robert Frank… Robert Frank… Robert Frank…”
Va avanti così per pochi minuti che mi sembrano durare troppo, troppo. Questo è l’incipit del video Robert Frank, un cortometraggio di Lasse Långström regista e attivista transfemminista queer svedese. Intanto il professore sullo schermo parla, parla, parla, decanta le doti, venera l’immagine proiettata, sfiora la parete, raggiunge l’eccitazione.
“Uomini che ammirano uomini che ammirano uomini che ammirano uomini. È sempre stato così privo di interesse. Io sono il frocio, la donna, il bambino, che ci faccio qui?”
Che ci faccio qui? Le dita tamburellano annoiate sulle file di sedie davanti. Mi do una controllata allo smalto rosso. Mi annoio. Io sono protagonista, favorita dalle riprese in POV, point of view. La telecamera sono i miei occhi, l’impazienza delle mani la mia, la voce fuori campo sono i miei pensieri a troppe lezioni, seminari, convegni. Le recenti tecnologie di ripresa, come piccole telecamere da vestire o gli stessi cellulari, hanno diffuso le riprese in soggettiva nel cinema e in modo esponenziale nel porno. L’ultima frontiera è quella del POV combinato al 3D grazie ad una mascherina che da l’illusione di stare direttamente sul set, portando le fantasie ai limiti della frustrazione. Estrema frontiera della scopofilia (Mulvey, 1975): il piacere visuale non è più quello del voyeur, ma la totale identificazione. Da questa prospettiva, l’esperienza del porno come “embodied image” così come definita da Annie Sprinkle (2001) è condotta alle estreme conseguenze. Nel porno, infatti, l’immagine cattura il corpo attraverso il desiderio, ma la tecnologia permette in modo totale questa convergenza. Sprinkle ha portato oltre i confini del genere la teoria della performatività di Butler, spiegandoci come la sessualità stessa sia una coreografia regolata da meccanismi di imitazione, ripetizione, aspettative e vie di fuga.
La pornografia permette di portare in scena – o sarebbe il caso di dire fuori scena dall’etimologia di osceno – la sessualità nel pubblico, portandola via dal privato; ciò significa anche renderla commercializzabile. Il capitalismo, in questo modo, riesce a capitalizzare anche la potenza masturbatoria dei corpi. Da qui l’invito di Paul B. Preciado a produrre nuovi porno, che creino sessualità comuni, collettive, condivise, copyleft, che siano liberate, ma soprattutto liberanti rispetto al mercato del porno mainstream e ai discorsi egemonici su sessi e generi (Preciado, 2013). E muovendosi su questa traccia che nascono e si diffondo porno queer, femminili o femministi, terroristi e tutto ciò che oggi viene messo nel contenitore post-porno.
Parlavamo di vie di fuga: mi alzo, raggiungo il professore, nella sala scura l’unica fonte di luce è lo scettro lunare fuxia, con cui lo zittisco. È in questo momento che il topos del porno da aula, quello del professore o della professoressa con lo/la studente, viene ribaltato. Le potenzialità del porno sono espresse principalmente dall’estetica che sollecita le fantasie, piuttosto che il contenuto in sé, che può essere anche abbastanza ripetitivo. È intorno a queste estetiche che si producono comunità e soggettività. Battezzo il professore lasciandogli il una striscia di glitter fuxia con il pollice sulla fronte, preparo il rito, peluches e fiori rosa. Lo schiaffeggio, intimandogli ancora il silenzio. Riempio finalmente la sua bocca con le mie dita, esploro, penetro. Nei suoi occhi la meraviglia. Impartisco ordini. Scrivo sulla sua pelle con il rossetto, scrivo ancora con gli schiaffi, scrivo sulla sua pelle in modo esplicito quali siano le relazioni di potere in questo amplesso. Scriverle in modo esplicito non significa solo sovvertirle, ma poterle negoziare, esprimere consenso, prendersene cura. Questa operazione di scrittura è parte della somatopolitica, un modo di ripensare le relazioni di potere a partire dai corpi, l’estetica del dolore è pratica sovversiva di cura. Sui nostri corpi è scritto da sempre l’ordine della medicina, l’imperativo della produzione e l’aspettativa della riproduzione, sono scritte frontiere materiali e immateriali tra nazioni e generi, i nostri corpi sono luoghi di battaglia ed in questo senso, luoghi di resistenze. È a partire dai corpi, dunque, che ribaltiamo la tavola, o in questo caso, la cattedra. Questi porno rappresentano l’interruzione nella storia delle rappresentazioni della sessualità – in cui le relazioni di potere erano trasparenti e il romanticismo una forma di disciplina – utilizzando una tecnologia di resistenza e sovversione. Nel dare consistenza alle relazioni di potere prendono forma le asimmetrie del sistema di produzione/riproduzione, mentre questa specifica performance punta il dildo contro la cattura dei corpi nel capitalismo cognitivo.
Lo metto a pecora e lo tengo con una presa forte per i capelli, mentre lui geme e gode. La voce fuori campo è ancora la mia voce interiore, che pronuncia lentamente ciò che non ho mai osato agire. “Il disperato bisogno di riempire di significato ciò che non ne ha, di riempire il vuoto dentro con l’autocompiacimento di ego smisurati, solo per riflettere sé stessi, è solo un desiderio di penetrazione mal canalizzato. Di essere riempito da qualcun altro.” Così lo spingo dietro, e schiaffeggiandolo ancora gli do questa lezione. In questo erotismo esiliato dalla sola genitalità, disseminato, ogni parte del corpo è penetrante e penetrabile, tutti i corpi e gli oggetti risignificati, esaltando l’incongruenza tra la biologia dei corpi e tutto ciò che possono performare. Nel porno mainstream la rigida divisione tra corpi penetranti e penetrati riproduce la divisione biopolitca che regge la stratificazione della nostra società. È a questo punto che avviene la sovversione: “sono il frocio, la donna, il bambino, sono sempre dentro di te”.
Il professore è a terra in posizione fetale e io raggiungo l’orgasmo e inizio a coprirlo del mio sperma. Secondo lo schema che Preciado definisce “platonismo spermatico”, l’eiaculazione è l’unica cosa reale del porno ed è spesso progettato per coincidere con l’eiaculazione dello spettatore (Preciado, 2013). Nulla di più vero di questo sperma vegano che cade da un corpo ignoto, queer, in cui lo sperma cade a pioggia, abbondante e imprevisto, come pratica di riappropriazione e destabilizzazione. Preciado chiama potentia gaudendi la forza orgasmica che conduce a compimento il potenziale desiderante; non ha alcun altro fine se non quello di realizzarsi, in modo incontenibile, oltre il tempo e lo spazio, l’assegnazione dei corpi ad un genere. L’unica energia che non può essere in alcun modo catturata.
Nel momento dell’eiaculazione avviene la mia desoggetivazione dal protagonista, eppure nulla è più desiderato e catartico di quello sperma che sommerge il professore che intanto spalanca la bocca per accoglierlo e chiederne sempre di più. “devi essere penetrato, profondo, lungo, forte. Profondo, lungo, forte. Sono il frocio, la donna, il bambino e sono sempre dentro di te. Ma tu non vuoi mai ammetterlo. Per questo devo penetrarti con violenza, forzarti, per sentirmi finalmente a mio agio. Farti sentire che ti sto dentro. All’inizio fa male, ma poi passerà. Imparerai a fartelo piacere. Questa è la catarsi. Sei rinato. Questa è grande arte.”
Lasse Långström è anche studente di cinema. Dopo una serie di seminari intensivi su Robert Frank è stato invitato a produrre un film ispirato al fotografo e regista statunitense. Il giorno della proiezione pubblica dei lavori assegnati ha presentato il suo film con i professori che avevano tenuto i corsi e avrebbero dovuto giudicarlo sul palco accanto allo schermo. Riaccesa la luce in sala, silenzio.

Archeologia della rete frocia: memorie della ‘Lista Lesbica Italiana’

Qualche settimana ho avuto modo di conoscere Katia, che mi ha ospitato insieme ad altre “queers” come ci chiamava lei. Ci ha coccolatu e viziatu e ci ha persino fatto dormire nelle lenzuola stirate. Eravamo lì, a Milano, per la presentazione di un libro e più in generale per parlare di transfemminismo queer a Lesbiche Fuori Salone.

Lista Lesbica Italiana Herstory

E’ stato in questa occasione che ho sentito parlare, a cena, di Lista Lesbica. Fino a quel giorno per me Lista Lesbica era uno striscione enorme che avevo visto a delle manifestazioni di movimento. Durante l’enorme manifestazione a Roma di Non Una Di Meno, quando la folla minacciava di disperderci in continuazione, lo striscione era diventato il nostro punto di riferimento per darci appuntamento e ritrovarci nello spezzone transfemministe. Credevo fosse un pezzo storico dell’attivismo lesbico italiano, mi immaginavo più radicale dell’associazionismo mainstream, ma neanche rivoluzionario. Vengo invece a sapere che era una mailing list per lesbiche molto attiva negli anni ’90. Rachele quando incontra la mia curiosità mi consiglia di chiedere a Katia se è interessata ad una discussione su lesbiche e criminalità. Non aggiunge altro. Appena torniamo a casa, ormai notte, chiedo a Katia: “Katia, sarei interessata ad una discussione su lesbiche e criminalità” e lei scoppia a ridere. Inizia il racconto delle storie: le lesbiche in lista cercavano in continuazione occasioni per incontrarsi, dare volti ad i nomi, molto spesso avatar, che leggevano in lista. E così inventavano in continuazione discussioni astruse come pretesti (tipo le lesbiche e la criminalità).

La Storia, però, quella ufficiale, è raccolta in “M@iling Desire. Conversazioni in una comunità lesbica virtuale”, un testo ibrido tra il saggio, la letteratura, ma soprattutto un’ inconsueta forma di oralità, a cura di diverse autrici, ed edito nel 1999 da Il dito e la Luna. La Storia, appunto, inizia nel 1996, quando durante la seconda settimana lesbica a Bologna, in un tavolo tematico sul rapporto tra donne e nuove tecnologie, nasce la Lista Lesbiche Italiana. È ancora Katia Acquafredda, nell’introduzione del libro, a chiarire, “Ospitata da Orlando, il Server del centro Documentazione delle Donne di Bologna, LLI avrà il suo inizio ufficiale nel novembre ’96 col proposito di facilitare, tra l’altro, la diffusione di informazioni tra diverse realtà del movimento lesbico italiano e stabilire connessioni stabili tra singole e gruppi”. In realtà la lista si trasforma molto presto in un primo esperimento di cyber socializzazione che precede la nascita delle community, dei forum e e un’era giurassica prima di Guapa, Brenda e le altre hook up apps.

A raccontare tutto è soprattutto Katia, la listowner, o la listauner, come viene chiamata in alcune mail raccolte nel libro, che conservano anche off topic ed errori di battitura, tracce della fretta, delle stanchezze, dei fusi orari o semplicemente della poca dimestichezza con una tecnologia con cui, all’epoca, toccava ancora familiarizzare. Intanto a Milano, spiaggiate sul divano insieme a me, anche alcune Llilline – così si chiamavano le iscritte – che avevano conosciuto sulla loro pelle il terrore de “La Telefonata”: per iscriversi bisognava mandare un numero di telefono per farsi contattare da una delle amministratrici che spiegava a voce tutte le raccomandazioni per tutelare la lista e la safety delle partecipanti, per esempio non far leggere le mail a persone indesiderate e quali accorgimenti usare prima della diffusione degli smartphone e quando i computer non erano così personal.

Com’è che le zebre finirono a limonare con gli unicorni

“Anche se i classici comunicati inviati dai gruppi non hanno mai smesso di circolare, la conversazione in lista si è fatta progressivamente più articolata e personale, generando così uno spazio di ricerca e riflessione, ma anche un luogo di incontro e aggregazione” ricostruisce ancora Katia, o altrimenti detto, è vero che la lista diviene una delle prime sperimentazioni di dispositivi tecnologici di rimorchio, ma è anche vero che ha attivato una serie di discussioni che hanno contribuito alla soggettivazione politica, individuale e collettiva, delle lesbiche italiane. Un pezzo di queste discussioni sono restituite pubblicamente nel libro, organizzato per thread/capitoli: presentazioni, coming out, fedeltà, maternità e lesbiche sposate. Particolarmente interessante è stata la lettura del thread “Cos’è una donna?”, in cui, a partire dall’opportunità di accettare in lista Helena Velena (un nome chiave delle controculture cyber e punk in Italia) si discute il posizionamento delle lesbiche rispetto alle trans e più in generale si pone la sfida all’identità lesbica oltre il femminile essenzializzato. Alle spalle, ma non troppo, di questa sfida c’è anche un dibattito molto aspro sulla democraticità dello strumento e su come vengano prese le decisioni. All’epoca la sfida non viene raccolta e Katia decide per tutte, scaricando Helena Velena. Non so se loro si siano mai rincontrate per riaprire quella discussione. Tuttavia, nello scambio di messaggi è possibile riconoscere quello che Liana Borghi, nella mail di postfazione indirizzata alle Llilline, definisce un “lavorio rizomatico” di una coscienza politica in formazione, tra la necessità ancora stringente di soggettivazione lesbica, ma anche la profezia di un processo creativo che produceva nuovi cyber-terreni di sfida alle politiche identitarie, quando queer era ancora solo una parolaccia. E noi eravamo lì, invitate da Katia, che ci regalava una spilla con una zebra e un unicorno che limonavano, la sfida di uno nuovo terreno di incontro tra il lesbismo storicamente separatista e il transfemminismo queer.

Archeologia dell’interfaccia frocia

Tra i suoi racconti mi hanno colpito soprattutto quelli in cui la lista ha funzionato materialmente da rete di supporto e cura per le ragazze che venivano sbattute fuori di casa, provvedendo in alcuni casi a trovare perfino un tetto e un lavoro. La rete, insomma, era davvero una rete tutt’altro che virtuale, ed è ancora Liana Borghi a sfidare questo confine: “Chi lo dice che la Rete è solo un simulacro del reale? La Lista, non vi sembra un luogo reale di scambio? Non è forse lo spazio interattivo del nostro desiderio? Una nostra polis? Dicono che la Rete sia un ambiente tattile dove la scrittura multimediale traduce il desiderio in simbolico”. Emerge il divenire consistente di una comunità di affetti e politica tra i racconti di Katia e le mail raccolte nel libro, che ancora conservano le mail attive delle Llilline, proprio per permettere di poter riattivare il thread con nuove risposte, rendendo ibrida la carta stampata attraverso questi collegamenti. Già nel 1999, anno di pubblicazione del libro, la retorica cyber pessimista parlava molto della distruzione della socialità negli spazi pubblici e delll’isolamento, ma quello che leggo in queste pagine è invece la possibilità di costruire soggettività, politica anche molto identitaria, addirittura non sempre esplicitamente politicizzata, ma soprattutto forse reti di neo-mutualismo a partire dalla relazione tra ‘virts’, le llilline. Ho ripensato a tutto questo mettendolo in relazione a quello che Roberto Terracciano ci ha insegnato sulle nuove interfacce delle hook up che lasciano aperto il canale esclusivamente allo scambio uno ad uno. E così questa archeologia della rete frocia non ci invita ad alcuna malinconia del tempo passato, ma piuttosto ci obbliga ad interrogarci sull’architettura dello spazio cyber da cui non possiamo lasciarci isolare poichè con sempre maggiore insistenza investiamo i nostri desideri di riconoscimento e di rimorchio.

André Jaque's Intimate Strangers

Rimorchiati dal design. Lo spazio pubblico e la politica dell’interfaccia di Grindr.

Ci siamo incrociati nel caos della grande manifestazione contro la violenza maschile sulle donne: aveva folte sopracciglia che facevano ombra su uno sguardo sghembo, la barba corta disegnava morbidi vortici sulle guance, vestiva una t-shirt che gli stava come su una gruccia e uno shopper di tela bianco. L’avevo già visto altrove, campeggiava da mesi tra i suggerimenti delle persone che avrei potuto conoscere su Facebook. Una sera qualche giorno più tardi, prima di parcheggiare la testa sul cuscino, stanco della geografia disegnata dal mio Grindr, attivo uno dei pochi filtri gratuiti disponibili – le tribù – e scelgo otter.

Il ghigno di una lontra

Da quello che vedo capisco che i ragazzi-lontra, gli otter, sono come gli orsi, ma meno grossi. È tutto quel che so, non so se esiste una cultura che sostiene quel tipo di corpo, se di corpi si parla. Il primo è a 180 km. Ho imparato a indovinare le località geografiche dal numero di km. 200 metri indica l’Holiday Inn che vedo dal terrazzo, 3 km il centro storico, 400 km Firenze, 700 Torino, 1600 Londra, 180 km è Roma. Il primo era lui, quello della manifestazione, in una smorfia che gli alzava l’angolo della bocca e gli corrugava la fronte. “Ciao, ti ho visto alla manif, ma non ti ho fermato perché non sono bravo con ‘ste cose, ti va di fare due chiacchiere?”.

Esiste una geografia differente sulle applicazioni per incontri, disegnata dalle coordinate di ogni dispositivo che intimamente si connette ai desideri (e alla noia) di ogni corpo e li cattura in parametri come altezza, età, tribù, e un motivo per restare connesso. Incontro? Sesso? Amicizia? Chat? Frequentazione? Relazione? No. La noia non è prevista in questa geografia. È una geografia viscosa che si fa più densa nelle grandi città, in cui la versione gratuita non ti fa guardare oltre i tre isolati e più rarefatta nelle periferie dove la persona più prossima è a un’ora di macchina. È una geografia stratificata in cui persone che calpestano lo stesso fazzoletto di terra, non riescono a incontrarsi perché planano negli strati delimitati dalle proprietà che definiscono la propria identità e il proprio desiderio.

Nonostante sia ancora imberbe, Grindr ha rivoluzionato la socialità non solo nella comunità gay insegnandoci un nuovo modo di utilizzare lo smartphone, ma è ormai un riferimento tecnoculturale presente in romanzi, film, serie televisive e istallazioni artistiche. Lanciata nel 2009 da Joel Simkhai, l’applicazione con il suo design a griglia ha in qualche modo sdoganato l’uso delle chat online non più percepite come pericolose o disegnate per persone che non sono in grado di gestire la propria socialità e la propria sessualità offline. Le app hanno aperto nuovi spazi di interazione tra il mondo fisico e quello virtuale ed ogni app di geolocalizzazione installata da un utente sul proprio smartphone è un modulo che lo soggettivizza all’interno di una spazialità che non è più pubblica ma nemmeno completamente privata. Dopo essere stata citata da Stephen Fry nel programma britannico Top Gear, i download dell’applicazione sono aumentati esponenzialmente e assieme ad essi le perplessità che riguardano la privacy, triangolazione e tracciabilità.

Il design a griglia di Grindr e messaggi diretti alla sicurezza degli utenti in contesti di omofobia istituzionale

L’arte ai tempi di Grindr

Nel 2014 l’artista olandese Dries Verhoeven scosse il dibattito sul tipo di spazialità generata da questo tipo di app con la sua installazione Wanna Play? Liebe in Zeiter von Grindr – l’amore (sic!) al tempo di Grindr. La performance-residenza, commissionata dallo spazio berlinese Hebbel am Ufer (HAU) e dal governo olandese, consisteva in un container che riproduceva e confondeva lo spazio fisico con quello digitale: la quarta parete del container era infatti una vetrata che permetteva la visione dell’ambiente interno. Sulla parete posteriore venivano invece proiettate le schermate dell’app di Verhoeven, in negativo. La proiezione dei profili e delle conversazioni era stata percepita come un attacco agli abitanti di Kreuzberg, quartiere storicamente abitato da persone migranti (e) LGBTQI. In particolare un utente di Grindr, Parker Tilghman, dopo essersi reso conto che le conversazioni con Verhoeven erano state proiettate in pubblica piazza senza il proprio consenso, recatosi all’appuntamento nel container di Verhoever, gli sferrò un pugno e in seguito lo chiamò Stupratore digitale su Facebook. In un lucido e arrabbiato articolo pubblicato dal Mute Magazine la settimana successiva, Jacob Rosemberg smantellava il container concettuale di Verehoven (e il tentativo da parte di HAU di mettere a valore l’incidente cucendo la ferita apertasi con il filo dell’arte relazionale). L’articolo smontava in particolar modo la convinzione dell’artista di sollevare il dibattito su cosa fosse lo spazio pubblico e privato ai tempi di Grindr, facendo notare che la sfera pubblica e quella privata – e la distinzione tra le due – si inseriscono in un contesto determinato da interessi privati.

Di tutt’altro tenore è invece l’istallazione Intimate Strangers di Andrés Jaques e del suo studio di architettura critica Office for Political Innovations, in corso fino ad aprile 2017 al Design Museum di Londra nell’ambito della mostra Fear and Love fino ad aprile 2017. Esplosa su differenti schermi di diverse forme e dimensioni, e divisa in 4 episodi, Intimate Strangers apre alle contraddizioni di Grindr e delle applicazioni di proximity-based people discovery, al modo in cui cattura la soggettivazione degli utenti e dalle linee di fuga che apre. Nei 4 episodi l’architetto ispano-americano racconta le hook up apps come tecnologia di un urbanità transmediale, la cui diffusione nelle grandi città rispecchia in qualche modo il processo di gentrificazione di quartieri queer informali e la costruzione di un nuovo mainstream, ma anche come tecnologia che si apre al controllo (in Stati con leggi omofobe) e come tecnologia di resistenza per la costruzione di reti solidali. L’installazione di Jaque è stata pubblicizzata sui social di Grindr, ma se il blog di Simkhai sul sito di Grindr e il suo account Instagram ci raccontano un’app aperta sensibile alla queer politics, il design dell’esperienza utente dell’applicazione narra una storia diversa.

Spazio pubblico digitale e soggettivazione

È Tim Dean nella sua autoetnobiografia sul bareback (come pratica e come sottocultura) a tracciare la genealogia della logica di privatizzazione e di messa in sicurezza di spazi altrimenti aperti e attraversabili, in cui i corpi si incontra(va)no, esprimendo l’eccedenza rispetto alla forma di intimità familiare legittima e saldando così solidarietà che emergevano in forme anonime di intimità illimitate. Il buio notturno degli spazi aperti si è man mano rischiarato nella penombra delle darkroom, nell’opacità delle saune, e in fine nello spazio digitale che brilla di luce propria dallo schermo LCD degli smartphone. A questa graduale illuminazione, le app hanno corrisposto un processo di messa in sicurezza (security) del rischio nell’incontro, senza però creare uno spazio sicuro (safe).

Le applicazioni per incontri hanno tirato lo spazio del cruising fuori dai suoi confini scuri redistribuendolo su quello urbano ma nel privato delle case, delle palestre, delle discoteche frammentando la socialità di soggetti-dati che si dis-vedono a vicenda in base al desiderio che le app catturano. Come nel romanzo di China Miéville, La città e la città , le app producono spazialità multistrato in cui la cittadinanza (nel caso del romanzo) o l’identificazione con una tribù (come vengono chiamate da Grindr) dirige la socialità su binari che solcano lo stesso spazio ma che non si incontrano mai. La dis-visione o visione selettiva è una tecnologia di confine tipica nelle interfacce di questo tipo di app e governa la socialità tra i suoi utenti.

Per Benjamin Bratton, il software è una forma di governo che si distribuisce su una geografia verticale sebbene non gerarchica, non più compresa soltanto dai confini geografici, ma da una sovrapposizione di infrastrutture, di utenti, di città e di interfacce e, ovviamente, di piattaforme. Le interfacce delle piattaforme che restituiscono una nuova visione del mondo, rispondono a una logica e a una architettura di programmazione problematica perché mette a lavoro i corpi che transitano sulle app e ne producono una narrazione, espropriandoli dei propri dati: le piattaforme e le loro interfacce disegnano una società a propria immagine e somiglianza.

Da Buzzfeed: se i personaggi Disney fossero su Grindr

La narrazione prodotta dalla quantificazione del sé accompagna la ricodificazione di pratiche dirompenti, ad esempio quella degli orsi, inizialmente una controcultura in rotta di collisione col paradigma estetico maschile dominante, in identità che riaffermano il modello di mascolinità egemonica, spesso bianca (mxm, no grassi, no feminelle, no asiatici, no neri). In questo spazio, in cui anche la posizione geografia dell’utente ne definisce un aspetto ovvero una proprietà, il sé quantificato ci interpella da un punto di vista politico e ontologico.

Dalla prospettiva transfemminista queer, Nina Ferrante osserva come la promessa lasciata dal postmodernismo negli anni 90, ovvero quella di identità temporanee e liquide abbia lasciato il posto alla cristallizzazione di pratiche come vetri di un caleidoscopio di identità date. Ad esempio, l’apertura di Facebook rispetto al binarismo dei generi, in seguito a una protesta di trans* e drag-queen che reclamavano la materialità delle proprietà dei corpi online, seppur non disciplinando i corpi degli utenti, non rompe il paradigma dell’identità, ma a partire dai data-commons prodotti (i post di protesta on-line) ha implementato una logica del +1 che non mette seriamente in questione tale paradigma né da un punto di vista politico né da un punto di vista di ecologia di dati. Al contrario se ne fa proprietario e lo governa.

Sulla base di questo tipo di governance delle pratiche nel loro cristallizzarsi in identità, Tim Dean sottolinea l’eccesso prodotto dalle occasioni nel loro divenire proprietà. Secondo Dean, molte persone che praticano sesso senza preservativo (come molte coppie monogame gay) non si riconoscono in una sottocultura bareback, né il porno anni ’70 veniva commercializzato come tale. Piuttosto la codificazione della sottocultura è partita dalla massiccia campagna di profilassi all’indomani dell’epidemia AIDS tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Allo stesso modo, il dispositivo biopolitico dell’interfaccia di Grindr (la griglia, i parametri) individua un insieme di dati fisici, estetici, etnici, culturali e medici ridotti in proprietà e identità spesso non sovrapponibili (almeno nella versione gratuita).

Le proprietà e l’esperienza utente

Grindr e la quantificazione del sé

Ma a chi appartengono le proprietà di un corpo, se per proprietà si intendono sia gli attributi che i possedimenti? Traendo spunto dalle tesi del filosofo e matematico inglese Alfred North Whithead,  Stamatia Portanova sostiene che le proprietà dei corpi vengono individuate attraverso i “dati iniziali” o le occasions (ovvero gli incontri, le pratiche); il lavoro di individuazione risulta nella produzione di data commons che vengono misurati e messi a valore online. L’eco-logica capitalista delle app per incontri cattura le proprietà emergenti dei corpi imbrigliandoli nel lavoro di interazione con la app stessa. Dal momento che gli attributi sono anche possedimenti, le griglie dell’interfaccia li trasferiscono nell’economia della condivisione sotto forma di informazioni o oggetti-dati.

Non solo alcuni dati sono ritenuti dall’applicazione come spazio digitale privatizzato ma sono le stesse relazioni sociali che vengono frammentate e ridotte a una comunicazione uno-a-uno e rese invisibili agli utenti. Un app dei commons, continua Portanova, restituirebbe la ricchezza generata dai dati ai “legittimi proprietari” ma non romperebbe con il funzionalismo dell’ecologia delle app, secondo il quale l’unico punto di accesso all’app è la funzionalità che soddisfa il desiderio (there’s an app for that!). E tuttavia, è l’essere disfunzionale delle app per incontri a renderle così popolari.

Parlando con un amico della mia ricerca, ci siamo lanciati in un esercizio di design fiction à la Black Mirror, immaginando un’applicazione che, come Uber e Airbnb, permetta di dare un voto alla performance del partner sessuale/amante incontrat* online. Questo esercizio distopico mi ha fatto riflettere sulla necessità di immaginare l’app-a-venire partendo da una visione politica della progettazione dell’esperienza utente (UX Design). Non conosciamo gli scenari che la tecnologia ci riserverà nel futuro, ma per il momento il digitale fa parte della nostra esperienza del reale. Eppure possiamo già immaginare le funzioni della app a venire, ancor prima di avere in mano smartphone quantici che sconvolgano le nostre categorie di pensiero. E lo si può fare a partire dall’occasione che l’app vuole generare, non più l’incontro ma una ecologia di relazioni e di dati di proprietà comune per fare in modo che la geografia disegnata dalle app sia sicura (safe e non secured), solidale e non identitaria.

È tardi e mi sono addormentato con il telefono acceso. Mentre io dormivo il mio sé quantificato si mostrava disponibile a chattare, incontrare, annoiarsi assieme. Il mattino seguente leggo la sua risposta “mi andava di scambiare due chiacchiere ma sono crollato”. Fine delle comunicazioni.

Il trono gay di Uomini e donne. Appunti sul regime di visibilità omonormativo in Italia

 

Marò so troppo belli quei ragazzi. Maria ha fatto troppo bene ad invitarli. Ha fatto vedere che lui era fidanzato per cinque anni, hanno vissuto insieme… proprio come i fidanzati. Sono bellissimi, tanto rispettosi. No, non vanno travestiti, proprio come i maschi. Sono persone normali come tutti quanti gli altri. 

scelta-claudio

È la parola “normali” ad autorizzarmi a seguire a bocca spalancata e occhi sgranati la conversazione tra le due signore in Circumvesuviana. In generale non riesco a resistere alle conversazioni altrui sul treno, ma solitamente provo a seguire con maggiore discrezione; questa volta però, la parola normalità, fa scattare quel campanello che mi autorizza a non provare vergogna per i miei guilty pleasure: “interesse di ricerca”. La stessa scusa che uso ogni volta che devo giustificare in certi ambienti la mia passione per la televisione e la cultura pop. “Interesse di ricerca” è quello che mi ha autorizzato a tornare a guardare dopo anni Uomini e donne. Evidentemente non riesco proprio a contenermi e la signora, che mi trova a fissarla a mandibola slogata, m’ interpella con lo sguardo: che guard a fa?! Ed io: Signora scusate ma mi ero persa la puntata di ieri; mi potete dire che è successo?

In realtà ho seguito questa vicenda dall’inizio dell’estate scorsa, quando si rincorrevano prima i rumors, poi notizie più fondate, su un possibile trono gay ad Uomini e donne per celebrare in tv le unioni civili. Ad onor del vero ci sono dei – se pur non illustrissimi – precedenti. È già nel 2012 va in onda sull’emittente privata Napoli TV Made in love, che ricalcando il format di Canale5, invita “cacciatori” gay a corteggiare i “protagonisti”, in studio e in esterne, sotto gli occhi di una “giuria” di opinionisti, che ha visto sfilare –questa volta sì- illustri nomi, come Anna Paola Concia. Certo NTV non può vantare la stessa distribuzione di Canale5, ma la trasmissione ottiene un discreto successo attraverso la sperimentazione della distribuzione on line, grazie ad un sito e un canale Youtube. Di certo non avrà contribuito come Uomini e donne per un nuovo senso di accettazione nella comunità nazionale, ma di fatto la trasmissione non rimane un fenomeno folkloristico e va letta come una prima esperienza nella produzione di una comunità di froci che si riconoscevano negli stessi valori e nello stesso desiderio di rappresentazione.

Alla fine di agosto il mio viaggio in bla bla car Messina Napoli (quattro froci e una frociarola) ha avuto al centro della nostra chiacchierata proprio questo hot topic. Abbiamo letto e commentato diversi articoli da diversi siti in cui erano segnalati papabili tronisti, tutti sbagliati, ma una sola grande verità, la redazione cercava un vero uomo: MxM come si scrclaudio-sonaive sulle applicazioni da rimorchio gay, maschio che cerca maschio. Se in generale ci sarebbe molto da riflettere sulla misoginia espressa all’interno dello spazio gay, nello specifico di questa trasmissione televisiva, la produzione di un modello di gay egemonico viaggia di pari passo con la riaffermazione costante della mascolinità egemonica, con continui riferimenti al vero uomo, un modello a cui per la prima volta anche i gay hanno accesso. Claudio è un vero maschio, e tra i suoi corteggiatori no femminelle, tutti con le barbe, molti risvoltini, ma nessun polso piegato, nessun accenno, nessuna eccedenza dal modello antropologico “corteggiatore”. Distinguerli dai corteggiatori che sono lì per l’altra tronista infatti è impresa difficile, anche perché la parola gay non è mai pronunciata, raramente quella omosessuale. Mi confondo definitivamente quando scopro che nella puntata ci sono due tronisti omonimi e per distinguerli usano l’espressione “l’altro Claudio”.

È interessante notare come la mascolinità esploda nel momento in cui viene messa in scena nella sua rappresentazione più stereotipata; durante una delle puntate Mario, uno dei corteggiatori, invita Claudio a conoscere la sua squadra di calcio e, raccontando il suo coming out, lanciano due tiri in porta. I corpi sudati in quello spazio omosociale[1] non permettono tanto ai protagonisti di iscriversi nel maschile egemonico, ma mostrano come la mascolinità stessa sia un insieme di dispositivi che forniscono strumenti di narrazione a chiunque voglia posizionarsi in quello spettro[2]. In questo modo la mascolinità come dato essenziale esplode, rendendo inoltre manifesto il desiderio omoerotico in uno spazio solitamente molto rigidamente segnato da argomenti machisti.

Se alcune parole rappresentano un vero e proprio tabù altre sono al centro di questa messa in scena televisiva: uguale e normale. Questo mantra è ripetuto da chiunque prenda parola dalla prima puntata in cui viene presentata questa sperimentazione, fino alla fatidica scelta, in cui la senatrice Monica Cirinnà, autodefinitasi “umile legislatore”, ringrazia Maria De Filippi per aver presentato questa questione al grande pubblico: “Grazie per il senso di normalità. Questa è la parola più importante”. Sono d’accordo: normalità è la parola più importante. Il perimetro della norma che disciplina lo spazio pubblico non produce la sua forza nell’autorità di escludere ciò che sta fuori, ma nell’autorevolezza di allargare i propri confini mobili portando al suo interno sempre nuovi soggetti, ma solo dopo averli resi docili, bonificati. La norma funziona solo in parte attraverso i dispositivi legislativi, gran parte del suo potere è nella sedimentazione di dispositivi culturali che la ribadiscono e legittimano fino a renderla trasparente, fino a renderla la normalità[3].

Credo che sia banale dire che la trasmissione partecipi allo stesso progetto di normalizzazione dell’omosessualità in Italia, che ha prodotto nei mesi passati una legge che permette anche al nostro paese di mettersi al passo con gli altri nella retorica “è l’Europa a chiedercelo”. In questa prospettiva progressista, proprio nel senso che ci sono paesi che stanno più avanti ed altri più arretrati rispetto al modello liberale omosessuale, l’Italia non aveva da recuperare solo da un punto di vista legislativo; molto ancora resta da fare nella creazione di una cultura nazionale che permetta l’assimilazione e soprattutto nella fabbricazione di un modello di gay tollerabile, proprio perché assimilabile. Partendo da queste considerazioni credo che il trono gay sia stato il programma che più ha contribuito negli ultimi anni alla produzione di un “regime di visibilità omonormativo”. Se il regime di visibilità è l’insieme delle norme che regolano la rappresentazione di alcuni soggetti, questo può essere definito omonormativo descrivendo la traiettoria di assimilazione dell’omosessuale nel mainstream, in un regime culturalmente e politicamente egemonico[4]. Gay e lesbiche, un tempo tra i soggetti più destabilizzanti per l’ordine della società, oggi sono assimilabili, perché funzionali, al progetto di rifondazione dell’Occidente nel sistema neoliberista. Il regime di visibilità omonormativo in Italia, ed in questo senso il trono gay, è evidentemente parte del progetto di normalizzazione della comunità LGBT nella retorica europeista dei valori liberali.

Tuttavia la parte più interessante di questo discorso gira intorno alle contraddizioni di questo regime di visibilità omonormativo italiano, fondato per lo più su ciò che deve restare invisibile. Nelle prime esterne i corteggiatori continuavano a parlare del loro coming out, raramente pronunciato in questi termini, molto più spesso si utilizzava l’espressione “come hai detto quella cosa lì?”. Queste narrazioni mi hanno presto disaffezionata, ormai bruciata dall’esperienza. Infatti fino all’arrivo delle prime serie completamente dedicate alla rappresentazione di comunità gay e lesbiche (penso a Queer As Folk e L World), i froci nelle serie televisive avevano spazio nella trama solo per tutto il tempo in cui vivevano le tribolazioni dell’accettazione. Arrivat* al coming out rimaneva giusto lo spazio per trovare un partner, magari fare un figlio, per poi morire in modo tragico o essere convocat* da improrogabili impegni all’altro capo del mondo. Addio Nancy, la prima lesbica a fare coming out in Roseanne (Pappa e Ciccia in italiano), addio alla dottressa Weaver in ER. In Italia è ancora così: qualcuno ha notizie su come stia Sandrino Palladini di Un posto al sole?

Temevo che anche in Uomini e donne avesse preso quella china, fino a quando la signora in Circumvesuviana non mi ha convinta a risintonizzarmi e sono stata rapita da diverse (noiosissime) puntate in cui Claudio, Mario e Francesco, i suoi corteggiatori, litigavano sull’opportunità di mezz’ora di esterna senza telecamere. Francesco, aveva beneficiato di questo privilegio per poter baciare Claudio, e Mario, furioso di gelosia, continuava a rifiutare questa possibilità, sognando un bacio al supermercato. Ma è proprio Claudio a ribadire più volte che l’espressione dell’affettività è qualcosa di privato, da sperimentare solo negli spazi appropriati. Si crea nel mio cervello un corto circuito tra quello che diceva la signora, e in buona sostanza festeggia l’intera opinione pubblica, cioè la possibilità di vedere i gay come uguali e normali, e ciò che si poteva vedere concretamente nella messa in scena televisiva: niente! In una trasmissione che solitamente non è avara nell’espressione di un erotismo anche molto esplicito; ma ciò che trovo degno di nota è che l’argomento utilizzato da Claudio in trasmissione, osannato dagli applausi del pubblico in studio (vera e propria tifoseria del tronista) è esattamente lo stesso che in modo rabbioso hanno utilizzato gli omofobi per commentare la trasmissione: “certe cose le fai a casa tua”. Dentro e fuori la trasmissione, protagonisti, fans e detrattori si sono allineati nella ricostruzione di un muro invalicabile tra il pubblico e il privato, e la costruzione di uno spazio appropriato per la manifestazione dell’affettività.

La normatività della cultura eteropatriarcale ha da sempre barricato l’intimità nella sfera del privato, rendendola l’istituzione esclusiva e privilegiata per rapporti che non possono essere considerati nudi del loro valore politico[5]. La retorica di un’intimità serena nasconde in realtà un discorso ideologico di disciplinamento, assicurando un rifugio, un nido sicuro, per colorclaudio-e-marioo che adottano un stile di vita “proprio”. L’intimità è un premio/una consolazione per chi accumula frustrazioni nella quotidianità dell’oppressione e dello sfruttamento della vita pubblica. Questo nido è la prigione in cui confinare ogni forma di sessualità non conforme, soprattutto quelle che hanno ripercussioni nello spazio pubblico e s’impongono con la visibilità, pretendendo riconoscimento. Normalizzare, dunque, significa bonificare tutto ciò che evade dallo spazio del privato creando la convenzione per qualunque narrazione di affetti. La matrice eteronormata, attraverso il rispetto più o meno consapevole delle forme di relazione istituzionalizzate, si radica nella struttura della nostra società fino a farsi trasparente; in questo modo essa può continuare a regolare la normalità oltre i confini del sesso e della pratica eterosessuale in un regime di visibilità che anche in questo senso può essere definito omonormativo.

Con un balzo indietro di 40 anni rispetto all’irruzione del femminismo, che ha sfidato i confini tra pubblico privato, e con la completa cancellazione di altrettanti anni di lotta per la visibilità frocia, la questione viene riproposta esclusivamente attraverso il coming out: il gay italico viene allo scoperto in questa pratica performativa che produce se stesso come docile cittadino e ringrazia il mondo intorno per lo sforzo d’accettazione. In questa prospettiva fa la differenza quella che nel corso della trasmissione può essere definita la “questione madre”. Le madri dei corteggiatori, infatti, sono molto presenti e hanno un ruolo centrale nello svolgimento della narrazione e nella costruzione della parte più emotiva del format. Entrano nello schermo della rappresentazione portando con sé vecchie foto, raccontano il passato, le storie più dolorose, augurano un futuro d’ amore romantico, auspicano un matrimonio, sognano nipoti. Sono portatrici di memoria e custodi della tradizione, rappresentando la possibilità di un cambiamento rassicurante, di una trasformazione personale che non cambi le regole d’ intellegibilità sociale dei valori tradizionali e familisti. Ma il segno che qualcosa è cambiato nella società è proprio nella puntata finale, nel catartico bagno di folla partenopeo. L’ultima esterna prima della scelta si svolge proprio a Napoli tra mandolini, sfogliatelle, pastori e un panorama umano che nulla ha da invidiare ai personaggi dei presepi. La rappresentazione del centro storico è quella solita dello zoo umano in cui orde inseguono la bellissima coppia di stranieri, regalano dolci, corni benauguranti, formulano riti propiziatori. Tutto rigorosamente sottotitolato, anche quando è in italiano, a sottolineare come si tratti di qualcosa di incomprensibile, culturalmente diverso. La folla urla diverse volte “Claudio, Napoli ti ama”. Dunque anche il Meridione, che nella rappresentazione televisiva è ancora legato alla narrazione di una comunità barbarica presente sul suolo nazionale, irriducibilmente legata ai valori più retrivi, è ormai pronto al cambiamento: se la madre può cambiare, se Napoli può cambiare, tutto il mondo può cambiare.

Questa idea di cambiamento è però completamente epurata da qualunque progetto di trasformazione sociale, in cui le froce possano destabilizzare il paradigma delle mascolinità egemoniche, in cui altre intimità possano sfidare i valori della famiglia tradizionale, in cui la rappresentazione di altre sessualità non conformi possano fare esplodere i confini di disciplina dello spazio privato. Forse allora dovremmo collocarci proprio sul margine meridiano nella sfida al regime di visibilità omonormativo, per recuperare le storie di resistenza dei femminielli al fascismo e alla disciplina dei generi; dovremmo narrarci come queer terrone, praticare l’abiezione come un atto terrorista contro il modello progressista dell’Europa liberale, che cancella un passato di resistenza e tenta di riscrivere un futuro disciplinato da nuovi paradigmi di assimilazione; dovremmo resistere alla tentazione di spostare un po’ più in là l’asticella dell’accettabilità e distruggere qualunque tipo di confine, materiale e immateriale.

 

 

 

[1] Sedgwick Kosofsky, Eve. 1985. Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire. New York: Columbia University Press.

[2] Halberstam, Jack (Judith). 1998. Female Masculinity. Durham: Duke University Press.

[3] Butler, Judith. 2014. Fare e disfare il genere. Milano: Mimesis Edizioni.

[4] Duggan, Lisa. 1994. «Queering the State». Social Text 39 (39): 1–14.

———. 2004. The Twilight of Equality?: Neoliberalism, Cultural Politics,

and the Attack on Democracy. Boston, MA.

Puar, Jasbir K. 2007. Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times. Durham: Duke University Press.

Stryker, S. 2008. «Transgender History, Homonormativity, and Disciplinarity». Radical History Review

[5] Berlant, Lauren, e Michael Warner. 2007. «Sex in Public» 24 (2): 547– 566.