Skip to main content

Piattaforme politiche in Europa – L’utente invisibile

(Cover: Fabrice – Muiderpoort Station, Amsterdam 2010, detail. Photo: Giulia May)

 

In un presente distopico marcato da isolamento fisico, le piattaforme digitali stanno acquisendo un ruolo ancora piu’ centrale nelle nostra vita sociale e privata. Ci fanno essere vicini ai nostri cari, trovare informazioni (utili o meno), ripensare le connessioni lavorative, trovare corsi di yoga online, comprare cose e condividere contenuti emozionanti o ansiogeni – in breve ci fanno essere parte di un sistema interconnesso di comunita’ vicine e lontane.

Se le conseguenze sociali, culturali e psicologiche di questi nuove dinamiche di interazione con i media digitali sono ancora da vedersi, appena prima dell’inizio dell’era della pandemia una serie di studi stavano cercando invece di misurare l’impatto delle piattaforme digitali sulla partecipazione politica. L’ultimo numero del 2019 dell’International Communication Journal, con una sezione speciale dedicata alle piattaforme politiche in Europa, sembra l’occasione ideale per cercare di riprendere qualcuna delle domande sospese sulle piattaforme digitali e il loro uso politico – mentre cerchiamo di processare altri usi in versione amplificata dal nostro isolamento iperconnesso.

Curato da Marco Deseriis e Davide Vittori, lo speciale include sei casi studio sull’uso delle piattaforme digitali in diversi contesti europei e da parte di vari attori politici. Se il filo comune è come ogni piattaforma renda possibile delle forme di partecipazione politica, una domanda centrale rimane latente e inespressa: chi sono le persone che usano queste piattaforme digitali, come le usano e perché’ in questi studi non hanno quasi mai voce?

1. Le piattaforme digitali nel “lungo decennio”

Piattaforme sociali e/o piattaforme politiche. Il lungo decennio, come Deseriis e Vittori chiamano quello che si è appena chiuso, è stato dominato da movimenti anti-autoritari e anti-austerità che hanno incorporato l’uso dei social media in maniere nuove e dirompenti. Se la logica dei social network commerciali può avere facilitato i movimenti nella loro fase iniziale, si è rivelata presto meno adatta a sostenere strategie a lungo termine (van Dijck & Poell, 2013). Per questo diversi gruppi hanno cominciato a orientarsi verso strumenti specializzati (e software open-source) per supportare i loro processi decisionali. Deseriis e Vittori insistono che gli elementi comuni a social media platforms (SMPs) e digital democracy platforms (DDPs) rimangono più importanti delle differenze, nonostante queste siano significative. Da una parte le SMPs, nate per estrarre profitto da dati personali e informazioni condivise, che però data l’ampia base di utenti hanno contribuito a rivitalizzare l’azione politica. Dall’altra le DDPs, fatte per essere di supporto a processi di partecipazione e deliberazione, ma di fatto spesso limitate nel loro impatto e raggio di azione.

Come influisce la logica algoritmica sulla partecipazione? Un tema importante nei dibattiti recenti è stato quello sulla ‘logica algoritmica’ dei social media, e quanto questa condizioni l’agency politica degli utenti. C’è chi sostiene che la logica algoritmica, che ha sostituito la logica editoriale dei media analogici, condizioni la partecipazione in maniera più sottile e pervasiva (e.g van Dijk & Hacker, 2018). Altri enfatizzano invece la creatività e ingegnosità degli utenti, dimostrando come si possa giocare con le funzionalità di ogni piattaforma e aggirarne i limiti (e.g. Clark et al., 2014). Un’altra autrice che contribuisce allo speciale, Maria Bakardjieva, conclude che “la partecipazione dei cittadini… non può essere ridotta alla sola architettura delle piattaforme, ma ne è sicuramente influenzata”. Quello che fa la differenza, sostiene Bakardjieva, è “chi partecipa? A cosa? Per quale scopo?”.

 

(Street mosaic in Grodno, Belarus. Photo: Victoria Strukovskaya)


2. Gli utenti delle piattaforme istituzionali

Una piattaforma può rafforzare i membri di un partito? Deseriis e Vittori cercano di valutare l’impatto delle piattaforme usate da Podemos e da 5 Stelle, rispettivamente Participa e Rousseau, sulla democrazia interna dei due partiti e gli squilibri di potere. Entrambi i partiti hanno un forte “orientamento tecno-populista” (Deseriis, 2017), ma allo stesso tempo sono caratterizzati da traiettorie politiche e ideologiche profondamente diverse, riflesse anche da modelli organizzativi divergenti: una varietà di nodi decisionali centralizzati e decentralizzati (Podemos) contro un modello senza alcun intermediario tra vertici e membri di partito (5 Stelle). Deseriis e Vittori sostengono che, nonostante queste distinzioni, in entrambi i casi le funzionalità delle piattaforme sono utilizzate in maniera molto selettiva, per confermare soprattutto decisioni già prese dai vertici di partito. Questa potrebbe essere una delle ragioni del netto declino dei partecipanti al voto che entrambe le piattaforme hanno registrato dopo il primo anno di vita. Altre possibili ragioni includono l’abbandono dei primi iscritti, o il fatto che ai membri viene richiesto di votare troppo frequentemente, o – nel caso di Rousseau – che agli utenti non vengono offerte altre prospettive se non quelle dei vertici quando si tratta di votare su argomenti controversi. Di certo per confermare queste ipotesi ci vorrebbero nuovi studi, che dovrebbero includere anche gli utenti di entrambe le piattaforme.

Una piattaforma può mantenere alta la qualità del dibattito nel tempo? Guardando solo a quello che succede sui social media verrebbe da rispondere no, ma anche le amministrazioni locali in Europa hanno cercato di rimodellare la partecipazione e deliberazione online. Nel loro studio su Decidim, la piattaforma che permette ai cittadini di Barcellona di contribuire al piano strategico della città, Borge Bravo, Balcells e Padró-Solanet analizzano la “qualità deliberativa” del dibattito su turismo e ospitalità. Dalla loro analisi il tempo risulta essere un fattore chiave, nelle varie fasi che attraversano le conversazioni su piattaforme come Decidim. Se all’inizio la maggior parte degli utenti cerca di costruire argomenti persuasivi e razionali, con l’avanzare della discussione arriva invece spesso anche un impoverimento della qualità del dibattito. Questo a sua volta può fare si che nuovi utenti siano meno interessati a prendere parte e abbassa la soglia degli argomenti accettabili, mentre i pochi utenti rimasti trasformano il dibattito in scontro personale. La loro conclusione è che una deliberazione spontanea online è possibile, ma la difficoltà maggiore è riuscire a mantenere la qualità di questa deliberazione nel tempo.

Dove sono posizionati gli utenti delle piattaforme governative? Come sostiene Bakardjieva, dipende molto da chi crea la piattaforma, chi la usa e quali strategie si adottano per cercare di influenzare chi governa. Il suo studio compara tre soluzioni in uso nella città bulgara di Stara Zagora: una piattaforma governativa, una collaborativa creata dai cittadini, e una pagina Facebook. La piattaforma governativa, voluta dalla municipalità, può essere usata dai cittadini per riportare guasti o problemi e richiedere documenti. Come in altri casi simili, gli utenti di questa piattaforma sono posizionati come clienti. A fare la differenza nel caso della piattaforma collaborativa è il fatto che questa sia stata concepita e disegnata dai cittadini. Attraverso una serie di interviste con il nucleo dei fondatori, Bakardjieva descrive come gli utenti di questa piattaforma non siano solo messi nella condizione di segnalare un problema, ma anche di ricevere una risposta. Caso per caso, la piattaforma collettiva ha infatti costruito nel tempo un suo potere di negoziazione ed è ora riconosciuta dagli amministratori come interlocutore politico pur mantenendo una forte autonomia.

 

(Photo: Peyman Farmani)


3. Gli utenti delle piattaforme commerciali

Basta una piattaforma per promuovere la partecipazione? Bakardjieva offre anche un esempio da manuale su come ogni piattaforma possa assecondare diversi scopi. Quando un altro gruppo a Stara Zagora inizia a mobilitarsi per salvare un parco locale da piani di sviluppo edilizio, diventa chiaro che la disputa necessita di strumenti diversi da quelli utilizzati per la cooperazione, e gli attivisti li trovano in Facebook, piattaforma multifunzione. A questo gruppo infatti Facebook offre un apparato di comunicazione generalista che viene capito e usato abilmente dal gruppo di cittadini. Allo stesso tempo, Bakardjieva ammette che una partecipazione efficace non può essere costruita solo attraverso Facebook o nessun’altra piattaforma. Nel caso del parco, il supporto offerto da altri gruppi e media si rivela infatti cruciale per mobilitare numeri più consistenti della popolazione. In generale, come si sostiene dall’inizio dello scorso decennio con l’idea di media convergence e approcci simili, è essenziale continuare a considerare come le piattaforme digitali si collegano (e sovrappongono) con altre forme mediatiche e di mobilitazione.

Può una piattaforma mettere insieme partecipazione e rappresentazione? In un altro contributo allo speciale Louise Knops e Eline Severs presentano il caso della Piattaforma dei Cittadini per il Supporto ai Rifugiati (CPRS), una pagina Facebook creata in Belgio in risposta alla crisi del 2014-2015 per coordinare assistenza e logistica. Lo studio guarda a come nel corso degli anni CPRS abbia assunto sempre più un ruolo di portavoce politico dei belgi che supportano politiche di immigrazione più inclusive e accoglienti. Questa prospettiva rinforza studi precedenti che hanno sostenuto che le reti sociali online possano trovare un compromesso tra la logica della partecipazione e la logica della rappresentazione (Gerbaudo, 2017). Altro aspetto interessante dell’articolo è l’enfasi sul ruolo centrale giocato dall’amministratore della pagina del CPRS, che quotidianamente si occupa di filtrare e selezionare i contenuti pubblicati e condivisi dai membri della pagina, cosa che ricorda come la “logica editoriale” molto spesso coesista con la “logica algoritmica” e non sempre in ruolo subordinato. Ancora una volta, come ammettono le autrici, nuovi studi con più utenti sarebbero necessari per confermare questi risultati.

Può una piattaforma combinare partecipazione e apprendimento sociale? Dan Mercea e Helton Levy esplorano la relazione tra questi due fenomeni su Twitter, guardando a un insieme di retweets della “People’s Assembly” britannica tra il 2015 e il 2016. La Network Theory finora sembra avere interpretato l’apprendimento sociale come un processo che include diffusione e validazione da parte degli utenti, che in Twitter corrisponde ai retweet. Allo stesso tempo, come notano Mercea e Levy, i retweet possono anche essere visti come una forma di “cura” della conoscenza collettiva, facendo da filtro a rumore e informazioni non rilevanti. Nel caso della People’s Assembly, i retweet infatti sembrano avere contributo a distribuire e rendere evidente la conoscenza delle ragioni che portano diversi attori a cooperare nell’Assembly, mantenendo allo stesso tempo un insieme di risorse comuni sul movimento. Lo studio è basato su un’analisi quantitativa dei retweets e su un piccolo numero di interviste con utenti di Twitter che – suggeriscono anche in questi caso gli autori – andrebbe ampliato per potere raggiungere delle conclusioni più generali.

 

(Photo: Vladislav Nikonov)

4. L’utente-bersaglio: non è altro che propaganda

Perché le piattaforme online facilitano le campagne reazionarie? Se questo numero speciale guarda soprattutto ai successi della partecipazione digitale o ai suoi possibili ostacoli, altri studi recenti si sono dedicati invece a esplorare quello che qualcuno chiamerebbe il lato oscuro delle piattaforme. Dopotutto Brexit è andata come è andata, e altre campagne reazionarie hanno raccolto un discreto successo in Europa e altrove. Uno degli elementi che spiegano l’inaspettata popolarità delle piattaforme digitali per i partiti di estrema destra è la loro dinamica di partecipazione, che secondo Gregory Asmolov (2019) crea condizioni ideali per una “propaganda partecipativa”. Il concetto stesso di propaganda, per quanto digitalizzato, rimane certamente problematico nel suo rimandare a dibattiti vecchi e fortunatamente superati sugli “effetti” dei media sulla mobilitazione. Allo stesso tempo, Asmolov e LeJeune sostengono che il risultato di una manipolazione informativa che coinvolge gli utenti non è necessariamente la mobilitazione: in diversi casi – basti pensare a Cambridge Analytica o Breitbart – l’obiettivo è piuttosto il disorientamento politico e la frammentazione sociale.

Non siamo che bersagli di bots e trolls? A partire dal 2015 il progetto Computational Propaganda (basato all’Oxford Internet Institute) ha investigato l’assemblaggio di algoritmi di social media, agenti autonomi e big data coinvolti nella manipolazione dell’informazione. Il loro ultimo report su “Global disinformation order” (2019) sostiene che negli ultimi due l’investimento in questo campo ha visto una crescita del 150% anni in tutto il mondo – paesi liberali e autoritari, occidentali e non-occidentali. Le nuove “cyber troops” operano attraverso bots, accounts umani, automatizzati o rubati; lavorano per screditare l’opposizione politica e isolare il dissenso. Nonostante l’abbondanza di alternative, Facebook sembra rimanere la piattaforma prescelta non solo per la scala globale della sua copertura, ma anche per le sue componenti: le strette connessioni personali che la compongono, l’incorporazione di notizie politiche, la capacità di ospitare gruppi e pagine.

A rimanere chiaramente fuori da questa cornice è il significato che le persone danno alle informazioni trovate sulle piattaforme. E se da una parte ci si aspetta che studi di comunicazione politica e sociologia politica siano improntati sull’idea dell’utente-bersaglio, anche tra i teorici dei nuovi media sembrano guadagnare popolarità le visioni apocalittiche di sistemi invisibili, oppressivi e ingannevoli, dove i trolls hanno la capacità di stravolgere i nostri pensieri e i nostri comportamenti (Lovink 2020).

 

(Photo: Ashkan Forouzani)

5. Conclusioni – Stuart Hall e la piattaforma-pensiero

Piattaforme come punto di incontro. Cosa ci rimane quindi? Come Emiliana De Blasio e Michele Sorice sostengono in un altro articolo contenuto nello speciale, uno dei pochi punti non controversi è che l’idea di “piattaforma” si è ormai affermata come punto di incontro tra prospettive molto diverse. Inaspettatamente, alla fine del loro tour de force enciclopedico su tutta la possibile letteratura scientifica prodotta finora sulla partecipazione, De Blasio e Sorice invocano Stuart Hall e la sua ineguagliata capacità di combinare metodi e strumenti della sociologia politica con media studies e analisi di culture alternative. Questa prospettiva multimodale, criticamente solida, è precisamente quello che sembra mancare a molta teoria contemporanea sui media, che può essere al meglio affascinante ma spesso risulta inaccessibile e/o politicamente sterile.

Piattaforme in tempi di crisi. Fin dalle prime misure di emergenza per il Covid-19 in Asia e Europa, le piattaforme commerciali hanno mostrato il meglio e il peggio della condivisione e costruzione di connessioni. I social network sono portatori di disinformazione, notizie false e palcoscenico per le esibizioni di improbabili esperti o narcisisti professionisti. Allo stesso tempo una crisi di questa portata apre a un possibile reset sociale e tecnologico, al quale le piattaforme digitali potrebbero contribuire con informazioni utili al supporto delle comunita’, per trovare soluzioni a problemi condivisi e per redistribuire risorse. Se e’ ancora presto per vedere uno sviluppo di piattaforme non commerciali e ad-hoc, una direzione possibile e’ indicata iniziative immediate/precoci come gruppi, pagine o wikis costruite per mettere insieme e coordinare sforzi di solidarieta’ locali e globali.

Utenti prescritti e utenti mancanti. Il suggerimento più utile di tutto lo speciale viene probabilmente ancora una volta da Bakardjieva, che prende da de Certeau (1984) la visione delle piattaforme come “insiemi di possibilità e interdizioni”, caratterizzate tra le altre cose dai loro utenti “prescritti” (Latour, 1992) e dagli usi anticipati e manifesti che questi ne possono fare. Mettere a confronto diversi tipi di piattaforme, come fa Bakardjieva nel suo studio, è anche un approccio fondamentale per capire meglio la varietà di posizioni che le piattaforme creano per i loro utenti. L’unico pezzo mancante dal quadro è ancora una volta quello degli utenti: c’è bisogno di includere di più e meglio le loro voci per capire cosa fanno di queste piattaforme costruite per (e contro di) loro, in tempi ordinari e straordinari.

#StopFundingHate: guerra (online) ai tabloid

Da circa un secolo il termine tabloid è associato al peggio della stampa in circolazione, nonostante la categoria britannica includa in realtà una varietà di orientamenti politici e sociali. Nell’era di Brexit, i tabloid sembrano però avere guadagnato nuova baldanza, soprattutto quelli che hanno deciso di sposare e incitare la linea xenofoba e anti-europeista. Il risultato è stato un aumento tangibile di prime pagine con titoli contro migranti e rifugiati in particolare su The Daily Mail, The Daily Express e The Sun.

Non è un caso quindi che da agosto 2016 esista una campagna in UK che tramite un sito, un account su Twitter e Facebook e alcuni video ben confezionati, punta il dito contro il linguaggio dei tabloid e i loro continui attacchi a migranti e rifugiati politici.

Per Richard Wilson, il fondatore di Stop Funding Hate, il punto di svolta è arrivato nel 2015, quando il consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani aveva invitato il Regno Unito a mettere un freno all’incitamento all’odio razziale a mezzo stampa dei tabloid. A richiamare l’attenzione del Consiglio era stato un articolo apparso su The Sun in cui i migranti in transito nel Mediterraneo venivano definiti scarafaggi.

Crimini d’odio in aumento e stampa in un tweet di SFH

Wilson vede un legame diretto tra l’aggressività anti-migranti dei tabloid e i crimini di discriminazione razziale che nel Regno Unito sono aumentati del 40% tra il 2015 e il 2016. “Ovunque tu vada, anche se non compri questi giornali, vedi comunque i loro titoli. Questo ha un impatto inevitabile sul modo in cui la gente pensa”, dice. Per quanto l’idea di un’influenza diretta sul ‘pensiero’ dei lettori azzeri cinquant’anni di studi sull’audience, la visibilità dei tabloid è certamente pervasiva nella loro capacità di influenzare altri media e di condizionare i limiti del dibattito politico, attraverso un processo che è stato descritto come tabloidization.

In un momento in cui le false notizie fanno ancora più notizia nelle catene di rimandi multimediali dalla stampa al digitale e viceversa, la battaglia di Stop Funding Hate contro i tabloid e i loro titoli velenosi ha raccolto finora 72.000 follower su Twitter e 230.000 su Facebook. Una campagna ambiziosa che dall’inizio guarda in alto, come dicono sul sito, per “cambiare i media una volta e per tutte”.

 “Hate is a business model”

Stop Funding Hate è forse il primo caso di una campagna generalizzata, non mirata a un giornale né a un tema specifico, con un approccio ‘educativo’ ma allo stesso tempo molto pragmatico, che punta alle tasche di un settore della stampa storicamente sordo a richiami ‘morali’. Dal novembre 2016 la campagna Sleeping Giant persegue una missione simile nell’America di Trump, anche se circoscritta per lo più all’ambito digitale, allontanando gli inserzionisti da siti come Breitbart News.

A differenza del boicottaggio classico, quello di Stop Funding Hate non vuole incidere quindi su chi acquista i tabloid, ma sugli inserzionisti che li finanziano con la loro pubblicità.  Il punto secondo SFH è che “hate is a business model”. Nonostante le inserzioni sulla carta stampata nel complesso continuino a perdere terreno rispetto a quelle online, il mercato della stampa nel Regno Unito e soprattutto quello dei tabloid rimane infatti molto redditizio.

Un business model che funziona in maniera piuttosto intuitiva: i titoli che danno addosso ai migranti fanno salire le vendite, e questo rende i giornali più desiderabili per gli inserzionisti. Il punto è, secondo SFH, che sebbene molti cittadini britannici non comprino i tabloid, la maggior parte di loro comunque si serve dei grandi marchi che fanno pubblicità sulle loro pagine, contribuendo quindi indirettamente ai profitti di questi giornali.

SFH cerca di fare leva sul profilo etico che molti di questi marchi si sforzano di mostrare su altri versanti, ergendosi a difensori contro le discriminazioni sul luogo di lavoro o promuovendo ‘valori sociali’. Eppure, quando si tratta di investire il budget pubblicitario, questi valori sono generalmente ignorati. È quanto hanno ribadito infatti dalla catena di grandi magazzini John Lewis: nonostante la “piena comprensione” degli argomenti i di SFH, non intendono entrare nel merito dei contenuti editoriali dei giornali dove piazzano le loro pubblicità.

Il post di un consumatore deluso dalla Lego seguito da migliaia di retweet.

Ma altri inserzionisti sembrano effettivamente sensibili al mantenimento della loro immagine, e perciò disposti a venire a compromessi. Il caso di maggiore successo è stato finora quello di Lego. A inizio novembre, poco prima del picco delle vendite prenatalizie, la compagnia danese ha ceduto alle pressioni di SFH, aggiuntesi all’appello inizialmente lanciato da un genitore su Facebook, e ha comunicato l’interruzione degli accordi commerciali con The Daily Mail. Prima e dopo Lego, anche la catena di ottica Specsever, The Body Shop e il provider di servizi internet Plusnet hanno interrotto le inserzioni su The Sun e The Daily Mail.

Il risultato più importante e indicativo per l’intero mercato pubblicitario britannico potrebbe però arrivare a maggio, quando la catena di supermercati (nonché’ banca ‘etica’ e impresa funebre) Co-op annuncerà la sua decisione a riguardo, dopo il la riunione annuale dei membri. Nei mesi precedenti, Co-op ha già mostrato di prendere almeno in considerazione le richieste pervenute via social media. Stop Funding Hate ha raccolto finora 7.700 firme e altre migliaia di visualizzazioni e condivisioni del video apposito. Se Co-op decidesse di assecondarne le richieste, concorrenti come Sainsbury’s potrebbero seguire l’esempio.

Tra economia morale elitista e populista

Gli oppositori accusano di la campagna di essere “elitista” e di promuovere la censura, riprendendo il noto ritornello della libertà di parola e di stampa come valore supremo. Ma come sottolineano i fondatori di SFH, in questo caso non si tratta di ostacolare o difendere una libertà individuale, quanto di contrastare “un modello di affari che ha un effetto negativo sulla vita delle persone”. Senza necessariamente tirare in ballo ogni volta, peraltro erroneamente, il povero Voltaire.

Eppure, la questione non è solo morale, poiché la campagna inevitabilmente comporta una serie di incentivi e disincentivi economici per gli inserzionisti che decidono di assecondarla. Il fatto che il sito di moda Thread si sia schierato con SFH, per esempio, si è subito trasformato in ottima pubblicità per lo stesso Thread tra gli utenti su Twitter e Facebook. Nel caso di Lego, analogamente, parecchi utenti hanno subito espresso apprezzamento per l’azienda mostrando i loro ultimi acquisti di mattoncini colorati. “L’incoraggiamento a ‘fare la cosa giusta’ per le compagnie deve funzionare in termini economici”, ha ammesso lo stesso Wilson.

L’odio come business model

Stop Funding Hate ha anche cominciato a raccogliere fondi per allargare il suo raggio di azione, per trasformarsi da “movimento” in “organizzazione”, superando in poco tempo le centomila sterline. L’obiettivo finale della campagna, precisa Wilson, non è però richiedere un qualche tipo di regolamento statale, o fare in modo che uno di questi tabloid sia ritirato dal mercato; basta limitarsi a non contribuire alla loro crescita e ai loro guadagni.

Social Network, tabloid e pubblici incrociati

Cosa ci dice questo sullo stato dei rapporti tra vecchi e nuovi media, e in particolare tra stampa e social networks? Da una parte che vecchi carrozzoni come i tabloid, nonostante il declino complessivo della carta stampata, sembrano ancora capaci di stabilire i termini del dibattito politico. Dall’altra, i social network possono dare forma a molteplici alternative in termini di discussione, informazione e contestazione; ma possono anche contribuire a legittimare, direttamente o indirettamente, il ruolo dei media mainstream. I nuovi media hanno sicuramente consolidato nell’ultima decade l’immagine di paladini della giustizia dei prosumers, soprattutto in seguito alle contestazioni globali del 2011-2014. Ma in tempi di tensioni politiche e sociali come il post-Brexit, in cui l’establishment mediatico tende a ricompattarsi sul versante conservatore, rischiano di giocare soprattutto di rimando o in difesa.

Intanto i pubblici nazionali mantengono o esasperano le divisioni interne. Giornali “di qualità” come The Independent e soprattutto The Guardian hanno una tiratura notevolmente più bassa, ma anche un numero decisamente più alto di seguaci su Twitter e Facebook rispetto ai principali tabloid. Nel complesso quindi gli utenti dei social media in UK hanno meno probabilità di essere lettori dei tabloid presi di mira da Stop Funding Hate. I due rimangono quindi gruppi poco comunicanti. A prescindere da quanti firmino la petizione o condividano i video di SFH, il pubblico dei tabloid rimane comunque ben solido, e troppo allettante per molte compagnie in termini di pubblicità.

Di sicuro, il fatto che una parte dei lettori di giornali si sia già spostata online, sta mandando lentamente ma progressivamente in crisi la pubblicità su carta stampata, che cerca di resistere con strategie più o meno discutibili. Quello che SFH ha reso chiaro però è che per molti non è più accettabile che gli inserzionisti pretendano di non curarsi dei contenuti dei giornali in cui fanno pubblicità. Se i grandi marchi dovessero cominciare uno dopo l’atro a ritirare le inserzioni, i tabloid saranno costretti per lo meno temporaneamente cambiare strategie e bersagli.