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Pelle Queer Maschere Straight. Estratti dall’introduzione

Di seguito pubblichiamo un estratto dell’introduzione di Tiziana Terranova al libro “Pelle queer maschere straight. Il regime di visibiltà omonormativo oltre la televisione” di Nina Ferrante, entrambe parti della TRU. 

Glitch – Percy Bertolini

C’era una volta la televisione nazionale, medium domestico e addomesticante per eccellenza, attorno a cui le famiglie si raccoglievano ogni sera a ricevere, dopo il telegiornale, la loro dose quotidiana di salubre intrattenimento fatto di film, sceneggiati, quiz, e gare musicali, insomma di ‘buona’ cultura nazionalpopolare. L’intima relazione tra televisione, la nazione e la famiglia, anche laddove, come negli Stati Uniti la televisione è sempre stata commerciale, è iniziata negli anni del boom economico del secondo dopoguerra quando l’elettrodomestico televisore è diventato uno dei punti focali di aggregazione della famiglia, funzionando, insieme al tavolo da pranzo, come uno dei luoghi attorno a cui, per citare Antonia Anna (Nina) Ferrante, la famiglia ‘si produce nella sua ritualità e gerarchie’, quali per esempio i posti ‘silenziosamente assegnati’[1]. A differenza del tavolo da pranzo, il nuovo centro della ritualità domestica, il televisore, con il suo schermo fluorescente e quasi ipnotico, anche se ancora a bassa definizione, esponeva e connetteva l’interno familiare al suo esterno, la nazione, che lo conteneva e gli dava senso.

E c’era una volta, qualche decennio dopo, Internet, tecnologia di nicchia, accessibile attraverso il personal computer, medium individuale e libertario in cui la famiglia era decisamente assente come pure la nazione, tecnologia di formazione di intelligenze collettive (con i suoi newsgroups e mailing lists), di comunità virtuali (le BBS), ma anche spazio ludico e sperimentale. I giochi di ruolo online raccontati dalla cyberpsicologa Sherry Turkle e la teorica trans Alluquére Rosanne Stone esplicitamente invitavano a giocare con l’identità e il genere, rendendo la ‘computer-mediated communication’ (come si chiamava ancora nei primi anni novanta) luogo di esplorazione della performatività del genere[2]. I più famoso dei mondo virtuali online del primo Internet, LambaMoo, per esempio, offriva a chi partecipava al gioco la possibilità di scegliere tra ben sei generi (neutro, maschio, femmina, entrambi, ‘spivak’, asterisco, plurale, egotistico, Reale, e seconda persona) o aggiungerne addirittura altri.[3]Oggi, invece, Internet ci chiede sempre più spesso il nostro ‘vero’ nome, la nostra ‘vera foto’, o persino un documento d’identità, e la televisione non solo non è più monogamicamente accoppiata alla domesticità, ma si dispiega promiscuamente su una molteplice eterogeneità di schermi diventando satellitare, digitale, smart, online, in streaming e algoritmica. [4]

L’appassionante libro di Nina Ferrante che avete tra le mani, dunque, attinge la sua energia affettiva e intellettuale dall’intersezione tra la trasformazione delle tecnologie sociali della comunicazione e la crisi sempre più evidente della famiglia biologica ed eterosessuale, cioè di quel modo di vivere insieme che ha ridotto la grande trama della parentela della vecchia famiglia allargata all’istituzione normativa della famiglia nucleare su cui grava il peso di sostenere tutti i ‘legami di sangue, legali, di intimità, di convivenza, di supporto e soccorso’. Nel suo viaggio attraverso alcune di queste ‘nuove storie’, il libro di Nina Ferrante ci rende partecipe del grande processo di ‘contestazione affettiva’ della normalità della famiglia, prima ancora che del genere, a partire da quella che definisce la ‘moltitudine queer’, esponendoci all’aprirsi dei modi di vita alla trama delle nuove ‘parentele radicali’, alla micropolitica della resistenza attraverso gli affetti, nell’intreccio tra il movimento del desiderio e il bisogno di sentirsi protett*, cioè bisogno di cura e di affidabilità. E’ davvero tardi, forse troppo tardi, ci chiede fin dall’inizio, ‘per pensare a delle forme di affettività, prima ancora che di sessualità, radicali’?

Pelle Queer, Maschere Straight, ci accompagna in un viaggio attraverso il divenire queer del mondo audiovisuale e della televisione post-nazionale, quella delle piattaforme, di YouTube, Vimeo, di Netflix e Amazon Prime, di tutti i luoghi dove diventa possibile rintracciare e vedere (anche se sempre meno scaricare) video, documentari, serie, film e documenti di ogni generi che testimoniano la costruzione dei modi di vita del queer in quanto modalità collettiva ‘di resistenza ai discorsi e alle tecnologie di produzione della normalità’. Lungi dall’essere una forma di ‘politica dell’identità’, il queer nasce dunque dalla ‘guerra dichiarata al regime di universalizzazione delle identità’, come nelle lettere dell’acronimo ‘lgbt*nbiqtaa+’ che continuano ad accumularsi come si accumula e si espande ‘l’archivio delle lotte’ attorno alla ‘normalità’. Il queer dunque è, foucauldianamente, il tentativo di ‘definire e sviluppare modi di vita eccentrici’ piuttosto che ‘identificarsi ai tratti psicologici e alle maschere visibili dell’omosessuale’. Ferrante testimonia qui dunque quello che è stato negli ultimi dieci anni (che includono quelli in cui ha iniziato questa ricerca) un vero e proprio processo di coming out collettivo di gay e lesbiche, bisessuali e trans, un’opportunità di visibilità che però pone la domanda ‘a che costo?’ Quale prezzo viene pagato dalle soggettività queer per la ‘normalizzazione’ che si esprime anche in un fenomeno di cultura popolare come il trono gay di Uomini e Donne di Maria De Filippi, quale per esempio, quello di doversi mostrare a tutti i costi ‘uguali e normali’? La sfida ci dice Ferrante, sta invece tutta ‘nella proliferazione di sessualità che imitano, viaggiano accanto, contraddicono e resistono a quel paradigma’ dell’uguale e normale e che complessificano la ‘relazione implicita tra la norma eterosessuale e la nazione’.

Questo dunque è un libro che pure occupandosi di temi relativi alla sociologia dei processi culturali e comunicativi si può considerare tuttavia anche uno studio’ vero e proprio, nel senso che appartiene al campo degli ‘studi’ (gli studi culturali e sui media, gli studi queer e il femminismo), tanto bistrattato dai difensori delle discipline (i discorsi o ‘logos’ della sociologia, dell’antropologia o della filosofia) tra cui gli studies anglofoni appunto in Italia sono dispersi, ma anche frutto di uno ‘studio sociale’ nel senso che hanno dato alla parola Stefano Harney e Fred Moten in The Undercommons, quando ci dicono che ‘lo studio è quello che fai con gli altri, è parlare camminare con gli altri, lavorare, ballare, soffrire’ nella irreversibile intellettualità di queste attività, nel coinvolgimento in una pratica intellettuale comune che dà accesso a una ‘intera, variegata, alternativa storia del pensiero’ e nel riconoscimento che ‘la vita intellettuale è al lavoro tutt’intorno a noi.’[5] Quello che è chiaramente percepibile in questo libro è proprio il suo essere immerso e nutrito dall‘undercommons del pensiero radicale queer e femminista.

Libri come questo smentiscono a mio modesto parere la caricaturizzazione degli ‘studi’ (incluso gli studi di genere e gli studi queer) prodotta dalla paranoia delle discipline verso tutto ciò che abita letteralmente, per citare Gloria Anzaldua, le ‘borderlands’ (le terre di confine) tra i discorsi. Assediate da un lato dall’ondata crescente e apparentemente inesauribile dell’analitica dei dati, e dall’altro dalle richieste che vengono dalla società e dalla cultura contemporanea di saperi che parlino a e con le soggettività in mutazione, le scienze umane e sociali attraversano una crisi di identità. Che succede quando, come osservarono qualche tempo fa i sociologhi inglesi Roger Burrows e Mike Savage in un premiatissimo saggio, la sociologia vede i suoi strumenti di rilevazione empirici superati da quelli usati da ricercatori che lavorano per il governo o sempre più spesso per le corporazioni?[6] Una sentiment analysis dei testi di queste serie davvero ci avrebbe restituito in modo migliore il senso di quello esse rivelano o dei pensieri a cui aprono intorno al dis/farsi della famiglia e del binarismo del genere? Aprirsi agli ‘studi’ significa rischiare di farsi trascinare nella contesa politica e diventare l’obiettivo di avversari politici (i famosi ‘hoaxers’) disponibili a investire tempo e denaro pur di trovare ed aprire delle falle volte a screditarli?[7] Come rivendicare un ruolo, un metodo, un rigore e una serietà per i saperi umanistici senza renderli branche delle scienze naturali facilitando, come avverte Rosi Braidotti, la marginalizzazione del pensiero critico?[8] E’ più importante mettersi al sicuro conformandosi ai criteri di scientificità delle scienze dure e codificare i propri in maniera intransigente sotto la protezione di qualche grande ‘maestro’ defunto oppure continuare a perseguire i propri percorsi ‘indisciplinati’ come suggerisce Iain Chambers, continuando a porre interrogativi non autorizzati per mantenere viva la relazione con tutto quello che nella cultura e nella società si muove, resiste e lotta?[9]

Il libro di Ferrante è dunque un esempio una forma di studio che non ha ‘oggetti’ osservati da un soggetto che è trasparente, cioè non marcato, non visibile, non interrogabile, ma che non fluttua neanche nel vuoto di una postura teorica volta semplicemente ad accumulare capitale accademico (quale quella denunciata da Stuart Hall nel suo discorso alla prima conferenza americana sui Cultural Studies a Chicago alla metà degli anni novanta e che comunque forse in questo momento storico non ha grande valenza in Italia)[10]. Il ‘rigore anesatto’ (per citare Deleuze) degli studi culturali, postcoloniali e di genere viene da un lavoro appassionato, coinvolto e attento sulla molteplicità di letture e visioni, prodotte da una moltitudine regist*, attivist*, scrittric*, studios* e ricercator* che risponde a profonde esigenze delle società contemporanee.

[1]   Cf. Lynn Spiegel Make Room for TV: Television and the Family Ideal in Postwar America. Chicago: University of Chicago Press, 1992;

[2]   Sherry Turkle Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, Simon & Schuster 1997; Alluquére Rosanne Stone Desiderio e Tecnologia. Il problema dell’identità nell’era di Internet. Feltrinelli, 1997.

[3]   Flame Wars Dibbel Michele White

[4]   Cf. Roberta Pompili e Tiziana Terranova ’’L’interfaccia televisiva: dalla tele-governance all’autogoverno della comunicazione’ http://www.euronomade.info/, 2015

[5]   Stefano Harney e Fred Moten The Undercommons,Fugitive Planning and Black Study, Minor Compositions, 2013 pp. 110/111.

[6]   Savage, M., & Burrows, R. (2007). ‘The Coming Crisis of Empirical Sociology’. Sociology, 41(5), 885 –899.

[7]   Cf Daniel Engber “What the “Grievance Studies” Hoax Actually Reveals” www.slate.com, 2018.

[8]   R. Braidotti Il postumano La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte. Derive e Approdi, 2014

[9]   Iain Chambers ‘Introduzione’ in I. Chambers, L. Curti e M. Quadraro Ritorni Critici. La sfida degli studi culturali e postcoloniali. Meltemi, 2018

[10] Stuart Hall ‘Gli studi culturali e le loro eredità teoriche’ in Il soggetto e la differenza: per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali. Meltemi Editori, 2006 (trad. Miguel Mellino)

Amanda Knox oppure le molteplici verità della neo-televisione

Di chi è il documentario? Di chi è la verità? Chi è colpevole e chi vittima? Chi è protagonista di questa narrazione? In che rapporto è con la verità? E con il realismo? Questo film, il titolo, il trailer, tutto si posiziona nel punto di vista di Amanda. Dopo Guedé, dopo Sollecito, anche Knox utilizza la televisione come dispositivo di produzione di verità. Una verità non definitiva, ma sicuramente più vera di quella delle aule processuali e del primo clamore mediatico. Il realismo della televisione produce una verità che è universale ed assoluta, cioè assolutamente vera fino a quando un’altra non prende il sopravvento, che non ammette contraddizione all’interno della comunità che la condivide. In questo senso la televisione produce un regime di verità, ma anche comunità; allo stesso tempo le comunità producono la televisione stessa, rendendo reciproco questo lavoro di chi plasma e chi è plasmato. Guedé ha la sua verità, universale ed assoluta, condivisa dalla comunità di Leosiners, un pubblico un po’ più ampio, più giovane, più social di quello che solitamente guarda Rai3. Certamente un pubblico di italian* disponibili a cercare tra l’inopinabilità degli atti processuali la verità di un giovane nero condannato perché più sfigato degli altri coimputati. Sollecito ha la sua verità e la condivide con un altro pubblico di italiani, forse più di italiane, che stirano guardando la televisione il pomeriggio (l’espressione è di Barbara D’Urso in persona che continua ad invisibilizzare la mia presenza davanti allo schermo!). La verità di Knox, invece, non punta alla sua assoluzione, ma alla condanna di chiunque altr*, compresa me che guardo lo schermo. Questa verità è condivisa da un pubblico di cui è difficile tracciare un unico profilo, sicuramente non nazionale, ed è l’unica tra queste narrazioni che rimette al centro la vicenda nella sua prospettiva internazionale. La cosa che colpisce, infatti, è l’ipersessualizzazione della studentessa americana-dolce-vita (Foxy Knoxy) nell’Europa che la vuole carnefice ad ogni costo e la speculare vittimizzazione di cui ha goduto negli Stati Uniti. Il film mette al centro questa divergenza prendendosi una rivincita nel mettere in scena la grossolanità del sessismo del vecchio continente ricordando anche il ruolo dei media inglesi che rivolsero grande attenzione alla dimensione più scandalistica della vicenda. Per inciso, questa verità è oggetto di proprietà, da un lato dunque il punto di vista si trasforma in una proprietà: la verità DI Guedé, DI Sollecito, DI Knox, la verità DI quella e quell’altra comunità. Dall’altro lato una proprietà, che in quanto tale, ha un valore e può essere venduta come un bene. Guardando gli acquirenti è evidente quanto valga la verità di Guedé, quanto sia bravo a venderla Sollecito con libri e comparsate, mentre il film mostra quanto valga economicamente la verità di Amanda. In una delle sequenze interviene suo padre per aiutarla ad affrontare giornalisti e paparazzi che non le danno tregua. Gli “avventori” lo incalzano ricordandogli che col tempo qualunque dichiarazione della giovane varrà sempre meno; lui sembra non comprendere. Oggi l’introduzione di questa scena nel film prodotto e distribuito da Netflix ha il valore di uno sberleffo!

I titoli di giornali e tabloid passano sullo schermo riproponendo l’aggressività con cui viene caratterizzata la sessualità predatoria di Amanda, una sadica manipolatrice che avrebbe sacrificato la coinquilina inglese. Questa ricostruzione stride con il romanzo a tinte rosa confetto (come il suo golfino) con cui viene raccontata la tenera storia d’amore tra Amanda e Raffaele. Lei negli anni ha acquistato fascino e candore, lui sembra ringiovanito e molto meno macho rispetto al codino gelatinato di Domenica5: sfiora la sua chioma bionda più con imbarazzo che con vezzo, mentre esprime l’incredulità che la bella straniera possa aver guardato proprio lui, la speranza che possa baciarla davanti al panorama più bello e il finale felice di quella magica serata. Stacco. Colombi contro luce al tramonto che si scambiano effusioni formando un cuore. “Che americanata” chiosa mia madre. Due giovani teneri e scapestrati, che si fanno qualche cannetta per togliere l’imbarazzo e passare dalle letture alle coccoline, mentre altrove, nella villetta, si consuma il lugubre supplizio della giovane studentessa inglese. Perugia, tra gli sbandieratori, i colli e i panorami è il tropico italiano. In più momenti tornano delle immagini di scogliere, case bianche e mari blu. “Mamma arò sta stu mare a Perugia?” “No quello Sollecito è Pugliese”; quel mare crea un contrasto con lo specchio di piombo in cui Knox troverà pace. Le immagini inoltre restituiscono altro che non mi era mai stato raccontato e anche qui è taciuto: Meredith non era solo la mora contro la bionda era la mora inteso come soggetto razzializzato. Lo capisco guardando sua madre, ricostruisco ad intuito la biografia meticcia che non ha avuto parola in nessuna delle narrazioni della vicenda. Sollecito e Knox sin dal primo momento danno in pasto ai media, Patrick Lumumba, così come a rimanere in carcere, unico colpevole di un delitto che non conosce giustizia è Rudy Guedé. Mentre la negritudine è al centro della narrazione di chi accusa e difende Guedé, il mostro, rimane nel silenzio la trasparenza di Meredith, forse per non togliere candore ad entrambe le studentesse rimaste invischiate in una storia lussuriosa più grande di loro, in cui sono tutte vittime.

Ritorniamo all’inizio. Il documentario è il film di Amanda, sicuramente lei non è la colpevole, comunque non la sola, vittima di una vicenda mediatica, narratrice di questa verità. Poi ci sono i protagonisti della messa in scena Giuliano Mignini, aka l’investigatore, uomo di Dio, padre di famiglia, con la passione per Sherlok Holmes e Nick Pisa, aka il giornalista narcisista, ricostruisce la vicenda come un’enorme montatura mediatica, dipinge i tratti dell’esotico italiano dove la procura ci tiene a “fare bella figura”, i poliziotti pensano “caspita un giornalista si è rivolto a me” e ottenere uno scoop in questo modo è “fantastico come fare sesso”. Due archetipi del vecchio continente: la grossolanità e il pressappochismo tipico italiano, con cui sono state condotte le indagini; l’aggressività tipica dei tabloid inglesi, con cui è stata raccontata l’intera vicenda. Osservatori privilegiati del tempo, in carico dei documenti ufficiali, protagonisti della restituzione pubblica e mediatica dei “fatti”, ma anche gli unici attori del documentario che non si limitano a narrare, ma anche a recitare, rendendo confusi e diluiti i confini tra la fiction e la puntuale ricostruzione degli eventi. In questa cornice l’unica storia narrabile è la rivalità tra donne e l’intrigo sessuale, ciò dà appeal alla vicenda, il racconto che riscrive la verità. Così le prove circostanziali, i bacetti tra Knox e Sollecito, lo sguardo algido di Amanda, vengono narrate come le uniche prove a trascinarla sul banco d’accusa. Dopo che la giustizia è ristabilita, confondendo l’innocenza con l’insufficienza di prove, la drammaticità catartica della scena finale – in cui Amanda si allontana nel mare lasciandosi alle spalle la città e i brutti ricordi – diviene subito grottesca nei titoli finali: Knox si è laureata, Sollecito è opinionista televisivo, Mignini e Pisa hanno ottenuto un avanzamento di carriera… perfino Guedé ha ottenuto un permesso premio!

La verità di Amanda è una verità caratterizzata da un forte grado di entropia, in cui i dubbi servono più delle certezze per affermare una giustizia che in fin dei conti sembra premiare tutti. Ma soprattutto la verità di Amanda è la verità di Netflix, il potere di produzione e distribuzione di egemonia della narrazione, in cui i mezzi non servono solo a plasmare la verosimiglianza del racconto ma ad affermarla in comunità transnazionali, mobili che si raccolgono di volta in volta in modo fluido intorno a delle narrazioni piuttosto che nell’identità del pubblico di affezionati.