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Reggae, tecnologia e diaspora (aspettando Sound System Outernational, Napoli, 4,5,6 Aprile 2019)

Dal 4 al 6 Aprile si terrà a Napoli Sound System Outernational 5 – Sounds in the City”, evento di tre giorni dedicato alla cultura sound system planetaria, organizzato dal gruppo di ricerca Sound System Outernational in collaborazione con la TRU, il Centro di Studi Postcoloniali e di Genere e Goldsmiths, University of London. La tre giorni comprenderà conferenze, laboratori, proiezioni ed eventi musicali con ospiti nazionali e internazionali in vari luoghi della nella città di Napoli. Al centro dell’evento, la conferenza “Sounds in the City. Street Technology and Public Space”, che si terrà a Palazzo Du Mesnil venerdì 5 Aprile dalle 9,30 alle 18,30. Louis Chude-Sokei (Boston University) e Sonjah Stanley-Niaah (University of the West Indies, Mona), invitati per l’occasione, terranno le due conferenze plenarie.

Pubblichiamo di seguito una traduzione tratta dal classico lavoro di Louis Chude-Sokei intitolato “Dr. Satan’s Echo Chamber. Reggae, Technology and the Diaspora Process.” Originariamente una lezione pubblica tenuta alla University of the West Indies in Giamaica nel 1997, questo saggio ha avuto negli anni una notevole fortuna, apparendo su diverse riviste e capillarmente diffuso in rete. “Dr. Satan’s Echo Chamber” rappresenta per molti versi un lavoro seminale nello sviluppo di un approccio critico al reggae – e più in generale alla musica nera – in una prospettiva non necessariamente sociologica né culturalista, in particolare per la sua capacità di problematizzare in senso più ampio nozioni quali identità, appartenenza, cultura anche alla luce del ruolo ricoperto dalla tecnologia nei processi di produzione musicale contemporanei. Il saggio anticipa inoltre alcuni temi, come l’intreccio tra razza e tecnologie e l’attenzione per forme espressive periferiche della cultura nera, che verranno approfonditi in seguito, sopratutto nel recente “The Sound of Culture”, di cui questo blog ha già offerto una recensione in passato.

“Dr. Satan’s Echo Chamber. Reggae, tecnologia e la Diaspora nera come processo” 

di Louis Chude-Sokei, 1997 (trad. Brian D’aquino)

(…) Le considerazioni che qui propongo si basano sull’osservazione e sull’ascolto delle forme musicali nere – in particolare, il reggae – secondo una nostra concezione specifica, tradizionale e materialista, di concetti come ‘suono’ e ‘cultura’. Sembra che uno dei lasciti della conoscenza coloniale sia il fatto che noi stessi, un tempo oggetti di tale sguardo clinico, troviamo ancora oggi difficoltà nel trascenderlo. Laddove l’antropologia occidentale e la critica culturale hanno visto l’arte nera unicamente in senso sociologico, allo stesso modo i discorsi sul reggae sembrano non riuscire a prendere la musica sul serio, e andare oltre la possibilità di leggervi i sintomi di un malessere nazionale (la “dissoluzione egemonica” di cui parla Brian Meeks) oppure, alternativamente, una rudimentale critica culturale (“la voce della gente” o “il ritmo della resistenza”). Nel tentare di rompere con questi cliché, ho qui intenzione di prendere il reggae sul serio, inquadrandolo attraverso quell’apparato critico piuttosto intricato (e faticosamente conquistato sul campo) che gli è proprio. Concentrandomi meno sulle parole e più sul suono, spero di riuscire a relazionarmi con la musica anche in termini di estetica. Pertanto, queste osservazioni saranno più suggestive che strettamente analitiche; sicuramente storiche, e tuttavia non la Storia.

(…) Nello studio del reggae come dell’hip hop si tende a prestare scarsa attenzione all’effettiva esperienza dell’ascolto. Il momento estatico dell’interruzione è quello in cui la canzone si ritrae dalla sua progressione narrativa, espandendo un isolato momento non-narrativo nello spazio e nel tempo, per poi tornare alla continuità. L’interruzione è in questo senso simile alla blue-note nella musica Afroamericana, o al vibrato nel blues: è l’esteticizzazione della rottura e l’estensione del dolore che essa genera, che viene trasceso in virtù della sua stessa bellezza. Ma, piuttosto che enfatizzare il senso di angoscia proprio di questo spazio di discontinuità, il beat è una gioiosa scarica di adrenalina. Il partecipante al rituale si posiziona sulla strada per la possessione, incontrandovi la possibilità di una libertà che è sconosciuta all’universo della narrativa. Per i discendenti degli schiavi, per i quali “il lavoro” è ancora corrotto dalle disuguaglianze di un sistema basato sulla dominazione bianca ed europea e su rigide gerarchie di classe, questa “interruzione” è un momento di liberazione pregno di bramosie profondamente represse e di visioni utopiche. Questo momento di trance, quando il basso, la voce e le melodie scompaiono lasciando la pura interruzione non-narrativa, è il momento del dub; un momento di terrore esistenziale.

Nella musica reggae degli inizi, la tecnica della separazione della sezione ritmica (basso e batteria) dalle tastiere e dai fiati attraverso il banco mixer era in parte influenzata dalla pausa strumentale tipica delle incisioni RnB americane degli anni Sessanta. Il minimalismo di basso – e batteria – che caratterizza i dischi di duro funk strumentale dei primi anni Settanta di gruppi come JBs, Meters ed altri, ha ispirato il dub reggae che a sua volta ha influenzato la successiva generazione di musica fatta in studio di registrazione, come disco, house e hip hop. Il dub, così come la rudimentale messa in battuta di due brani attraverso l’uso del doppio giradischi da parte di DJ Kool Herc, evolve in una formazione indipendente attraverso la radicale trasformazione di una narrativa lineare (una canzone), rifiutando così qualunque nozione di finitezza, approdo o punto di arrivo, anche in senso metaforico. Com’è noto, è qui che nasce il concetto di remix, il prodotto di una necessità economica che diviene esplorazione metafisica e che fornisce, ancora oggi, alcune delle più importanti innovazioni estetiche e tecnologiche nella storia del suono registrato. E’ anche la più palese forma di capitalismo: massimizza il profitto riducendo il lavoro. Trasforma il produttore in artista, reintroducendo beni di consumo già ultimati all’interno del ciclo di produzione, e mercificando ulteriormente l’esperienza sociale e spirituale del suono.

E’ chiaro a questo punto che, nell’era del dancehall, discutere del fondamentale significato culturale del dub in Giamaica, dove questo ha raggiunto l’apice nella prima metà degli anni settanta, è un po’ come ritornare a casa con notizie già vecchie. E’ invece importante riconoscere come l’eco di questa tradizione culturale ancora risuoni forte attraverso la Diaspora, in realtà avvolgendo e incorporando la produzione culturale contemporanea della Giamaica stessa: l’eco è molto più forte del suono originale. Occorre rendersi conto di ciò che si verifica quando un suono indigeno picchia così forte e così lontano da raggiungere orecchie altrui, trasformarsi, e in seguito addirittura permettersi di rimbalzare indietro. In questo senso si potrebbe dire che il termine dub indica più precisamente una strategia o, come molti sosterrebbero, una visione del mondo, una modalità dell’ascolto. Il dub emerge come esempio del modo in cui la fredda, alienata tecnologia Occidentale possa venire addomesticata proprio dai suoi utilizzatori imprevisti. Poiché è con il dub che il banco mixer diventa uno strumento, e il suono il fulcro dell’attività di produzione musicale. E’ attraverso il dub che le direttrici fondamentali del pensiero umano – suono, silenzio e eco – vengono portate alla luce attraverso la tecnologia. Ed è attraverso il dub che la memoria diviene il fulcro specifico dell’intero rituale.

La celebrazione di George Lemming del potere rituale della radio ci prepara a vedere il modo in cui la tecnologia Occidentale consente l’espressione di altre visioni del mondo, altre storie. Nella sua visione (più correttamente, un modo di suonare): “I morti sono ora onorati nella loro stessa assenza; conservati nelle nostre memorie, vengono convocati dagli ingegneri a popolare la piccola scatola magica del suono.” Questo, mi sembra, è quanto accade quando la magia della scienza incontra la magia tradizionale della realtà postcoloniale. Lemming si appropria della radio per utilizzarla a proprio piacimento: i morti qui non sono i morti bianchi, ma i cadaveri muti del purgatorio Atlantico. Attraverso le sue innovazioni tecnologiche, il reggae ci ha trasmesso la storia di Caliban e della radio, lo schiavo e la macchina. Non a caso, Lee Scratch Perry (che è oggi uno dei più celebrati produttori/performers al mondo, decenni dopo che la sua stella in Giamaica si era spenta) descrive le proprie tracce dub prodotte negli anni Settanta come “piene di fantasmi.”

Fantasmi nel mix, spettri nella macchina. King Tubby e altri come Errol Thompson, Overton “Scientist” Brown e Lloyd “Jammy” James – e molti produttori e tecnici il cui nome deve ancora essere riscattato dal purgatorio della storia – hanno suonato il banco mixer come uno strumento con il quale improvvisare. Hanno efficacemente trasformato uno stile di musica popolare in un concetto astratto, dove è necessario tendere l’orecchio verso ciò che resta oltre la melodia, oltre il basso, dove la mente deve necessariamente adeguarsi ad una visione (o un modo di suonare) del mondo in cui il significato sembra poter essere rintracciato ovunque, e, allo stesso tempo, da nessuna parte.

(…) Per i produttori Giamaicani degli inizi, la tecnologia era priva delle limitazioni solitamente date per scontate, così come delle leggi che ne regolano le procedure consuete; per i produttori e per i DJs hip hop, rompere con tutte le convezioni era necessario per la creazione di quel che è una visione del mondo estremamente moderna (o post-moderna). Gli spari nei campioni hip hop; le sirene della polizia; suoni e consistenze d’ambiente casuali; l’uso di errori per creare l’illusione del contatto; i toni bassi registrati in rosso per inchiodare al terreno gli ascoltatori; l’atonalità delle tecniche dello scratch (che stanno iniziando ad essere presenti anche nelle pratiche dei sound system Giamaicani); e, più d’ogni altra cosa, l’uso di eco e reverbero per creare l’illusione di ampie distanze, enormi spazi vuoti percorsi da piedi, e menti, neri ed esausti. Queste tecniche da studio mettono insieme la sensazione di una ricerca senza tregua per le proprie radici con la tensione propria di una dispersione senza fine.

E’ chiaro che la Giamaica è diventata una sorta di patria mitica per le proprie elaborazioni su tecnologia e cultura. Ciò non potrà mai essere messo in evidenza a sufficienza: un paese nero del terzo mondo viene celebrato per le sue innovazioni tecnologiche – e in realtà le tecniche digitali utilizzate nella produzione del dancehall non andrebbero viste solo come musica, ma come l’avanguardia del coinvolgimento della Giamaica nella rivoluzione informatica. Come Jacques Attali tanto elegantemente afferma, “l’economia politica della musica non è marginale bensì premonitoria. I rumori di una società anticipano le sue immagini e i suoi conflitti materiali.” Nel suono stesso – quello lineare e analogico del roots, così come quello digitalizzato e disperso tra gli hard disk del dancehall, ad esempio – sono codificate le relazioni sociali, culturali ed economiche del futuro. Per questo motivo è proprio l’estetica del reggae ad essere tanto importante. Lo studio (di registrazione, NDT) è anche il luogo metaforico per lo spazio e il movimento, le radici e l’appartenenza attraverso l’intero paesaggio immaginario della Diaspora nera. Qui le realtà locali assurgono a mitologia globale: rude boys del ghetto e druggists si trasformano in simboli della resistenza nera; sottoproletari emarginati dagli occhi rossi diventano profeti; il disordine dei quartieri popolari si fa teoria e politica culturale.

Chi è, dunque, il Dr. Satan? La mitologia del reggae è nota per la propria attenzione a questioni di dominazione ed oppressione, così come per le sue Anansi-esche politiche culturali. Fuga, trasformazione e frenesia linguistica fanno parte di questa tradizione: movimento, innovazione e irrequietezza sono le sue tipiche preoccupazioni, e le dinamiche di potere il suo focus esplicito. Il personaggio tipico del reggae è inesorabilmente coinvolto in una sfida: contro Babilonia, Papa Giovanni Paolo, Busha, lo Slave Master, o Mr. Brown. E, non di rado, egli stesso impiega il proprio potere nella marginalizzazione di diversi “altri” – donne, omosessuali e lesbiche, informatori, sound-boys rivali e ulteriori outsiders culturali. In questo caso, il Dr. Satan è l’immagine dell’autorità in senso tecno-culturale. Il titolo per questo pezzo proviene da un album di Rupie Edward intitolato, non senza risonanze bibliche, “Let There Be Version”, e da un brano originariamente intitolato “Yamaha Skank”. Secondo alcuni quest’album rappresenta la genesi dei one-riddim album (album dove tutti i brani sono basati sulla medesima traccia strumentale, NDT). Dato che ogni version risulta tanto diversa dalle altre, l’album non fu apprezzato solo per canzoni come quella del titolo, cantata da Shorty the President, o per “My Conversation” di Slim Smith & the Uniques, o ancora per il brano dei primi Heptones “Give Me the Right.” L’album fu ben ricevuto anche per come riusciva a giocare costantemente con le possibilità concesse da un limitato insieme di circostanze; fu elogiato per la manipolazione senza sosta della familiarità e per il riordinamento della memoria. Qui i Success All Stars, gruppo di musicisti responsabili dell’incisione originale, entrano di peso con una traccia letteralmente inzuppata d’eco, dal titolo “Dr. Satan Echo Chamber”, che chiaramente evoca una certa consapevolezza circa i sinistri piani di Colui il quale ha inventato la tecnologia. Ma la camera d’eco non è solo la macchina-mondo del capitalismo globale, bensì anche la metafora della Diaspora come processo, una tecnologia di cambiamento di cui il reggae non è solo un prodotto ma anche un meccanismo produttivo.

E’ ormai dato per assodato che il tamburo è la caratteristica che maggiormente definisce le tradizioni espressive di matrice Africana. La sua trasformazione in drum beat e ritmo non solo segna un cambiamento nelle forme della musica nera, ma anche nella stessa estetica nera, che muta di classe in classe, cultura in cultura, generazione in generazione. Nel voler continuare questo mito fondativo della Diaspora, bisognerebbe considerare il reggae come la forma nella quale si raggiunge la piena consapevolezza che non è tanto il tamburo ad essere cruciale, quanto il beat stesso; e che, amplificando e modificando il beat, anche quei membri della comunità gettati ai suoi margini più distanti – ora che le piantagioni attraversano le nazioni, e l’Africa è tutto il mondo – avrebbero potuto ballare, e ballando ricordare, e reinventare le proprie possibilità.

 

Algeria 2019: proteste popolari e media nazionali

di Saida Benammar e Viola Sarnelli

Saida Benammar è Assistant Lecturer in Media studies al C.U.R., Centro Universiario di Relizane, Algeria. La sua ricerca guarda soprattutto l’uso dei social media e le pratiche giornalistiche in Algeria. Ha iniziato a collaborare con TRU in seguito a una residenza presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Orientale.  
Viola Sarnelli ha studiato il ruolo di Al Jazeera e dei nuovi media nelle proteste arabe del 2011 per il suo dottorato in Studi Culturali e Postcoloniali all’Orientale. Nel 2014/2015 ha lavorato come ricercatrice in Algeria e ha pubblicato contributi sulle riforme mediatiche post-2011 in Nord Africa.

 

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La nuova ondata di proteste anti-regime in Algeria va avanti da ormai più di un mese. Èun processo in corso che lascia aperti per il momento diversi scenari, ma una cosa sembra certa: le proteste continuano più forti di prima, anche dopo che il presidente ha ritirato la sua candidature per le prossime elezioni. Proviamo a tracciare di seguito una cronologia essenziale degli eventi dell’ultimo mese, seguita da qualche appunto su come i media nazionali li hanno riflessi e influenzati.

 

Algeri, 8 marzo 2019. Fonte: Twitter

 

Cronologia / Vacanze inaspettate e una vittoria parziale

 

10 febbraio. Con una (lunghissima) lettera ai suoi cittadini pubblicata dall’agenzia di stampa nazionale, Abdelaziz Bouteflika conferma ufficialmente che correrà per il suo quinto mandato da presidente. Pur volendo ignorare il degrado economico e sociale in cui versa il paese, il problema principale di questa candidatura è che il presidente ottantaduenne non parla in pubblico dal 2013, data in cui è stato colpito da un ictus, e la gestione del potere sembra quindi essere da tempo in mano ad altri. Diversi partiti di opposizione decidono di boicottare le elezioni in segno di protesta. Una settimana dopo l’annuncio, il dibattito via social media tra un candidato di opposizione e il sindaco pro-Bouteflika di Khenchela, nell’est del paese, sfocia in una prima manifestazione durante la quale un grande poster del presidente viene tirato giù dalla facciata del municipio.

 

22 febbraio. L’appello per una manifestazione nel pomeriggio del 22, dopo la preghiera del venerdì, si diffonde rapidamente su Facebook e Twitter. Nonostante un’interruzione mirata dei servizi informatici nella capitale e dintorni, la partecipazione è impressionante e va ben oltre le previsioni politiche e mediatiche. L’Algeria non vede questi numeri da decenni. È un successo marca un punto di svolta sia rispetto a un divieto di assemblamento che persiste dal 2001, sia rispetto alla più generale e consistente paura della violenza che dopo la traumatica guerra civile degli anni Novanta è stata usata per scoraggiare molte iniziative politiche indipendenti. L’apparizione di un gruppo di provocatori alla fine della manifestazione e i conseguenti minori scontri con la polizia non rovinano comunque i risultati di un evento fondamentalmente pacifico.

 

27 febbraio. Una fugadi notizie rivela una conversazione tra il direttore della campagna elettorale di Bouteflika, Abdelmalek Sellal, e Ali Haddad, presidente del consiglio nazionale degli imprenditori, in cui i due auspicano l’uso della violenza contro i manifestanti. Per placare l’indignazione diffusa che segue la notizia viene nominato un nuovo direttore della campagna elettorale, il già ministro dei trasporti e lavori pubblici Abdelghani Zaalan.  

 

1 Marzo. Una nuova manifestazione nazionale è indetta via social networks. Nonostante la maggior parte dei media statali si sia concentrata solo sugli scontri tra polizia e manifestanti del venerdì precedente, l’affluenza stavolta è molto più alta. La manifestazione si oppone specificamente alla registrazione ufficiale della candidatura di Bouteflika, che deve avvenire entro il 3 marzo.

 

3 Marzo. La candidatura è depositata e sostenuta da più di 5 milioni di firme – provenienti per lo più da cittadini sotto pressione o impiegati governativi, sostiene l’opposizione. Lo stesso giorno il Presidente si rivolge ai suoi elettori con un’altra lettera pubblica in cui prende atto del grido di protesta popolare («cri du cœur») e promette profonde riforme costituzionali, elettorali e ‘sistemiche’ una volta eletto – comprese nuove elezioni anticipate alle quali non prenderà parte.

 

8 Marzo. Una manifestazione eccezionale sotto molti aspetti, nel giorno che coincide con la giornata della donne incoraggiando maggiore presenza femminile e di famiglie. Più di un milione di persone sfilano ad Algeri, senza contare le altre a Oran, Constantine, Bejaia, Tlemcen. Stavolta anche la conclusione è pacifica, senza l’interferenza di gruppi esterni e nessun intervento di polizia. «Repubblica e non regno» è uno degli slogan che unisce partecipanti molto diversi tra loro, occasionalmente raggiunti da alcuni personaggi noti, come l’eroina della guerra anticoloniale Djamila Bouhired.

 

9 Marzo. I manifestanti finora contano adesioni da diversi settori professionali (in particolare giornalisti, avvocati, magistrati, insegnanti) ma un ruolo fondamentale è giocato ancora una volta da studenti e giovani in generale. Per scoraggiare la partecipazione degli universitari nella capitale, il ministero dell’educazione e ricerca decide repentinamente di anticipare l’inizio delle vacanze di primavera di dodici giorni, chiudendo tutti i campus per rimandare a casa gli studenti fuorisede. Il risultato è la vacanza di primavera più lunga nella storia dell’università algerina.  

 

8-10 Marzo. Un invito a organizzare azioni di disobbedienza civile circola sui social media e diversi gruppi sperimentano questo approccio per aumentare la pressione sul governo. Le iniziative sono sparpagliate in tutto il paese e molto variegate – si va da chiusura di negozi, sciopero di lavoratori portuali e dei trasporti pubblici, chiusura di scuole – e non trovano spesso grande supporto.

 

11 Marzo. Bouteflika annuncia che non correrà per un quinto mandato. Questa è considerata però solo una vittoria parziale dai manifestanti, dato che il presidente annuncia anche che le elezioni non avranno più luogo in aprile come previsto, e che seguiranno invece una conferenza nazionale su riforme politiche e costituzionali prevista per la fine dell’anno. Molti considerano il rinvio delle elezioni una mossa incostituzionale, e la situazione nel paese rimane tesa. La manifestazione che segue l’annuncio, il 15 marzo, registra il più alto numero di partecipanti dall’inizio delle proteste.

 

Algeri, 15 marzo 2019. Fonte: Facebook

 

Il silenzio dei media statali

Mentre il movimento dà forma rapidamente e spontaneamente a manifestazioni di massa, la maggioranza dei media nazionali non si trova nella posizione di offrire nessuna rappresentazione imparziale o oggettiva degli eventi. In generale questa possibilità è piuttosto distante dalla realtà dei media pubblici algerini e in particolare dei canali televisivi – tuttora la prima fonte di informazione per la maggior parte della popolazione – che hanno sempre accuratamente evitato di dare spazio a storie che potessero mettere in discussione l’immagine del governo. Come dicono spesso gli algerini, il paese nel telegiornale (“Il telegiornale”, quello del canale pubblico principale, ENTV) non assomiglia per niente al paese in cui viviamo.

 

Nonostante queste premesse, molti Algerini si sono comunque ritrovati a guardare il telegiornale serale del 22 febbraio, solo per constatare increduli che non vi era alcuna traccia delle manifestazioni di massa appena concluse in tutto il paese. La settimana seguente, il silenzio dei media statali viene rotto con qualche commento frettoloso sul fatto che molti algerini sono in strada, senza prestare troppa attenzione al perché’ di queste azioni. Il dibattito sui social media e la documentazione delle proteste intanto cresceva di giorno in giorno. Il 27 febbraio un gruppo di giornalisti della televisione pubblica organizza una protesta, esasperati dalla linea editoriale del loro datore di lavoro. In questo contesto ha quindi fatto grande impressione l’agenzia di stampa pubblica APS (Algérie Presse Service), parte dello stesso conglomerato, dichiarando che quelle migliaia di persone nelle strade erano lì per chiedere al presidente di ritirare la sua candidatura.

 

Pratiche mediatiche che rimandano alla Primavera araba

Ci ricordiamo ancora dello storico momento in cui la televisione pubblica algerina aprì le braccia a un gruppo di giovani attivisti invitandoli in un programma televisivo e dandogli l’insolita libertà di esprimere le loro opinioni, idee e rivendicazioni. Era il 2011, e questo era uno dei tentativi di contenere la rabbia crescente nel paese. La stessa scena si è ripetuta stavolta con il crescere delle manifestazioni, e l’adesione di diversi settori professionali. Questa volta però il dibattito politico televisivo avviene sia nei canali pubblici che in quelli privati, fondati dopo la liberalizzazione del settore audiovisuale – una delle concessioni del regime alle proteste del 2011. Un programma settimanale, Hiwar Elsaàa (Le dialogue de l’heure) sul pubblico ENTV ha iniziato ora a invitare ospiti che discutono gli eventi in corso e commentano anche questioni serie come corruzione, disoccupazione e libertà di informazione. Questi argomenti sono ancora generalmente inesistenti nel settore pubblico, e riflettono ancora una volta una problematica visione della neutralità dei media che sembra essere strutturale più che episodica.

 

Media privati tra libertà di espressione e realtà dei finanziamenti

Nonostante alcune aperture, la situazione dei media privati in Algeria rimane complessa data l’intransigenza del governo, che non accetta nessun cambiamento reale nell’ambiente mediatico ne’ ammette una reale autonomia finanziaria per i canali privati. La maggior parte sono infatti ancora dipendenti dalle inserzioni pubblicitarie distribuite dall’agenzia statale a tutti i quotidiani – e la  maggior parte dei canali televisivi privati sono emanazioni di quotidiani indipendenti preesistenti. Questo significa che il governo può efficacemente impedire ai media privati di coprire liberamente le mobilitazioni popolari minacciando di tagliare tutta la pubblicità, come è appena accaduto nel caso di compagnie mediatiche molto popolari come Echouruk (giornale e canale TV) e El-Bilad (giornale e canale TV) in seguito ai loro resoconti troppo liberali delle proteste. Allo stesso tempo, l’unico canale privato in tutto e per tutto leale al regime, Ennahar TV, continua senza remore a concentrarsi solo sui danni alla proprietà pubblica causati dai manifestanti, e dagli scontri con la polizia seguiti ad alcuni cortei. Inutile dire che gli interventi di questi gruppi di provocatori sembrano seguire il ben noto schema ben noto al governo egiziano con il suo uso di criminali e provocatori nella rivoluzione del 2011 – eppure questa rimane l’immagine principale promossa dai media pubblici e privati pro-regime. Il paese aspetta intanto i prossimi sviluppi politici, e cerca attivamente di influenzarli, sperando che si accompagnino finalmente anche a un cambiamento nelle narrative mediatiche dominanti.

 


#hope2026 Quando Jim è andato via….

‘…dovremmo fare causa comune con quei desideri e nonposizioni che sembrano folli e non immaginabili. Dovremmo rifiutare quello che ci è stato rifiutato, e in questo rifiuto, ridare forma al desiderio, riorientare la speranza, ri-immaginare la possibilità…’ (J. Halberstam prefazione a Stefano Harney e Fred Moten The Undercommons: Black Study and Fugitive Planning. Minor Composition, 2013, immagine in evidenza)

 

#hope2026 E’ qualche annetto che non vivo più al centro storico, ma mi fermo ancora ogni tanto al supermercato di via Mezzocannone, dove per qualche anno fuori salutavo Jim e suo fratello, due ragazzi nigeriani che aiutavano un po’ in negozio per racimolare qualche soldo nei tardi anni 2010. Non ci sono più Jim e il fratello. Da quando è stata implementata la libera circolazione mondiale delle persone, Jim finalmente è riuscito a partire per gli Stati Uniti, dove ha raggiunto parte della sua famiglia. Chiedo alla cassiera se ha avuto notizie e lei mi risponde di sì. Jim e suo fratello video chiamano ogni tanto il negozio, stanno benissimo, ma stanno pensando di trasferirsi di nuovo in Polinesia fermarsi un po’ lì e poi chissà tornare in Nigeria. Il passaporto unico mondiale ha posto fine alle barbarie dei barconi, della propaganda xenofoba, delle immagini reali o meno fatte a tavolino per fare scordare ai più il furto della ricchezza comune che mercati e governi ci hanno imposto per anni con il debito e l’austerity… Non ci posso credere che sono passati solo otto anni da quel buio 2018 quando tutto sembrava perduto e pareva come se le cose potessero solo peggiorare. Com’è successo che tutto è cambiato così velocemente? Ricordo le notizie dello sciopero globale qualche anno fa come colse tutti di sorpresa. Uno sciopero simultaneo in tutto il pianeta di tutti i migranti, emigranti e immigrati. Bracciant*, badanti, scienziati*, insegnanti, ingegner*, opera*, muratori, medici, infermier* e facchini, cuoche e camerieri, da Londra a Dubai, da Cape Town a Shanghai, da Rio a Sidney, si sono fermat* tutt* a prescindere dalla nazionalità. Si è bloccato tutto non si è capito più niente: una sola richiesta, basta con visti, carte verdi e permessi di soggiorno, movimento libero planetario e passaporto mondiale per tutte e tutti. Poter andare e tornare e stabilirsi dove si vuole a proprio piacimento. Hanno bloccato tutto e hanno vinto, e con loro abbiamo vinto tutte e tutti. Finalmente con l’introduzione dellla totale libertà di circolazione mondiale ognuno è libero di andare dove vuole, di potersi spostare con dignità, senza chiedere permesso a nessuno. Non ci sono più barconi né ragazzi neri a chiedere l’elemosina per strada, sono andati quasi tutti via, altrove, ma tornano ogni tanto a trovarci, a visitare la città. Penso a come nessun imprenditore può minacciare adesso di spostare all’estero il lavoro perché non possono più sfruttare le differenze di salario da quando il lavoro è diventato mobile davvero come il capitale. Pago la mia spesa e mi dirigo verso lo Scugnizzo, occupazione storica del quartiere Montesanto, dove ho appuntamento questo pomeriggio con un gruppo di internazionale (finlandesi e venezuelani, canadesi e cinesi, indiani e ecuadoreni) Con loro stiamo lavorando a migliorare questa piattaforma finanziaria blockchain che ci ha permesso di sopravvivere quando il mercato è crollato e i grandi fondi hanno sferrato un attacco micidiale all’economia. Senza questa orribile competizione tra lavoratori sugli stipendi più bassi, un intero sistema economico è crollato. Ma invece di produrre caos e devastazione questo crollo ha mostrato che un altro mondo si era già formato, invisibile ai più e ora in piena vista di tutti, un mondo di cooperazione libera e intelligente: abbiamo usato le tecnologie più avanzate, le piattaforme digitali, le blockchain e l’intelligenza artificiale, ma soprattutto un nuovo spirito di solidarietà. Insieme senza divisioni di nazionalità e etnia finalmente riusciamo ad affrontare le sfide del cambiamento climatico e della riorganizzazione della produzione per garantire tempo libero e possibilità di formazione per tutte e tutti. Non sarà facile perchè i cambiamenti climatici e i disastri ambientali, l’eredità di questi ultimi maledetti anni sono stati davvero molto pesanti. Ma spira finalmente un’altra aria, un’aria piena di speranza e di nuove possibilità. #hope2026

Memorie di un archivio futuro: politiche dell’immagine dal mondo arabo post-2011

Il 24 e il 25 maggio alla John Cabot University a Roma si svolgerà il workshop “The Arab Archive: Mediated Memories and Digital Flows”, un incontro di due giorni dedicato all’economia politica dell’immagine araba tra materialità, etica ed estetica della sua produzione, distribuzione e archiviazione dal 2011 in poi. Il workshop, che vedrà la partecipazione di ricercatori, attivisti, artisti e curatori dal mondo arabo e non solo, rifletterà sulla questione della rappresentazione e delle politiche della memoria nel contesto arabo, schiacciato adesso da guerre civili, violenze o processi contro-rivoluzionari. Ripensare agli archivi digitali nel mondo arabo post-2011 vuol dire interrogarsi non solo sul ruolo del passato nelle conflittualità del presente, ma soprattutto su quali sono i soggetti e i poteri coinvolti a molteplici livelli geografici, locali e internazionali, nel modellare le politiche degli archivi, particolarmente alla luce delle potenzialità della tecnologia digitali nel facilitare i processi di condivisione e archiviazione del passato. Il programma dell’evento si può trovare a questo link; qui il programma della tavola rotonda “The revolutions won’t be televised. Immagini e archivi dalle rivolte del 2011”, che si svolgerà il pomeriggio del 24 a ESC Atelier.

 

May amnesia never kiss us on the mouth. May it never kiss us. Così scrivevano Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme, artisti visuali palestinesi, in un intervento contenuto nel volume collettaneo You Are Here. Art After the Internet. Pensavano al desiderio che spinge a conservare frammenti di tempo, e a come sia possibile nel virtuale produrre e riprodurre continui archivi della contemporaneità, tramite piccole operazioni scandite dalla banale riproduzione della routine del cercare, scaricare, tagliare, incollare, copiare, documentare, caricare, postare, bloggare, twittare… Gli artisti palestinesi discutevano di quanto la dimensione e la pratica dell’archivio avesse riguadagnato centralità nei pochi anni precedenti, complice l’inversione di rotta avviata dalle nuove tecnologie che ha drasticamente infranto l’elemento statico e la processualità gerarchica dell’archivio, così come hanno testimoniato le vicende che hanno destabilizzato la regione del Nord Africa e Medio Oriente dal 2010, momento in cui siamo stati testimoni della possibilità di trasformare istantaneamente un evento in un file archiviale semplicemente riversandolo in maniera immediata nel ben più grande archivio di Internet. Ciò ha scompaginato lo scenario, presentando nuove pratiche di appropriazione, ri-archiviazione, documentazione, ri-narrazione, come prodotte in massa, ma soprattutto pubblicamente e performativamente, non solo come conseguenza e testimonianza, ma anche come componente del momento fisico di rivolta. L’idea di produrre archivi dissonanti in tempo reale, mente gli eventi si svolgono, può essere compreso, scrivevano sempre Abbas e Abou-Rahme, come un modo fondamentale per interrompere lo spettacolo del potere, e non solo condividere informazioni.

Oggi l’impulso a documentare, salvare e narrare il momento è ovunque, e la produzione collettiva e sempre crescente di archivi soggettivi, orizzontali, critici tra i paesi del mondo arabo esprime in maniera radicale il desiderio di ricominciare a interrogarsi, a partire da questo, sulle modalità di costruzione e decostruzione della storia, del passato e dell’attuale; un processo in cui per l’archivio non è solo contenimento e produzione di dati, ma soprattutto un dispositivo che può e deve mettere in discussione la sua funzione e il suo contenuto, per sovvertirlo dall’interno e renderlo vivente.

 

Screenshot homepage archivio egiziano 858 (https://858.ma)

 

Si tratta di una discussione che da una sponda all’altra sta prepotentemente attraversando, tanto in maniera teorica quanto pratica, i paesi del Nord Africa e Medio Oriente, tagliando trasversalmente geografie e temporalità, per diventare oggetto di pratica e discussione da parte di ricercatori, studiosi, ma soprattutto attivisti e artisti.

In questi anni, lo slancio politico e il potenziale liberatorio, la vitalità creativa che si impone di salvare il desiderio dall’egemonia della cannibalizzazione archiviale così come è stata conosciuta finora, quella dello spettacolo del potere, ha dimostrato di essere espressione anche di un riguadagnato diritto alla parola, di un’assunzione di agentività. La genesi di tali dissonanti e proliferanti archivi, dalla Tunisia all’Egitto, dalla Siria alla Palestina, è allora in sé un atto di dissenso e di resistenza dalla trappola della rappresentazione, una delle tante possibili articolazioni della creazione di un nuovo radicale immaginario politico. È pur vero che un eccesso di informazioni potrebbe paradossalmente portare all’amnesia, ed è questo che potrebbe accadere dinanzi al flusso straripante e troppo accelerato di dati auto-prodotti nell’archivio digitale, tuttavia questo non deve condurre a una derubricazione dell’atto archiviale. Bisogna allora affrontare la questione allargando lo sguardo verso un nuovo immaginario.

Qui, praticare l’archivio vuol dire non solo contrastare la monopolizzazione della memoria degli archivi ufficiali, o l’obliterazione di memorie altre, sopraffatte dalla verticale gravità del potere, ma soprattutto ricostruire un nuovo senso di archiviare, che nasce soprattutto dalla ridefinizione di chi può farlo, e dalla plasticità linguistica e testuale di ciò che compone l’archivio. Un percorso che ha a che fare tanto con la memoria che con la creazione di un percorso per il futuro, poiché l’intento di questi archivi non è solo il preservare, quanto il localizzare le testimonianze come strumenti di resistenza e farle circolare; oltre alla possibilità di creare alleanze trasversali contro le privatizzazioni dell’archivio, ma soprattutto contro l’egemonia delle narrazioni della storia, della distribuzione del potere e del disciplinamento del dissenso.

Di immagini, spettacolarizzazione e cannibalizzazione, particolarmente nello scenario siriano, abbiamo discusso recentemente con Donatella Della Ratta, organizzatrice del workshop che si terrà alla John Cabot University e docente di Communications and Media Studies presso la stessa università statunitense a Roma. Donatella Della Ratta è stata ospite della TRU e del Centro Studi Postcoloniali e di Genere del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali (Università L’Orientale di Napoli) lo scorso aprile per un seminario sul suo libro di prossima uscita per Pluto Press, Shooting a Revolution: Visual Media and Warfare in Syria, e per una performance svoltasi presso L’Asilo, dedicata alla Siria e all’archivio personale di immagini della rivoluzione di Bassel Khartabil aka Safadi, attivista pacifista siriano, scomparso e poi morto nelle carceri siriane, parte attiva di quella comunità di arab geeks e techno-savies, che aveva contribuito a formare una cultura digitale in Siria e nel mondo arabo e a dare un contributo attivo agli effettivi sommovimenti sociali scoppiati nella regione tra il 2010 e il 2011.

 

Immagine dalla performance “L’immagine sparita”

 

Quello di cui Bassel Khartabil era un appassionato esponente era una forma di cultura digitale che nello scorso decennio ha travalicato i confini nazionali, riconnettendo gli arabi a diverse latitudini e contesti, in una dimensione collettiva e reticolare, accomunata in maniera sinergica e solidale (e le campagne per la liberazione dei mediattivisti detenuti ne sono ancora un esempio) da una visione della tecnologia come possibilità trasformativa della società: tecnologia significava tanto il simbolo della libertà di espressione quanto lo strumento attraverso cui conquistarla. Un’idea per cui le pratiche legate alla tecnologie digitali del curare, proporre contenuti, condividerli, erano e sono indistricabilmente legate a riconnettere il mondo dell’online con tutto quello che c’è fuori, il virtuale con le molteplici pratiche dell’attivismo sociale, in un’ottica che non ha nulla a che vedere con un determinismo tecnologico, ma che guarda a come l’ecologia e la pratica della cultura digitale (nei suoi molteplici aspetti, dal coding al blogging) possa avere informato un network di relazioni e sviluppato progetti per promuovere la libertà di espressione, di condivisione di informazioni, di coscienza dell’open source, e in definitiva, un cambiamento politico e sociale.

L’esplosione degli archivi digitali sembra poter riportare indietro tutto questo, rimostrando con vigore questa cultura dell’attivismo digitale, costretta negli ultimi anni a sopravvivere in uno scenario fagocitante, in cui sono diventati bulimici la produzione e il contenuto di immagini e visioni opposti e violenti, in cui i soggetti sono definiti e determinati dall’immagine, un’immagine violata che non è più rappresentazione, né tantomeno testimonianza, piuttosto è in antitesi di entrambi. Lo scenario attuale della produzione e circolazione delle immagini, particolarmente in Siria, sembra raccontarci di una dispersione, dissipazione e dissoluzione dei significati. In riposta a questo collasso, c’è però credo ancora una possibilità di interferenza, e di intervento, una risposta a queste forme di digital warfare e militarizzazione delle immagini.

Se è vero che la politica di testimonianza pubblica degli archivi digitali deve scontrarsi con la proliferazione di regimi visuali violenti e il fallimento dell’immagine-evidenza in favore dell’immagine indegna e non dignitosa, è nel lavoro con gli archivi, nella loro doppia intenzione, talvolta coincidente, di pratica documentaria ma anche creativa, che c’è una possibile strada per ridare operatività alle immagini, e ricostruire realtà e dimensioni di significato. Oggi, l’immagine della rivoluzione, già condannata all’estinzione perché forse lontana dai canoni di spreadability e di potenza riproduttiva, è sparita, insieme a chi questa rivoluzione l’ha tentata, cancellati virtualmente e fisicamente dalla sfera pubblica. Ma possiamo conservare una genuina, forse ingenua, credenza che negli interstizi ci sia una possibilità, come testimonia nonostante tutto questa forte politica attiva di resistenza contro l’uso mainstream delle immagini, guidato dal mercato dell’informazione e dall’ipertecnosocialità, e contro l’apparente irrefrenabilità delle immagini digitali di violenza, come per esempio il lavoro del collettivo di video-maker siriani Abounaddara ci racconta.

Certamente questo tipo di immagini altre e questi archivi operano in un circuito che viaggia ad un’altra velocità, forse non riuscendo ancora ad essere tanto effettivi quanto affettivi, o ad uscire dall’opacità, ma sono senza dubbio l’espressione dello sforzo di ricostruire i tasselli delle troppe “immagini mancanti”, e definire una nuova politica dell’immagine che strappi i soggetti a una visione voyeuristica, orientalista e compassionevole. Si tratta di un approccio vitale ed eticamente complesso, si tratta di scrivere una storia che si dispiega giorno per giorno, e di un modo per riportare quell’esplosione di energia scaturita con la rivoluzione nei diversi paesi, costruire una nuova temporalità, con le sue disgiunzioni e interruzioni, e con i suoi futuri possibili, tentando una reazione all’evacuazione del significato, e costruendo perciò un senso differente per questi nuovi archivi visuali e di memorie, per resistere alla vulnerabilità e all’obliterazione.

(Olga Solombrino)

Futuro Remoto: appunti per un’archeologia del futuro.

La vita è assurda

Lo dice sempre Mike. Nella sua casa su Prinsengracht, nel centro di Amsterdam, si finisce sempre sul divano, a discutere di esistenzialismo, arte, storia, Europa, Brexit, la lingua e l’etimologia. Ogni volta che si alza per versare un bicchiere di whiskey o prendere una lattina di birra fredda sul balcone, Mike chiude o apre una conversazione col suo mantra preferito: la vita è assurda. L’assurdo l’ho incontrato per la prima volta al liceo, leggendo Il Mito di Sisifo e Lo Straniero di Camus. Mi piaceva l’adozione di uno sguardo nichilista sul mondo, perché mi restituiva un senso del reale disilluso e perché mi permetteva di mettere in discussione tutto quello su cui non ero d’accordo: le ore di religione, il modo in cui mi venivano spiegate la storia, la fisica e la matematica. Ero una studentessa allora, e anche oggi, a volte, quando mi siedo sul divano di Mike, mi sembra di essere ancora al liceo, quando provavo a colmare il divario tra la stranezza del mondo e il desiderio di ingabbiarlo in un’unità di senso. L’assurdo rimaneva nello scarto, ciò che non poteva essere completamente conosciuto, l’intraducibile. Più tardi, all’università, ho imparato a fare pace con tutto ciò che è altro dai miei parametri di conoscenza, e quello che prima era assurdo, è diventato poi un modo, tra tanti, di stare al mondo.

Sono appena rientrata da casa di Mike e mi sono seduta a scrivere il mio pezzo per TRU, perché ho visto una mostra che mi ha fatto venire voglia di rimettermi a scrivere di quello che mi piace; sfogliando tra i miei appunti, mentre cerco un filo conduttore per tenere insieme i testi, ecco che mi si palesa ai sensi l’assurdo, il paradosso, la contraddizione.

Odissea nello spazio

Dal 14 gennaio all’11 febbraio, il Melkweg Expo ha ospitato Creating Other Futures, una mostra curata da Brigitte van der Sande, che ha riunito artisti/e e collettivi internazionali attorno al tema del futuro ripensato da una prospettiva non occidentale. L’esposizione è stata parte di un progetto più ampio: Other Futures è una piattaforma online e offline dove teorici/teoriche, artisti/e e produttori/produttrici culturali provenienti da diversi ambiti disciplinari si confrontano con un pubblico di utenti altrettanto variegato per elaborare assieme nuovi visioni del mondo ‘a venire’. Realizzata dalla Mouflon Foundation, in collaborazione con le università di Amsterdam e Rotterdam, e con altri istituti e operatori della scena artistica e culturale locale, la prima edizione del progetto è stata incentrata sulle aspirazioni, come le chiamerebbe Appadurai, evocate dalla fantascienza non occidentale. Oltre alla mostra collettiva, la manifestazione ha incluso un ricco calendario di eventi: un festival di letteratura, musica, cinema e scienza, e una serie di incontri e conferenze accademiche sui temi dell’utopia e del futurismo, intrecciati alle questioni del cambiamento climatico, della razza, del genere e della sessualità nell’odierno contesto politico e socio-culturale.

Per Creating Other Futures, gli/le artisti/e hanno operato un intervento di radicale immaginazione del futuro. Provenienti da diversi background culturali, articolati in linguaggi artistici differenti e radicati in aree geografiche altre dall’Europa e dal resto dell’occidente (Palestina, Kenya, Singapore, Mexico), i lavori si concertano nel rifiuto del futuro così come è già stato consegnato alla storia dalla politica neoliberista dominante: un mondo inteso come insieme ordinato di parti (s-oggetti) separate, la cui relazione reciproca è mediata da poteri economico-politici che decidono della loro inclusione differenziale in questo o quell’altro flusso di produzione e consumo. Disturbi alimentari e la fame nel mondo; ambientalismi e i nuovi colonialismi dell’ingegneria biogenetica; la mobilità degli Expat e il rimpatrio dei migranti. Collocandosi precisamente sul confine dei paradossi del capitalismo contemporaneo, i progetti esposti scardinano ogni assunto della ragione moderna. Gli scenari fantascientifici delle installazioni espongono il pubblico a un esercizio di immaginazione in grado di ripensare le relazioni (sociali, economiche, disciplinari…) tra le parti (non più s-oggetti, ma soggettività) senza quelle fissità astratte prodotte dalla ragione e dalla violenza, parziale o totale, che questa comporta – contro gli altri culturali (non-bianchi/non-Europei) e fisici (non-umani).

L’artista digitale Jacque Njeri, per esempio, fa dialogare la tradizione del mito Maasai keniota con i tropi afrofuturistici del viaggio nello spazio e della vita su altri pianeti, dando vita a MaaSci, titolo nato dalla fusione delle parole ‘Maasai’ e ‘sci-fi’. L’opera è presentata come una raccolta di stampe grafiche che documentano il viaggio nello spazio della comunità MaaSci. La leggenda, rivisitata dall’artista, narra di una coppia (moglie e marito) che dalla Silicon Savannah parte in esplorazione dello spazio. I due ritorneranno con artefatti provenienti dalla Luna e da altri pianeti, grazie ai quali sarà possibile intrattenere scambi con altre comunità tribali più ricche, così da assicurare ai MaaSci l’approvvigionamento di acqua e risorse alimentari. La memoria del viaggio nello spazio – una narrazione a cui l’artista si riferisce col termine ‘Shestory’ – è appuntata su una pergamena e consegnata alla comunità delle donne MaaSci, depositarie della tecnica e della conoscenza scientifica. Alle donne che, sfidando i costrutti di genere, si dedicano ad occupazioni tradizionalmente maschili, quali lo studio della scienza e dell’ingegneria, si deve infatti la messa a punto delle tecnologie e delle astronavi che continueranno a mandare i MaaSci, nomadi celestiali, nello spazio.

Di passato interstellare tratta anche Windows on the World Part III. Qui, l’artista Ming Wong mette assieme un’installazione video multi-canale che ripercorre e intreccia la storia e le tradizioni della cultura dell’antica Cina in dialogo con il contemporaneo. Gli schermi, sistemati su casse di legno e bancali ammucchiati sul pavimento della galleria, trasmettono scene dell’opera cinese, testi e materiale documentario del programma spaziale del Paese, e sequenze di immagini che documentano un immaginario pop della fantascienza cinese. Questa sorta di scintillante e frammentata futurologia del passato risveglia il corpo e lo spirito di un’esploratrice spaziale, che compare a tratti sugli schermi mentre vaga tra le rovine della storia alla ricerca di una nuova soggettività.

Il viaggio nello spazio continua per i visitatori della mostra nel lavoro di AiRich. L’artista visuale africana, stabilita ad Amsterdam, introduce il pubblico alla vita sul Pianeta AiRich: una stazione interplanetaria in un’altra galassia, dove i Visionari si incontrano per essere riforniti dal “Grande Tutto” prima di partire per una missione volta al ristabilimento dell’equilibrio e dell’umanità sulla Terra. L’artista espone una documentazione di ritratti e testi che mappano un territorio sconosciuto e invisibile, tanto all’umano quanto alle tecnologie che questo ha prodotto. Armati, avvolti in un campo magnetico che è loro scudo, i Visionari del Pianeta AiRich parlano un’altra lingua, eppure sono in grado di farsi intendere. Il testo, proiettato in loop sullo schermo all’ingresso della galleria, recita: “Ogni attacco a loro sarà restituito indietro, più in fretta della velocità del suono e della luce, e risuonerà nella realtà degli attaccanti.” Un monito, questo, e un invito a prendere coscienza del fatto che il futuro è preparato in itinere, e non c’è modo di immaginarne un altro libero dal ricordo. “Planet AiRich – si legge ancora sullo schermo – è una stazione di disintossicazione, un rifugio per il rinnovamento”, uno spazio per la pratica della memoria (remembrance) e la cura di coloro che sono (stati) danneggiati.

Alimentato forse dall’urgenza di rispondere ai quesiti posti dal dibattito sulla questione ambientale, il tema del futuro mi sembra essere oggi un argomento di grande interesse, a volte anche di tendenza, negli ambienti dell’arte, della scienza e della cultura di consumo in generale, impegnati nella produzione di artefatti che prefigurino un mondo in cui la Terra, la tecnologia, l’umano e l’animale possano co-esistere in maniera sostenibile. Solo che non tutto quello che contemporaneamente si sta producendo in questo senso mi sembra essere inclusivo nei confronti di una differenza che è alla radice di qualunque sistemazione si provi a dare al mondo.

Nel sociale, per esempio, le forze politiche dominanti non mi sembrano in grado di preparare uno spazio di co-esistenza per le diverse soggettività che lo abitano, com’è testimoniato dal ritorno al potere delle destre in gran parte dei governi occidentali, per primo forse l’Italia, dove i discorsi politici dei due partiti vincitori delle ultime elezioni (Lega Nord e Movimento Cinque Stelle) – tra gli altri – si costruiscono su un lessico e una grammatica razziali, in  armonia con le politiche di (non)accoglienza adottate da Trump e dall’Europa nei confronti di rifugiati e immigrati. Come spiega Denise Ferreira da Silva in un articolo molto interessante sulla necessità di ripensare la natura e la co-esistenza delle differenze, il programma etico-politico dominante è radicato in una visione dialettica ereditata dal pensiero moderno occidentale, che alimenta sentimenti di incertezza e di paura dell’altro (il terrorista musulmano, l’africano che soffre e muore di fame…).

Altrettanto inadeguate alla complessità del mondo e alla costruzione di un’etica di sostenibilità e co-esistenza della differenza, mi sembrano essere alcune proposte provenienti dalla scienza. In concomitanza con la mostra Creating Other Futures, lo scorso 6 febbraio, i media occidentali hanno puntato i riflettori sul lancio del Falcon Heavy, il razzo studiato per mettere in orbita carichi pesanti per grandi basi orbitanti e per assemblare grosse astronavi, realizzato dagli ingegneri di SpaceX, l’azienda aerospaziale di Elon Musk. Quella sera ho cenato da Simon; verso le dieci lui e Pablo seguivano in diretta il viaggio della capsula, incuriositi e affascinati da una specie di estetica pop futurista: un razzo rilasciava nello spazio una Tesla rossa con un astronauta finto al volante, dotato della tuta sviluppata per gli astronauti veri della Dragon V2 e accompagnato dalle celebri colonne sonore di David Bowie. “Piccolo spazio pubblicità…”, cantava Vasco, in Bollicine, nel 1983. Per la sua nuova impresa interstellare, Musk è stato eletto dalla maggior parte dei media occidentali come indiscutibile icona del futuro. Ma quale? Di chi? Per chi? Per assurdo, il nuovo magnate dell’industria aerospaziale e proprietario della Tesla, compagnia di veicoli elettrici, batterie e pannelli solari leader nel settore dei trasporti green, celebra la sua impresa nello spazio rilasciando in orbita una macchina, alla faccia delle politiche di sostenibilità ed ecologia di cui la sua azienda si fa promotrice. Non solo. Come sottolineato dallo scrittore e urbanista Paris Max, in un articolo per Jacobin, “le tecnologie di cui abbiamo bisogno per trasformare la nostra rete di trasporto esistono già, ma gli americani sono stati a lungo bloccati in un sistema datato e auto-dipendente mentre gli veniva negata la tecnologia del presente da politici invischiati nella lobby dei combustibili fossili e dipendenti da un’ideologia del “mercato libero”, tanto che crederebbero a qualunque ricco imprenditore che si presentasse loro con una soluzione.” Le proposte di Elon Musk per lo sviluppo delle tecnologie di trasporto sono di fatto disegnate per rallentare la costruzione di un’infrastruttura che potrebbe realmente aggiornare il sistema dei trasporti americano spingendolo, finalmente, nel XXI secolo. Seppur sia possibile riconoscere all’imprenditore il merito di aver dato una spinta all’industria del settore verso lo sviluppo e l’implementazione di veicoli elettrici, la sua visione del futuro della mobilità non si emancipa da una tipologia di trasporto automobilistico individuale, esclusorio ed esclusivista.

Davanti a questi modelli dominanti per gli scenari natural-culturali del futuro, preferisco rivolgermi all’arte, nella cui selva ho trovato proposte di cambiamento molto più radicali, meno glam (forse) e decisamente inclusive, in grado di scardinare gli assunti del pensiero moderno, che ripete da secoli un’aberrante separazione della differenza (di corpi, materie, specie, generi e sessualità). I lavori esposti al Melkweg Expo in occasione della mostra Creating Other Futures, in questo senso, interrompono proprio questa dialettica, attraverso la messa in discussione della dicotomia tra un occidente maschio, bianco e depositario della Storia e della Scienza e il resto del mondo, eternamente colonizzato e cronicamente in ritardo sul progresso, secondo i parametri dello sviluppo e della civilizzazione moderni.

In the Future They Ate From the Finest Porcelain

Se della memoria, intesa come indispensabile e inevitabile punto di partenza per l’immaginazione di altri futuri, trattano i progetti artistici sopra presentati, questa diviene snodo centrale nella trama del film-documentario fantascientico di Larissa Sansour, pure parte della mostra al Melweg Expo. L’artista palestinese, in collaborazione con l’autrice danese Søren Lind, anticipa già nel titolo del suo lavoro l’anacronismo storico: l’interruzione della narrazione dominante del mondo necessaria a qualunque nuova prefigurazione del futuro si intenda produrre. In the Future They Ate From the Finest Porcelain si articola trasversalmente nel dialogo tra fantascienza, politica e archeologia. Combinando live motion e CGI (computer-generated imagery), il film esplora il ruolo del mito per la storia e per la costruzione di un’identità nazionale. Un gruppo di resistenza narrativa scava dei depositi sotterranei destinati alla conservazione di manufatti in porcellana, appartenenti ad una civiltà immaginaria. Lo scopo è quello di influenzare la Storia e sostenere le future rivendicazioni della terra, di cui tale civiltà è (stata) spossessata. Una volta dissotterrate, le ceramiche proveranno l’esistenza di questo popolo, permettendo il riconoscimento della sua identità nazionale. Nel video-saggio, una voce fuori campo rivela la filosofia e le idee alla base delle azioni del gruppo di resistenza: costruendo e mettendo in atto un mito, vale a dire performandolo, è possibile operare un reale intervento nella storia, costruendo di fatto una nazione. “La finzione, l’immaginazione, la letteratura hanno un impatto sulla politica e sulla storia” – recita la voce narrante; “il mito crea i fatti e permette l’identificazione… aggiunge numeri, scombinando l’ordine matematico dei governanti, che impongono una narrazione e si accorgono degli altri solo quando questi si ribellano.” Le sequenze del film si susseguono. Alla voce fuori campo, si aggiunge il dialogo tra la protagonista, leader del movimento di resistenza, e la sua psichiatra: uno scavo nell’inconscio e nella memoria alla ricerca di un futuro remoto, costruito a ritroso, e reso negli scenari di una futurologia del passato, in cui ambientazioni archeologiche e spaziali si sovrappongono.

Appena accanto alla sezione della galleria in cui è proiettato il video-saggio, in delle nicchie ricavate nella parete, due sculture dell’artista palestinese proseguono l’interrogazione del futuro e la sua immaginazione a ritroso. L’installazione scultorea presenta le riproduzioni in bronzo di una piccola bomba nucleare dell’epoca della Guerra Fredda russa. Sul disco di ciascuna delle due capsule sono intagliate le coordinate latitudinali e longitudinali di due depositi di porcellane e ceramiche. Con la porcellana di fatto assente dall’installazione, le bombe rappresentano gli artefatti archeologici in assenza. Le coordinate di ciascun deposito rimandano ad un luogo sul confine israeliano-palestinese, in cui l’artista ha tenuto una performance in collaborazione con istituzioni artistiche locali: durante l’azione, artefatti in ceramica e porcellana, decorati con i pattern della kefiah, il tradizionale copricapo della culture arabe e mediorientali, sono stati interrati in quindici depositi. Delle foto in bianco e nero documentano i luoghi dell’intervento artistico.  Archaeology in Absentia interroga il ruolo dell’archeologia e la sua strumentalizzazione come nuova forma di guerra. Le sculture ovali, richiamando la forma delle uova Fabergé, una realizzazione di gioielleria ideata presso la corte dello zar di tutte le Russie ad opera di Peter Carl Fabergé, alludono alla sospensione delle produzioni artistiche contemporanee tra la realtà politica da cui sono influenzate e il loro stato di beni di lusso.

 Archeologia, etimologicamente, vuol dire “discorso delle cose antiche”. Bisogna ricordare giorno per giorno, minuto per minuto, secondo per secondo; sotterrare e dissotterrare miti in accordo con quello che (ci) succede intorno; scombinare l’ordine cronologico del tempo, cambiare i confini alla geografia, i numeri alla matematica, per accorgersi che il futuro non esiste: è una performance. E non sono forse queste – le performance – dei continui riadattamenti della memoria?

Sulla differenza senza separabilità

Denise Ferreira Da Silva

(trad. di Beatrice Ferrara,  con il permesso dell’autrice,  di una verisone ridotta di On Difference Without Separability, pubblicato originariamente in inglese per il catalogo della 32esima Biennale d’arte di San Paolo ‘Incerteza Viva’. Nata in Brasile)


La risposta degli stati europei alla “crisi dei rifugiati”, che è il risultato delle più recenti guerre del Capitale Globale (cioè dei conflitti locali e regionali per il controllo delle risorse naturali), rende evidente con quanta efficacia la grammatica e il lessico razziali funzionino da descrittori etici. Se i cittadini non avessero dichiarato apertamente la loro paura di fronte alla nuova ondata di “stranieri” in arrivo, sarebbe stato più difficile per gli stati giustificare la costruzione di muri e la messa in atto di programmi di deportazione a contenimento delle centinaia di migliaia di persone che fuggono dai conflitti armati inMedio Oriente e in tutto il continente africano. Questo perché, all’interno di quel racconto che vuole l’“Altro” come pericoloso e immeritevole – il “Terrorista Musulmano” camuffato da rifugiato (siriano) e l’Africano “che muore di fame” camuffato da richiedente asilo – è proprio la differenza culturale a supportare certe dichiarazioni di insicurezza, che di fatto minano il diritto al riconoscimento della protezione che rientra nel quadro dei diritti umani e così facendo avallano il dispiegamento dell’apparato securitario europeo.

Dagli inizi del XX secolo, le articolazioni della differenza culturale nel testo moderno hanno aggiunto un significante scientifico sociale volto a limitare l’ampiezza della nozione etica di umanità. […] Un programma etico-politico che non voglia riprodurre la violenza del pensiero moderno dovrà ripensare la socialità ab extra del testo moderno. Questo perché solo la fine del mondo così come lo conosciamo, io credo, può annullare il processo tramite cui, attraverso le differenze culturali, alcuni collettivi umani sono prodotti in quanto “stranieri” ed “estranei” con attributi morali fissi e inconciliabili. A questo scopo, è necessario liberare il pensiero dalla morsa della certezza e abbracciare il potere dell’immaginazione di creare a partire da impressioni poco chiare e confuse, o incerte; quelle che Kant (1724-1804) riteneva fossero inferiori rispetto a quanto viene invece prodotto usando gli strumenti formali dell’Intelletto. Una concezione del mondo nutrita dall’immaginazione ci ispirerebbe a ripensare la socialità senza le fissità astratte prodotte dall’Intelletto e senza la parziale o totale violenza che queste autorizzano contro gli “Altri” culturali (non-bianchi/non-Europei) e fisici (più-che-umani).

Il pensiero del mondo

Sarah Waiswa ‘Elephant Grass

E se, invece del Mondo Ordinato, potessimo immaginare il ‘Mondo come un Plenum’, una composizione infinita in cui la singolarità di ogni esistente è contingente rispetto al suo stesso divenire una possibile espressione di tutti gli altri esistenti, con cui è in correlazione al di là dello spazio e del tempo? Da diversi decenni, ormai, gli esperimenti di fisica delle particelle portano a scoperte che stupiscono sia gli scienziati che la gente comune, suggerendo che le componenti fondamentali di tutto, di ogni cosa, siano proprio questo: il divenire attuale (nello spazio-tempo) del virtuale (le particelle subatomiche), che è anche una ricomposizione di ogni altra cosa. Da diversi decenni, ormai, i risultati controintuitivi degli esperimenti di fisica delle particelle hanno avallato descrizioni del Mondo con caratteristiche – l’indeterminazione e la non-località – che violano i parametri della certezza. Si tratta di esperimenti che, vorrei suggerire, ci invitano a immaginare il sociale senza le distinzioni mortali e i dispositivi (ri)ordinanti dell’Intelletto.

Qual è la posta in gioco? A cosa dovremo rinunciare per poter dar libero sfogo alla radicale capacità creativa dell’immaginazione, traendone il necessario per portare a termine il compito di pensare Il Mondo diversamente? Né più né meno che questo: un cambiamento radicale nella maniera in cui trattiamo la materia e la forma […]. Fin dall’epoca del consolidamento del programma kantiano, cioè fin dal post-Illuminismo, la fisica ha fornito dei modelli per lo studio scientifico delle condizioni umane […]. Sfortunatamente, però, tali modelli hanno avuto tanto riscontro proprio perché questi scritti sull’umano in quanto cosa sociale si basano sulle stesse prese di distanza dalla filosofia medioevale che avevano già supportato i filosofi moderni nel proporre le loro teorie della conoscenza attraverso la certezza, ovvero cause efficienti e dimostrazione matematica, le quali sono anche il fondamento del testo moderno. La grammatica razziale che si è attivata nelle reazioni al flusso di rifugiati verso l’Europa non è che una reiterazione del testo moderno. Non solo transborda in rivendicazioni di certezza; più ancora, le sue presunzioni di verità si sorreggono sugli stessi pilastri – separabilità, determinazione e sequenzialità – che i filosofi moderni avevano costruito per sostenere il loro programma di conoscenza.

Guardando da vicino la grammatica razziale, è possibile individuare due fasi distinte. La prima corrisponde alla fase di inquadramento iniziale delle scienze della vita da parte di George Cuvier (1769-1832): qui per la prima volta si presenta la Vita in quanto causa efficiente e causa finale delle cose viventi. Più tardi, nel XIX secolo, dopo la pubblicazione delle descrizioni di Darwin (1809-1882) della Natura vivente, all’interno delle quali la differenziazione emerge in quanto risultato di un principio razionale, una causa efficiente che opera nel tempo attraverso la forza, cioè la Selezione Naturale,

o come risultato di una lotta per l’esistenza, la scienza della vita avrebbe patrocinato un vero e proprio programma per la conoscenza dell’esistenza umana, ovvero l’antropologia del XIX secolo, cioè la scienza dell’uomo. In aggiunta ai tratti esterni, che venivano già usati nella mappatura della Natura in Storia Naturale, gli auto-proclamatisi scienziati delle scienze dell’uomo svilupparono anche i propri strumenti particolari; strumenti matematici come l’indice facciale per misurare i corpi umani, che divenne la base per la descrizione e classificazione degli attributi mentali umani, tanto morali quanto intellettuali, su una scala che si diceva servisse a registrare il grado di sviluppo culturale.

La seconda fase risale al XX secolo, quando, poco sorprendentemente, Franz Boas (1858-1942), un fisico convertitosi in antropologo, introduce un importante cambiamento nella conoscenza della condizione umana, asserendo che sono gli aspetti sociali, piuttosto che quelli biologici, i veri responsabili delle variazioni dei contenuti mentali (morali e intellettuali). Così facendo, egli mette insieme una nozione della differenza culturale che ha un aspetto sia temporale che spaziale. Secondo Boas […] sono le “forme” culturali e non quelle fisiche a spiegare le visibili differenze mentali (morali e intellettuali). La scuola di antropologia inaugurata sulla scia del lavoro di Boas, cioè l’antropologia culturale, segnava un significativo cambiamento metodologico, cioè una presa di distanza da una visione etnocentrica della differenza umana, che risuona fortemente con un altrettanto grande cambiamento verificatosi nel campo della fisica, ovvero l’introduzione del principio di relatività di Einstein. […]

Nella seconda metà del secolo, ovvero alla metà degli anni Settanta, ritroviamo la fisica delle particelle nel lavoro del filosofo francese Michel Foucault; lavoro che avrebbe aperto nuove strade al pensiero critico. Foucault, per esempio, traccia una distinzione tra un modus operandi tipico del potere giuridico-politico, che ricorda le leggi sul moto di Newton per quanto attiene agli eventi relativi ai corpi più grandi, e quella che lui chiama la ‘microfisica del potere’, che lavora principalmente attraverso il linguaggio (o discorso) e le istituzioni. In questa teoria, il sapere/potere è produttivo, ovvero produce i propri soggetti e i propri oggetti, e opera al livello del desiderio; cosa, questa, che ricorda molto gli esperimenti della meccanica quantistica, che hanno ispirato il principio d’indeterminazione di Heisenberg, i quali mostrano come sia l’apparato a determinare gli attributi delle particelle sotto osservazione.

Per secoli quindi, come mostrano questi esempi, gli sviluppi nella fisica moderna, nella relatività e nella meccanica quantistica sono stati cruciali nello sviluppo di approcci teorici e metodologici allo studio delle questioni economiche, giuridiche, etiche e politiche, che hanno al contempo prodotto e reiterato la differenza umana. Sfortunatamente, comunque, questi approcci non hanno fino ad ora ispirato a immaginare la differenza senza la separabilità, sia essa spazio-temporale, come nei collettivi culturali di Boas, o formale, come nel soggetto prodotto discorsivamente di cui parla Foucault. Anzi, prevedibilmente, questi approcci hanno ulteriormente rafforzato un’idea della cultura, e dei contenuti mentali cui essa si riferisce, in quanto espressioni di una fondamentale separazione fra i collettivi umani in termini di nazionalità, etnicità e identità sociale (di genere, sessuale, razziale).

Il mondo correlato

Berenice Abbott Magnetic Field, The Science Pictures, 1958-1961

Nelle recenti risposte europee alla “crisi dei rifugiati” si vede come la differenza culturale descriva un presente globale impantanato nella paura e nell’incertezza: l’identità etnica lo fa attraverso affermazioni che servono a definire l’“Altro” minaccioso, cioè quanti cercano asilo in Europa fuggendo dalle guerre nel Medio Oriente, dai disordini politici in Africa orientale e nel Nord Africa e dai conflitti innescati dalla lotta per lo sfruttamento delle risorse naturali in Africa occidentale. In Brasile, intanto, questo stesso processo si vede in atto nei tentativi di impeachment della Presidente Dilma Rousseff da parte di quanti scagliano attacchi morali contro chi ha recentemente visti riconosciuti i propri diritti sulla base della propria identità (di genere, sessuale, razziale e religiosa). In entrambi i casi, la differenza culturale è la base d’appoggio di un discorso morale basato sul principio della separabilità. Secondo questo principio, il sociale è un tutto costituito da parti formalmente separate. Ognuna di queste parti è una forma sociale e anche un insieme di unità storico-geografiche separate e, in quanto tale, ha un certo grado di differenza rispetto alla nozione etica di umanità, la quale è identificata con le caratteristiche particolari dei collettivi umani bianchi europei.

E se, invece del Mondo Ordinato, immaginassimo ogni esistente (umano e più-che-umano) non come una forma separata che si relaziona alle altre attraverso la mediazione delle forze, ma come un’espressione singolare sia di ogni altro esistente che del tutto correlato in cui esiste e che essa stessa è? Se, invece di guardare alla fisica quantistica alla ricerca di modelli concettuali per ulteriori analisi scientifiche o critiche del sociale, ci concentrassimo sulle sue scoperte più disturbanti, come per esempio la non-località (come principio epistemologico) e la virtualità (come descrittore ontologico), prendendole come descrittori poetici, ovvero come indicatori dell’impossibilità di comprendere l’esistenza attraverso strumenti concettuali che non possono far altro che riprodurre la separabilità, e i suoi complici, cioè determinazione e sequenzialità? […]

[I]l principio di non-località getta le basi per una forma di pensiero che non ricalchi le basi metodologiche e ontologiche del soggetto moderno, cioè linearità temporale e separazione spaziale. Violando questi inquadramenti dello spazio e del tempo, la non-località ci permette di immaginare la socialità in un modo che, pur tenendo conto della differenza, non presuppone la separabilità, la determinazione e la sequenzialità, i tre pilastri ontologici che sostengono il pensiero moderno. Nell’universo non-locale, né la dislocazione (il movimento nello spazio) né la relazione (la connessione fra cose spazialmente separate) possono descrivere ciò che accade, perchè le particelle correlate (cioè ogni singola particella esistente) esistono l’una con l’altra, senza spazio-tempo […]. Quello che la non-località rende evidente è che c’è una realtà più complessa in cui ogni cosa ha sia un’esistenza attuale (spazio-tempo) che un’esistenza virtuale (non-locale). Se è così, allora perché non concepire l’esistenza umana nello stesso modo? Perché non assumere che al di là delle loro condizioni fisiche di esistenza (corporee e geografiche), nelle loro costituenti fondamentali, a livello subatomico, gli umani esistano in correlazione con ogni altra cosa (animata e inanimata) nell’universo? Perché non concepire le differenze umane – quelle che gli antropologi e i sociologi del XIX e del XX secolo avevano selezionato come descrittori umani fondamentali – come effetti tanto delle condizioni spazio-temporali quanto di un programma di conoscenza modellato sulla fisica newtoniana (antropologia del XIX secolo) e einsteiniana (conoscenza sociale scientifica del XX secolo), in cui la separabilità è il principio ontologico privilegiato? Senza separabilità, la differenza fra i gruppi umani e fra le entità umane e quelle non-umane regge ben poco, sia in quanto principio descrittivo che sul piano etico. Questo perché, dice la non-località, al di là delle superfici su cui è iscritta la nozione dominante di differenza, tutto nell’universo coesiste nel modo in cui l’ha descritto Leibniz (1646-1716), ovvero come espressione singolare di ogni altra cosa che è nell’universo. Senza separabilità, la conoscenza e il pensiero non possono più essere ridotti alla determinazione, come era nella distinzione cartesiana tra corpo e mente (in cui è quest’ultima ad avere il potere di determinare) o nella riduzione formale kantiana della conoscenza a un tipo di causalità efficiente. Senza separabilità, la sequenzialità (il principio onto-epistemologico di Hegel) non può più rendere conto dei tanti, diversi modi esistenza degli umani nel mondo, perché l’auto-determinazione ha un’area di applicazione (spazio-tempo) ben ristretta. Quando è la non-località a guidarci nell’esercizio di immaginare l’universo, la differenza diviene non la manifestazione di un irrisolvibile (e)straniamento, ma l’espressione di una correlazione elementare. In altre parole, quando il sociale riflette il Mondo Correlato, la socialità non è né la causa né l’effetto delle relazioni che riguardano esistenti separati, ma l’incerta condizione all’interno della quale ogni cosa che esiste è un’espressione singolare di ogni altro esistente attuale-virtuale.


Postfazione

di Tiziana Terranova

Denise Ferreira Da Silva è filosofa, artista, poeta di origine brasiliana, al momento docente universitaria presso la University of British Columbia a Vancouver, Canada, dove dirige l’Institute of Gender, Race, Sexuality and Social Justice, e in precedenza anche docente presso la University of California, San Diego e il Queen Mary College, University of London. La sua ricerca include campi come gli studi critici sulla razza e l’etnicità, la teoria femminista, la teoria critica legale, la teoria politica, la filosofia morale,glo studi postcoloniali e studi latino-americani e caraibici. La sua monografia Toward a Global Idea of Race (University of Minnesota Press, 2007) è un fondamentale e innovativo lavoro filosofico sul ruolo di quella che definisce l’ ‘analitica della razza’ e il suo ‘arsenale’ nella costituzione del soggetto moderno e del ruolo della differenza razziale nella costituzione dello spazio globale.

Particolarmente importante per la ricerca della TRU ci appare il suo lavoro sulla cosiddetta ‘socio-logica della razza’, una critica della sociologia della spazializzazione della differenza culturale che è sussunta e anche riscritta dalle tecnologie di social networking e algoritmi di deep learning; e la sua elaborazione del rapporto tra concezioni del mondo e della materia elaborate dalla fisica e pensiero filosofico e sociologico delle relazioni razziali.

Il saggio qui tradotto con il pernesso dell’autrice elabora la nozione fondamentale della ‘differenza senza separabilità’ a partire dalla considerazione delle corrispondenze e differenze tra paradigmi della fisica (newtoniana, einsteniana, quantistica) e concezione della differenza culturale, aprendo al potere dell’immaginazione per una interpretazione poetico-politica del pensiero scientifico dei nostri modelli di socialità. La sua idea di ‘mondo correlato’ che riprende il pensiero leibniziano del mondo come plenum  e lo innesta poeticamente e immaginativamente con la fisica quantistica risuona con la tensione ella TRU a cercare una contaminazione critica e poetica tra studi postcoloniali e studi sulla tecnoscienza.

A Denise Ferreira Da Silva e al suo Toward a Global Idea of Race sarà dedicato un incontro organizzato dall Technoculture Research Unit e dal Centro Studi Postcoloniali e di Genere dell’Università di Napoli L’Orientale presso l’Istituto di Studi Filosofici di Napoli come parte della serie di incontri ‘Postcoloniale, queer e femminista: percorsi di lettura per una vita nonfascista’. Le date precise degli incontri verranno annunciate di questo blog.

#StopFundingHate: guerra (online) ai tabloid

Da circa un secolo il termine tabloid è associato al peggio della stampa in circolazione, nonostante la categoria britannica includa in realtà una varietà di orientamenti politici e sociali. Nell’era di Brexit, i tabloid sembrano però avere guadagnato nuova baldanza, soprattutto quelli che hanno deciso di sposare e incitare la linea xenofoba e anti-europeista. Il risultato è stato un aumento tangibile di prime pagine con titoli contro migranti e rifugiati in particolare su The Daily Mail, The Daily Express e The Sun.

Non è un caso quindi che da agosto 2016 esista una campagna in UK che tramite un sito, un account su Twitter e Facebook e alcuni video ben confezionati, punta il dito contro il linguaggio dei tabloid e i loro continui attacchi a migranti e rifugiati politici.

Per Richard Wilson, il fondatore di Stop Funding Hate, il punto di svolta è arrivato nel 2015, quando il consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani aveva invitato il Regno Unito a mettere un freno all’incitamento all’odio razziale a mezzo stampa dei tabloid. A richiamare l’attenzione del Consiglio era stato un articolo apparso su The Sun in cui i migranti in transito nel Mediterraneo venivano definiti scarafaggi.

Crimini d’odio in aumento e stampa in un tweet di SFH

Wilson vede un legame diretto tra l’aggressività anti-migranti dei tabloid e i crimini di discriminazione razziale che nel Regno Unito sono aumentati del 40% tra il 2015 e il 2016. “Ovunque tu vada, anche se non compri questi giornali, vedi comunque i loro titoli. Questo ha un impatto inevitabile sul modo in cui la gente pensa”, dice. Per quanto l’idea di un’influenza diretta sul ‘pensiero’ dei lettori azzeri cinquant’anni di studi sull’audience, la visibilità dei tabloid è certamente pervasiva nella loro capacità di influenzare altri media e di condizionare i limiti del dibattito politico, attraverso un processo che è stato descritto come tabloidization.

In un momento in cui le false notizie fanno ancora più notizia nelle catene di rimandi multimediali dalla stampa al digitale e viceversa, la battaglia di Stop Funding Hate contro i tabloid e i loro titoli velenosi ha raccolto finora 72.000 follower su Twitter e 230.000 su Facebook. Una campagna ambiziosa che dall’inizio guarda in alto, come dicono sul sito, per “cambiare i media una volta e per tutte”.

 “Hate is a business model”

Stop Funding Hate è forse il primo caso di una campagna generalizzata, non mirata a un giornale né a un tema specifico, con un approccio ‘educativo’ ma allo stesso tempo molto pragmatico, che punta alle tasche di un settore della stampa storicamente sordo a richiami ‘morali’. Dal novembre 2016 la campagna Sleeping Giant persegue una missione simile nell’America di Trump, anche se circoscritta per lo più all’ambito digitale, allontanando gli inserzionisti da siti come Breitbart News.

A differenza del boicottaggio classico, quello di Stop Funding Hate non vuole incidere quindi su chi acquista i tabloid, ma sugli inserzionisti che li finanziano con la loro pubblicità.  Il punto secondo SFH è che “hate is a business model”. Nonostante le inserzioni sulla carta stampata nel complesso continuino a perdere terreno rispetto a quelle online, il mercato della stampa nel Regno Unito e soprattutto quello dei tabloid rimane infatti molto redditizio.

Un business model che funziona in maniera piuttosto intuitiva: i titoli che danno addosso ai migranti fanno salire le vendite, e questo rende i giornali più desiderabili per gli inserzionisti. Il punto è, secondo SFH, che sebbene molti cittadini britannici non comprino i tabloid, la maggior parte di loro comunque si serve dei grandi marchi che fanno pubblicità sulle loro pagine, contribuendo quindi indirettamente ai profitti di questi giornali.

SFH cerca di fare leva sul profilo etico che molti di questi marchi si sforzano di mostrare su altri versanti, ergendosi a difensori contro le discriminazioni sul luogo di lavoro o promuovendo ‘valori sociali’. Eppure, quando si tratta di investire il budget pubblicitario, questi valori sono generalmente ignorati. È quanto hanno ribadito infatti dalla catena di grandi magazzini John Lewis: nonostante la “piena comprensione” degli argomenti i di SFH, non intendono entrare nel merito dei contenuti editoriali dei giornali dove piazzano le loro pubblicità.

Il post di un consumatore deluso dalla Lego seguito da migliaia di retweet.

Ma altri inserzionisti sembrano effettivamente sensibili al mantenimento della loro immagine, e perciò disposti a venire a compromessi. Il caso di maggiore successo è stato finora quello di Lego. A inizio novembre, poco prima del picco delle vendite prenatalizie, la compagnia danese ha ceduto alle pressioni di SFH, aggiuntesi all’appello inizialmente lanciato da un genitore su Facebook, e ha comunicato l’interruzione degli accordi commerciali con The Daily Mail. Prima e dopo Lego, anche la catena di ottica Specsever, The Body Shop e il provider di servizi internet Plusnet hanno interrotto le inserzioni su The Sun e The Daily Mail.

Il risultato più importante e indicativo per l’intero mercato pubblicitario britannico potrebbe però arrivare a maggio, quando la catena di supermercati (nonché’ banca ‘etica’ e impresa funebre) Co-op annuncerà la sua decisione a riguardo, dopo il la riunione annuale dei membri. Nei mesi precedenti, Co-op ha già mostrato di prendere almeno in considerazione le richieste pervenute via social media. Stop Funding Hate ha raccolto finora 7.700 firme e altre migliaia di visualizzazioni e condivisioni del video apposito. Se Co-op decidesse di assecondarne le richieste, concorrenti come Sainsbury’s potrebbero seguire l’esempio.

Tra economia morale elitista e populista

Gli oppositori accusano di la campagna di essere “elitista” e di promuovere la censura, riprendendo il noto ritornello della libertà di parola e di stampa come valore supremo. Ma come sottolineano i fondatori di SFH, in questo caso non si tratta di ostacolare o difendere una libertà individuale, quanto di contrastare “un modello di affari che ha un effetto negativo sulla vita delle persone”. Senza necessariamente tirare in ballo ogni volta, peraltro erroneamente, il povero Voltaire.

Eppure, la questione non è solo morale, poiché la campagna inevitabilmente comporta una serie di incentivi e disincentivi economici per gli inserzionisti che decidono di assecondarla. Il fatto che il sito di moda Thread si sia schierato con SFH, per esempio, si è subito trasformato in ottima pubblicità per lo stesso Thread tra gli utenti su Twitter e Facebook. Nel caso di Lego, analogamente, parecchi utenti hanno subito espresso apprezzamento per l’azienda mostrando i loro ultimi acquisti di mattoncini colorati. “L’incoraggiamento a ‘fare la cosa giusta’ per le compagnie deve funzionare in termini economici”, ha ammesso lo stesso Wilson.

L’odio come business model

Stop Funding Hate ha anche cominciato a raccogliere fondi per allargare il suo raggio di azione, per trasformarsi da “movimento” in “organizzazione”, superando in poco tempo le centomila sterline. L’obiettivo finale della campagna, precisa Wilson, non è però richiedere un qualche tipo di regolamento statale, o fare in modo che uno di questi tabloid sia ritirato dal mercato; basta limitarsi a non contribuire alla loro crescita e ai loro guadagni.

Social Network, tabloid e pubblici incrociati

Cosa ci dice questo sullo stato dei rapporti tra vecchi e nuovi media, e in particolare tra stampa e social networks? Da una parte che vecchi carrozzoni come i tabloid, nonostante il declino complessivo della carta stampata, sembrano ancora capaci di stabilire i termini del dibattito politico. Dall’altra, i social network possono dare forma a molteplici alternative in termini di discussione, informazione e contestazione; ma possono anche contribuire a legittimare, direttamente o indirettamente, il ruolo dei media mainstream. I nuovi media hanno sicuramente consolidato nell’ultima decade l’immagine di paladini della giustizia dei prosumers, soprattutto in seguito alle contestazioni globali del 2011-2014. Ma in tempi di tensioni politiche e sociali come il post-Brexit, in cui l’establishment mediatico tende a ricompattarsi sul versante conservatore, rischiano di giocare soprattutto di rimando o in difesa.

Intanto i pubblici nazionali mantengono o esasperano le divisioni interne. Giornali “di qualità” come The Independent e soprattutto The Guardian hanno una tiratura notevolmente più bassa, ma anche un numero decisamente più alto di seguaci su Twitter e Facebook rispetto ai principali tabloid. Nel complesso quindi gli utenti dei social media in UK hanno meno probabilità di essere lettori dei tabloid presi di mira da Stop Funding Hate. I due rimangono quindi gruppi poco comunicanti. A prescindere da quanti firmino la petizione o condividano i video di SFH, il pubblico dei tabloid rimane comunque ben solido, e troppo allettante per molte compagnie in termini di pubblicità.

Di sicuro, il fatto che una parte dei lettori di giornali si sia già spostata online, sta mandando lentamente ma progressivamente in crisi la pubblicità su carta stampata, che cerca di resistere con strategie più o meno discutibili. Quello che SFH ha reso chiaro però è che per molti non è più accettabile che gli inserzionisti pretendano di non curarsi dei contenuti dei giornali in cui fanno pubblicità. Se i grandi marchi dovessero cominciare uno dopo l’atro a ritirare le inserzioni, i tabloid saranno costretti per lo meno temporaneamente cambiare strategie e bersagli.

Pratiche curatoriali e postcolonialità: EX NUNC, l’esperienza diasporica e il web.

Guardare le pratiche curatoriali più recenti significa dare ragione a chi, da una prospettiva ‘culturalista’, a partire almeno dagli anni Novanta del secolo scorso credeva che la curatela stessa, come specchio del mondo, non può essere letta separatamente dagli sviluppi tecnologici. Affermazione che chiama in causa lo specifico della cura dell’arte quanto il problematico ‘tema’ della rappresentazione.
Come si legge nell’introduzione al volume intitolato Curating Immateriality (non più così recente ma per diversi aspetti ancora molto valido), dalla nascita di internet, col passaggio da un modello di rete “centralizzata” a un modello di rete “distribuita”, anche l’ambito della produzione curatoriale, insieme a molti altri, si è decisamente esteso e trasformato; e il focus stesso della curatela si è spostato dall’oggetto verso i processi e le dinamiche dei network systems (Krysa 2006, 7-25). A partire da questa riflessione, e attraverso teorie e studi provenienti da più parti e ambiti, nel volume si osserva il ruolo del curatore (e le strutture del controllo curatoriale) in relazione alle attuali formazioni socio-politiche e tecnologiche. Si guarda, cioè, al modo in cui i network systems hanno cambiato e stanno continuando a trasformare la curatela, e si afferma che questa stessa attività, collocata nel contesto della immaterialità, non va intesa solo come pratica creativa e critica, ma anche e soprattutto come pratica politica. È proprio in questa direzione che le pratiche curatoriali online, dal mio punto di vista, diventano particolarmente interessanti; cioè quando le potenzialità linguistiche e formali messe a disposizione dalla rete vengono ‘agite’ in qualità di “interruzioni” (per usare un termine caro a Stuart Hall) capaci di contestare o contraddire le nuove forme di assoggettamento/controllo che la rete stessa è capace di produrre quotidianamente.

Su questi argomenti, di recente, mi è capitato di confrontarmi con Chiara Cartuccia, co-ideatrice e co-curatrice, insieme a Celeste Ricci, di EX NUNC, un progetto curatoriale pensato proprio per la piattaforma web (www.ex-nunc.org), nato nel 2014 e presentato in Italia lo scorso 5 novembre, all’interno del programma di NESXT (Torino). Di seguito riporto alcune delle osservazioni sui modi di agire della piattaforma che sono nate nel corso della nostra conversazione: concepite come appunti di una ricerca in progress, aperta, reciproca e finalizzata a una ‘verifica’ costante, più che alla formulazione di giudizi definitivi.


Chi, che cosa, come.

Per darne una descrizione sintetica, EX NUNC si pone come un tentativo di mappare, analizzare e interrogare le pratiche performative e la performatività, e opera nella doppia dimensione online/offline attraverso tre sezioni: Atlas, Journal e Curatorial. Quest’ultima, in particolare, fa della piattaforma digitale lo spazio privilegiato per l’esposizione e fruizione, dell’arte, proponendo un calendario di mostre dedicate a una tematica annuale (per il ciclo in corso, fatto di tre capitoli, il tema è Movement/History). Il programma si costruisce tramite invito diretto agli artisti, chiamati a confrontarsi con il focus tematico nonché con le necessità espositive dello spazio virtuale. Detto con le parole delle sue autrici, Curatorial è “un’area che noi leggiamo e interpretiamo come un vero e proprio project space, un luogo in cui presentare progetti curatoriali modellati per l’allestimento e la fruizione online. Finora abbiamo presentato solo lavori preesistenti, adattati al sito tramite un attento lavoro di collaborazione con gli artisti.” Nel caso della mostra M/H II Home, ad esempio, i disegni di Phoebe Boswell, originariamente concepiti come una striscia multimediale continua e lunga sette metri (“Tramlines” è il titolo dell’opera, realizzata nel corso di una residenza a Gothenburg, Svezia), diventano uno sfondo da scrollare verso il basso. In questa discesa si incontra la multimedialità (il tratto del disegno, a un certo punto, incornicia un’opera video che ha un suo sonoro), e i livelli della narrazione si sovrappongono, trasformano i modi della visione e influiscono sui tempi della percezione. Se pensiamo alle influenze reciproche tra ‘sistema-rete’ e utenza, il modo in cui le produzioni artistiche si ri-modellano e ri-formulano per rispondere alle esigenze della piattaforma digitale, da una parte, e a quelle della sua utenza, dall’altra (tempi, linguaggi, ecc) può essere certamente indicativo e significativo.

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Phoebe Boswell, Tramlines – screenshot dal sito EX NUNC

Ancora secondo le curatrici, “anche se è già molto interessante vedere come un lavoro ideato per altri contesti possa trovare una nuova forma sul web, nel futuro, condizioni economiche permettendo, ci piacerebbe avere delle opere concepite esclusivamente per la piattaforma, pensate avendo in mente, quindi, i linguaggi della rete e il suo pubblico. Pensiamo che lavorare con delle produzioni originali ci permetterà di capire meglio e più a fondo i limiti e le possibilità dello spazio online. Ogni intervento in Curatorial ci permette di capire meglio in che direzione ci siamo muovendo, quali sono i nostri strumenti, cosa dobbiamo affinare o evitare.”

In questo senso, dunque, Curatorial si assume l’impegno di utilizzare la tecnologia web per riflettere sui processi formali che stanno alla base delle metodologie adottate, mentre le si sta elaborando. “Siamo curiose di vedere cosa ci riserverà il futuro, soprattutto considerando la presentazione online di opere performance-based. Nel caso della performance il rischio più grande è presentare del materiale che abbia perso la sua natura temporale, presente, attiva, per ridursi a mera documentazione, materiale d’archivio, che deve essere necessariamente ri-attivato, perché soltanto un’ eco dell’evento che racconta. Penso che le possibilità d’uso del web per la produzione di opere d’arte siano infinite, i modi e strumenti in costante mutamento, e molti ancora da essere creati. Quello che posso dire è che per funzionare online un’opera originalmente modellata sul web deve saper conquistare le coordinate spazio-temporali caotiche, anacronistiche e vertiginose che questo non-medium consente. Quali saranno i risultati? Impossibile per me da dire, ma sicuramente li aspetto con ansia.”

 

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Curatorial, dunque, “è un assoluto work-in- progress, e siamo solo all’inizio.” Un inizio fatto di dubbi, più che di certezze, confessa Chiara Cartuccia. Un inizio rispetto al quale mi sembra importante interrogarsi sui rischi di subire/operare nuove forme di potere e controllo. Ancora dal punto di vista del duo curatoriale, “chi usa piattaforme online per la creazione e diffusione di materiale spesso vive nella gioiosa illusione d’essere totalmente accessibile, pienamente democratico e (potenzialmente) libero. In realtà lo spazio della rete è estremamente complesso e contraddittorio. L’illusione d’immediatezza porta a pensare che non ci siano barriere tra un contenuto internet e la percezione dell’utente, in verità la situazione è molto più complessa. Partendo dalla condizione in cui ci troviamo, da europei ben educati, che lavorano nell’arte e nell’accademia, diamo per scontate molte cose, dall’effettiva possibilità materiale di visitare un sito internet (ignorando molteplici fattori: disponibilità di connessione, mancanza di restrizioni censorie etc.) fino all’abilità dell’utente di comprendere le dinamiche della navigazione e la capacità d’analizzare criticamente un contenuto proposto. Parlando del nostro lavoro curatoriale online, trattandosi di un progetto artistico, abbiamo la fortuna di poter fruire del filtro mediatore delle opere stesse. Ogni nuova idea curatoriale per il sito ci permette di avviare una conversazione con gli artisti e i loro lavori, spesso capace di mettere in luce gli elementi problematici che l’abitudine rende invisibili. Il lavoro sul sito è una costante scoperta.”


Teorie nelle pratiche

Un ulteriore elemento di interesse, in relazione all’approccio della TRU, lo trovo nel focus tematico proposto quest’anno (Historical Body, da cui derivano i tre interventi curatoriali di Movement/History) attorno e attraverso il quale emergono molti dei topics riferiti alla “postcolonialità” come condizione attuale; penso alla migrazione, alla diaspora, al colonialismo e alla sua violenza ‘epistemica’, per citare Gayatri C. Spivak, ma anche all’archivio. Il ventaglio di problematiche che questi temi suggeriscono mi ricorda, ancora una volta, che anche nella dimensione ‘virtuale’ la rappresentazione audio-visiva gioca un ruolo di importanza cruciale, e prospetta nuovi scenari in cui la “performatività” riguarda innanzitutto gli immaginari (i significati, le narrazioni). Vorrei, allora, richiamare l’attenzione sulle potenzialità della rete di andare (di farci andare) oltre i regimi ‘normativi’ della rappresentazione, classificazione, catalogazione, selezione, ecc.
“Volevamo iniziare il cammino di EX NUNC analizzando l’elemento fondamentale per ogni pratica artistica basata sul gesto e l’azione: il tempo. E questo tempo, antilineare e antigerarchico, è, per noi, sempre esaurito e totalmente compreso in un istante che racchiude e illumina tutte le possibili temporalità. Un momento cosciente e attivo, quello agito, che parla di storia e storie, e funziona da cassa di risonanza anche (e tanto più) per quelle voci ammutolite del passato.
Postcolonial non è uno stato, una condizione ferma e definitiva, ma un processo ancora lontano dal compiersi. Identifichiamo come postcoloniale non un periodo storico, quello successivo la fine dei principali domini coloniali delle potenze europee in Africa e Asia, ad esempio, perché il regime di colonialità non ha avuto termine nell’interrompersi di certe dinamiche geo-politiche e militari. Si possono forse definire postcolonial tutte quelle riflessioni critiche e politicamente attive che hanno come obiettivo ultimo il realizzarsi di una piena decolonizzazione, quale liberazione da principi di dominazione, tanto economici/politici/sociali quanto culturali. In questo senso il nostro interesse per il postcoloniale trova le sue radici nell’attrazione per il negativo e il negato: narrative, immagini e voci che la storia occidentale, univoca e violentemente dominante, ha offuscato, ridotto e cancellato.”


Perché?: biografie della rete.

“Abbiamo scelto di lavorare anche nel virtuale perché volevamo essere nomadiche e instabili, ma conservavamo comunque il desiderio d’avere uno spazio tutto nostro cui fare ritorno. Fin dall’inizio, abbiamo sempre pensato di non volerci legare particolarmente alla città in cui ci troviamo ad abitare la maggior parte del tempo, Londra. Un po’ per la nostra naturale personale instabilità geografica, essendo tutte e due legate a diverse città e paesi, un po’ perché non riteniamo strettamente necessario né utile investire gran parte del nostro tempo nel tentativo di mantenere uno spazio fisico, in una città come questa. E non solo per ragioni economiche, ma soprattutto concettuali. Volevamo, appunto, essere potenzialmente ovunque e da nessuna parte allo stesso tempo; vorremmo parlare a un pubblico molto più differenziato e mutabile di quello che una singola città europea possa offrire, o contenere.
Si, penso che la nostra esperienza di vita all’estero abbia indirizzato un po’ questo nostro interesse. In particolare vivere nella curiosa condizione di privilegio che la mobilità europea ci ha, fino ad ora almeno, garantito, e trovarsi a confronto con altri tipi di migrazioni (quelle che si possono definire “propriamente dette”) porta a domandarsi dove risiedano i nodi cruciali di certe differenziazioni. Inoltre penso anche che la nostra distanza dall’Italia, per diversi anni ormai, ci abbia reso forse più consapevoli delle nostre radici mediterranee, e abbia quindi rafforzato la nostra connessione (non solo intellettuale e culturale, ma anche romantica) con tutte le realtà che quel nostro mare lontano bagna, incontra e spesso respinge.”

The Sound of Culture. Razza e tecnologia attraverso il banco mixer

In ingegneria informatica l’espressione master/slave indica il protocollo di comunicazione in cui una macchina o un processo principale controlla una o piu’ macchine o processi subordinati. La medesima terminologia può essere applicata anche a sistemi tecnologici pre-informatici, quali un sistema video centralizzato, una rete di orologi o un impianto idraulico, purché basati sul medesimo rapporto di subordinazione. Nonostante sia recentemente stata messa in discussione negli Stati Uniti in quanto “eticamente inaccettabile”,i la definizione sopravvive ancora oggi nel linguaggio colloquiale della programmazione. Stranamente non vi e’ alcuna traccia di un uso del termine in questa accezione prima della fine della seconda guerra mondiale. Non e’ dunque una sgradevole eredita’ linguistica di un altro tempo a trovare spazio nel lessico tecnologico contemporaneo. C’e’ forse una ragione piu’ profonda che puo’ spiegare questa curiosa incongruenza?

Copertina del libro con un opera di David Huffman
La copertina del libro con un’opera di David Huffman

Edito quest’anno dalla Wesleyan University Press, The Sound of Culture. Diaspora and Black Technopoetics indaga in profondita’ la relazione che tiene insieme corpo nero, schiavitu’ ed il nostro modo di concepire la tecnologia. Passando in rassegna una notevole quantita’ di fonti eterogenee che vanno dalla letteratura proto-sci-fi vittoriana al jazz, dai blackface minstrel show al cyberpunk, Louis Chude-Sokei disegna un originale percorso critico che mette al centro il modo in cui la modernita’ occidentale ha dato senso al concetto di macchina, ritrovandone le tracce nell’interdipendenza tra i due processi fondanti dell’era moderna: industrializzazione e schiavitu’. Se il passaggio dal capitalismo mercantile a quello industriale puo’ essere assunto come il primo passo verso la progressiva tecnologizzazione della modernita’, anche il nostro rapporto con la tecnologia dovra’ necessariamente essere messo a confronto con il retaggio culturale della schiavitu’. E’ questa infatti l’istituzione che piu’ di ogni altra ha sostenuto la rivoluzione industriale, garantendo ad essa quelle fondamenta socio-economiche senza le quali la stessa risulterebbe semplicemente impensabile. Secondo l’autore, la costruzione del concetto di razza e la concezione del rapporto tra l’uomo e la tecnologia vanno intese come due storie che corrono parallele sotto la superficie della modernita’, talvolta producendo veri e propri punti di contatto che emergono in forma di letteratura, musica o cinema, o affiorano in determinati avvenimenti storici. Razza e tecnologia sarebbero dunque due concetti speculari; l’uno si riflette nell’altro attraverso lo specchio deformante dell’ansia.

Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935
Esibizione di Joice Heth a Bridgeport, Connecticut 1935

Numerosi case studies sostengono la riflessione e donano concretezza ad un impianto critico complesso ed affascinante. Il libro si apre con la storia di Joice Heth, anziana schiava afro-americana messa in mostra tra il 1835 ed il 1836 da P. T. Barnum, impresario e fondatore dell’omonimo circo. Inizialmente reclamizzata con discreto successo come la ultracentenaria nutrice di George Washington, la sua fama crebbe ulteriormente quando il pubblico fu indotto a credere che l’ormai semiparalizzata donna non fosse un essere umano bensi’ un sofisticato trucco tecnologico. Se la storia di Joice Heth puo’ essere gia’ nota a chi ha familiarita’ con l’orrore degli zoo e dei circhi umani,ii l’autore ne arricchisce l’analisi con una prospettiva inedita, intrecciandola con la vicenda del “Turco”, presunto automata giocatore di scacchi costruito nel 1769 da Wolfgang von Kempelen per intrattenere Maria Teresa d’Austria. L’esibizione in contemporanea delle due “meraviglie”, avvenuta fortuitamente nel dicembre del 1835 a Boston, fornisce l’input per intrecciare criticamente la storia di un essere umano ritenuto erroneamente una macchina con quella di una macchina erroneamente elevata al rango di creatura pensante, rendendo cosi’ tangibile il legame tra tecnologia e schiavitu’ che sottende tutta la riflessione. L’implicita razializzazione della tecnologia e’ pertanto il leitmotiv che attraversa l’intero libro. D’altronde lo stesso termine “robot”, coniato nel 1923 dal drammaturgo Karel Capek, e’ un adattamento dal ceco “robota” il cui significato oscilla tra “corvèe”, “servitu’” e “schiavo”.

Se questo e’ l’assunto di partenza, grazie all’abbondanza di riferimenti il libro offre molteplici percorsi di lettura potenzialmente indipendenti. Ad esempio, nel sondare i limiti dell’umano in quanto messi in discussione dall’incerto status attribuito allo schiavo nero (uomo, animale o pura forza lavoro – e dunque macchina?) la riflessione entra necessariamente in dialogo con il postumanesimo. Espanso nella sua dimensione razziale e riletto attraverso la lente fornite dal pensiero caraibico della creolite’ e del metissage, il cyborg di Donna Haraway trova cosi’ un antecedente ideale nel concetto di synthesis-genesis di Edouard Glissant e soprattutto nel pensiero di Sylvia Winter. La riflessione su un “pre-postumanesimo” di matrice caraibica sembra inoltre assumere una valenza quasi programmatica nell’intento di riportare al centro del dibattito critico lo specifico contributo proveniente da una regione del mondo postcoloniale che ha fatto della sintesi delle opposizioni un modus vivendi prima ancora che un modus pensandi, ed ha visto in tempi recenti la specificita’ della propria condizione esistenziale divenire un paradigma utilizzato a piacimento nell’accademia occidentale.

E’ lecito a questo punto domandarsi quale sia il sound a cui il titolo si riferisce. La domanda e’ ancor piu’ legittima per quanti conoscono Chude-Sokei come l’autore, a partire dagli anni novanta, di un pugno di seminali articoli aventi come oggetto la cultura sound system ed il dub giamaicano.iii Questi articoli, che come egli stesso ha ricordato suscitarono all’epoca una accoglienza decisamente fredda nel mondo accademico,iv costituiscono invece oggi un riferimento fondamentale per quanti si accostano all’analisi di questi fenomeni culturali. Ma per quanto i riferimenti musicali non manchino, questo non e’ un libro sulla musica ne’ tantomeno sul suono. Almeno non nella sua dimensione fenomenologica. Come lo stesso autore si preoccupa di spiegare nell’introduzione, il sound del titolo va piuttosto inteso nel peculiare senso attribuito al termine in Giamaica, significato che egli stesso aveva gia’ evidenziato in uno scritto del 1997:

“In Jamaican English a “sound” means many things simultaneously. In addition to the basic definition of the word it means also a song, a style of music or a sound system. It is in the final definition that all the different meanings find dynamic peace (…) Sound in Jamaica means process, community, strategy and product. It functions as an aesthetic space (…) an imagined community (…) which operates not by the technologies of literacy but through the cultural economy of sound and its technological apparatus…”v

Copertina dell'album di Scientist, Giamaica 1982
Copertina dell’album di Scientist, Giamaica 1982

Va dunque inteso come una ecologia, l’ambito di produzione di una sfera pubblica all’interno della quale la sintesi creativa di corpi neri e tecnologia diviene possibile in modi inediti ed imprevedibili. Ecco che il dub giamaicano torna qui prepotentemente quale locus sonoro privilegiato dove questo post-umanesimo caraibico si concretizza. Il risultato e’ un’audio-fantascienza tutta analogica che produce una temporalita’ out of sync, una sorta di futuro antico ben rappresentato nelle copertine dei dischi, e dove il confine tra magia nera e scienza (anch’essa nera) del suono si fa fluido e permeabile.

Appare chiaro come un silenzioso dialogo con l’Afrofuturismo sia un’altro dei percorsi di lettura che attraversano il libro nella sua interezza. Pur condividendone buona parte degli interessi di ricerca nei tipici temi della musica nera, della fantascienza e della tecnologia, Chude-Sokei ci tiene a rimarcare la sua indipendenza rispetto ad ogni etichetta. All’Afrofuturismo sembra rimproverare di essersi cristallizzato in una sorta di canone decisamente localizzato su un asse nord-Atlantico, supportando in tal modo una concezione eccessivamente stabile ed omogeneizzante della identita’ nerasostenuta dall’analisi di una produzione culturale prettamente anglo-americana. L’insistenza sul dub giamaicano quale riferimento privilegiato tra tutti i territori sonori possibili va cosi’ a replicare la funzione che l’accento sul pensiero della creolite svolge sul piano dei riferimenti critici: il tentativo di spostare il baricentro dell’analisi da una prospettiva occidento-centrica per includere (alcune del-) le diverse e spesso irriducibili sfumature della blackness. Dopotutto, mano a mano che l’industria musicale ne coopta le innovazioni per rivenderle sul mercato globale, il cuore pulsante della sperimentazione musicale e tecnologica di matrice afro si sposta sempre piu’ ai margini dell’occidente. Ed i suoni del global ghettotech, che Steve Goodman ha provato a mappare con la potente immagine di un planet of drums, ci rimandano ad una cartografia in cui Johannesburg, Dakar e Kingston hanno la stessa importanza di Londra o Detroit.vi

King Tubby, the dub originator
King Tubby, the dub originator

Ma a discapito della sua presenza esplicita in qualche decina di pagine, l’influenza del dub appare rilevante nella struttura stessa del lavoro. Se consideriamo dub come verbo anziche’ nome, processo piuttosto che oggetto, l’intera riflessione di Chude-Sokei diviene una riuscita forma di dubbing critico. Alternando costantemente concetti e riferimenti durante tutto il corso dell’opera, l’autore assume il ruolo di un concept engineer, che riesce a fare emergere nuovi spazi di discussione dalla giustapposizione di storie e prospettive che, seppur distanti tra loro, concorrono a vario titolo alla costruzione di quella formazione culturale che siamo soliti definire modernita’. Herman Melville e William Gibson, Gilles Deleuze e Aime’ Cvodoo haitiano e cibernetica sono solo alcuni degli elementi che vanno aggiunti a quelli gia’ citati per ricomporre almeno parzialmente il quadro di un’opera complessa e stimolante. Sebbene possa risultare difficile per il lettore condividere la medesima familiarita’ che l’autore dimostra di avere nei confronti di questa pluralita’ di storie ed approcci, grazie alla sapiente alternanza degli stessi e ad un impianto critico ben articolato la lettura riesce sempre a trovare sempre una via attraverso uno dei molteplici percorsi possibili. In altre parole, il mix suona solido ed invita la mente alla danza. Per chi invece era in attesa di un libro che raccogliesse piu’ direttamente le fila del pluridecennale lavoro dell’autore sulla musica giamaicana e le sue derivazioni, niente paura; un volume che raccoglie tutti gli articoli gia’ editi ed alcuni nuovi scritti sull’argomento e’ in via di pubblicazione.


Note

[i]Nel 2003, a seguito ad un complaint formale da parte di un lavoratore anonimo, la Contea di Los Angeles ha inoltrato richiesta ufficiale ai propri costruttori, assemblatori e fornitori di materiale tecnologico per la sostituzione della terminologia master/slave all’interno dei protocolli. L’anno successivo il termine e’ stato eletto “most politically incorrect term” dal Global Language Monitor. Attualmente il termine e’ stato sostituito daprimary/replica ma sopravvive nel linguaggio colloquiale della programmazione.

[ii] Sugli zoo umani si veda: Lamaire, S. et al. 2002. Zoo umani, Dalla Venere ottentotta ai reality show. Verona: Ombre Corte.

[iii] Chude-Sokei, L. 1994. “Post-Nationalist Geographies: Rasta, Reggae and Reiventing Africa” in African Arts 27 (4); Chude-Sokei, L. 1997a. “Dr. Satan’s Echo Chamber: Reggae, Technology and the Diaspora Process.” Bob Marley Lecture, Reggae Studies Unit, Institute of Caribbean Studies, University of the West Indies, Mona; Chude-Sokei, L. 1997b. “The Sound of Culture. Dread Discourse and the Jamaican Sound Systems.” In Language, Rhythm and Sound: Black Popular Cultures in the Twenty-First Century, edited by Joseph K. Adjaye and Adrianne R. Andrews, 185-202. Pittsburgh: University of Pittsburg Press.

[iv] “When I first started writing about sound systems nobody knew what the hell I was on about. Even in Jamaica I was booed and attacked because it wasn’t a “serious” topic for a scholar…” (Louis Chide-Sokei facebook profile, consultato il 31 ottobre 2016)

[v] Chude-Sokei, L. 1997a. Op. Cit.

[vi] Goodman, S. 2012. Sonic Warfare. Sound, Affect and the Ecology of Fear (Technologies of Lived Abstraction). Cambridge-London: The MIT Press. pp. 172-175.

Da Standing Rock alla Palestina: Facebook tra la solidarietà e la sorveglianza

Risultati immagini per standing rock palestine facebook
Artwork in solidarity with Standing Rock and the water protectors. (Leila Abdelrazaq)

“Arrived safely. PM me for your concerns. We’re gonna beat back the Feds! Solidarity always.”

We stand with Standing Rock. A queste parole si è accompagnato più o meno l’ondata virale di post e check-in su Facebook dei giorni scorsi. Pare che oltre un milione di persone abbiano infatti scelto di geo-localizzarsi pubblicamente nei pressi della riserva indiana di Standing Rock, nel North Dakota, Stati Uniti d’America. A scatenare la reazione globale è stato un post, la cui origine sembra essere difficile da decifrare ma che è transitato attraverso i canali Facebook della Standing Rock Indian Reserve, la comunità resistente Sioux che si oppone alla costruzione sul suo territorio dell’oleodotto (Dakota Access Pipeline). Nel post si faceva riferimento al fatto che le autorità e lo sceriffo della contea stavano utilizzando lo strumento check-in di Facebook, grazie al quale è possibile registrarsi ed essere registrati in qualsiasi posizione geografica, per monitorare, individuare e localizzare gli attivisti, in centinaia già arrestati durante gli scontri con la polizia. Perciò i “Water Protectors” hanno richiamato la comunità transnazionale di solidali, chiedendo di registrarsi lì e condividere pubblicamente la localizzazione, così da ingarbugliare il sistema e confondere le autorità di polizia, un’azione quindi concretamente utile a proteggere tutti coloro impegnati fisicamente in prima linea nella difesa del territorio e delle risorse.

Se e quanto un’operazione di questo tipo possa essere effettivamente utile all’obiettivo dichiarato sembrerebbe difficile da definire, ma potrebbe non essere in realtà l’aspetto più significativo di questo discorso; sarebbe più importante ragionare sui due aspetti intrecciati della questione, ovvero l’uso di Facebook come strumento di controllo, sorveglianza e indagine da parte delle autorità di polizia, dall’altro la possibilità – forse – di poter ricorrere allo stesso strumento in maniera sabotante per innescare meccanismi di solidarietà, più che di resistenza. È chiaro che gli attivisti in North Dakota sono per lo più preoccupati dal monitoraggio diretto che da quello virtuale, così come è chiaro che, se veramente Facebook è adoperato a questo scopo, non sarà difficile distinguere le localizzazioni reali e magari non pubblicizzate, da quelle da remoto di questi giorni. Tuttavia, nonostante lo sceriffo della contea di Morton abbia pubblicamente negato questa pratica di controllo digitale, l’utilizzo dei social media come strumento di intelligence non è certo una novità, e l’abbiamo visto negli Stati Uniti anche nei confronti degli attivisti del movimento Black Lives Matter.

“From Palestine to Standing Rock” banner (Photo: Haithem El-Zabri with creative help from PYM) Fonte: mondoweiss.net

L’esperienza di Standing Rock ci dà modo di ripensare in qualche modo quella dei Territori Occupati Palestinesi. Che i due territori e le due comunità siano legate a doppio filo dalla necessità di fronteggiare l’avidità di un potere che si manifesta nelle forme di un colonialismo di insediamento (settler colonialism) sempre in fase espansiva, simbolicamente rappresentato dallo strumento del Caterpillar, di cui ha parlato Léopold Lambert sul suo blog The Funambulist; e che non a caso la comunità palestinese abbia in questi giorni lanciato un appello di solidarietà con le comunità indigene in lotta, è una delle parti più interessanti di questa storia, e che di certo andrà approfondita altrove. Un legame che fa da esemplare cornice a come un potere di matrice coloniale usi anche la sfera digitale per incidere, affermarsi e invadere lo spazio, coniugando la finalità di appropriazione con la necessità di dominazione e sorveglianza.

Sappiamo forse poco di Standing Rock, sappiamo però di BLM, così come sappiamo che non è una pratica desueta quella dei servizi di intelligence israeliani di usare Facebook non solo per monitorare il dibattito interno palestinese, ma anche per riuscire ad ottenere delle informazioni. Nell’ottobre dello scorso anno, nel pieno delle manifestazioni e degli scontri tra giovani palestinesi e militari israeliani, si diffuse la notizia che Israele si stava servendo di finti account palestinesi (creati ad hoc e raffiguranti bandiere palestinesi come immagini di copertina, con testi scritti in arabo e numeri di telefono locali) per riuscire a scoprire i nomi e i numeri di telefono di coloro che prendevano parte agli scontri con le forze israeliane in Cisgiordania. Questa forma di intromissione porta ad un livello superiore quello che è ormai una strategia solida, quella per cui pagine e profili personali di personaggi in vista vengono chiuse per violazione delle regole di Facebook (segnalate dagli stessi account fake che sono stati creati), o che ha portato in giudizio palestinesi accusati di aver fomentato la violenza con i loro post su Facebook, adducendo come prove l’attività degli stessi sui social network. È evidente quanto per un governo ossessionato dalla paranoia e dalla sorveglianza, e quindi caratterizzato da un fortissimo investimento tecnologico e un grosso expertise nel settore della cybersecurity, ma soprattutto con il totale controllo delle infrastrutture di telecomunicazione su tutto il territorio (Gaza e Cisgiordania comprese, nonostante il servizio sia poi appaltato a società palestinesi – la situazione è descritta in maniera interessante nei lavori delle studiose Helga Tawil-Souri e Myriam Aouragh), il crescente utilizzo di Facebook anche da parte della comunità palestinese non ha fornito che il pretesto per l’introduzione di nuovi metodi e nuovi terreni dove esercitare il proprio controllo. Le agenzie di sicurezza israeliane considerano Facebook una sorta di “open source information”, dove recuperare informazioni senza dover essere a rischio sul campo, e pare che solo poche settimane fa il Ministro della Giustizia israeliano abbia incontrato i vertici dell’azienda di Facebook per coinvolgerli in una task force contro i contenuti che incitano alla violenza contro Israele. Dietro la superficie pacificata di un accordo in risposta ad hate speech ed istigazione della violenza, c’è dunque il malcelato tentativo di assumere una posizione asimmetrica e di esercizio repressivo in quello che è diventato in qualche modo l’ennesimo fronte, stavolta virtuale, di questo conflitto, e per tentare di arginare tra l’altro l’espansione della campagna BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), che proprio anche grazie alla rete di Internet si alimenta.

Illustrazione di Carlos Latuff (2016)

Certamente, quest’ultimo evento solleva anche un punto importante sul ruolo, le collaborazioni e le responsabilità di un’azienda proprietaria e tendente al monopolio come quella di Facebook, generando ulteriori interrogativi su cosa succede quando ad essere merce di scambio o di vendita non sono solo i big data. Nel caso palestinese però, è bene notare che Facebook non emerge che come la punta dell’iceberg di una pratica di controllo ben più stratificata, che passa come si accennava per la digital occupation, e cioè il controllo delle infrastrutture di telecomunicazioni, e si insinua anche attraverso quello che Adi Kuntsman e Rebecca Stein hanno chiamato digital militarism, quel processo per cui la cultura militarizzata della società israeliana penetra le politiche del quotidiano attraverso i social media, contribuendo tra l’altro a sedimentare una percezione derealizzata dei palestinesi, da parte militare e civile.

La situazione palestinese nella sua complessità, e quella di Standing Rock nella sua piccola ma simbolica esperienza di controllo digitale, devono quindi indurre a ragionare anche su scale un po’ più ampie, senza dover necessariamente però ricadere nell’idea che ogni tentativo di porre resistenza o seminare solidarietà debba risultare inquestionabilmente indebolito o vanificato. Se Facebook può agire come un motore di accelerazione, non costa nulla pensare che questo possa succedere a Standing Rock grazie ora ad una maggiore attenzione della comunità globale. In questo caso l’operazione di dirottamento e détournment operato dalla comunità solidale a Standing Rock, se forse non è del tutto incisiva allo scopo di depistare le presunte indagini della polizia, è riuscita però a forare la bolla e a dare un senso politico ad una funzione banale e abusata – quella della localizzazione, riappropriandosi – certo parzialmente – dello strumento di Facebook. Indubbiamente, la solidarietà non risiede in un tag o in un like, che possono risultare effimeri se non sostenuti da una più profonda, ed anche materiale, attività di supporto, ma se la possibilità che nuove narrazioni autonome emergano e trovino spazio nel caos della rete è ancora un nodo cruciale, e se localizzarsi può servire a diffondere informazioni e generare azioni di solidarietà, allora si fa importante contribuire alla loro diffusione, da Standing Rock alla Palestina.