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#hope2026 Quando Jim è andato via….

‘…dovremmo fare causa comune con quei desideri e nonposizioni che sembrano folli e non immaginabili. Dovremmo rifiutare quello che ci è stato rifiutato, e in questo rifiuto, ridare forma al desiderio, riorientare la speranza, ri-immaginare la possibilità…’ (J. Halberstam prefazione a Stefano Harney e Fred Moten The Undercommons: Black Study and Fugitive Planning. Minor Composition, 2013, immagine in evidenza)

 

#hope2026 E’ qualche annetto che non vivo più al centro storico, ma mi fermo ancora ogni tanto al supermercato di via Mezzocannone, dove per qualche anno fuori salutavo Jim e suo fratello, due ragazzi nigeriani che aiutavano un po’ in negozio per racimolare qualche soldo nei tardi anni 2010. Non ci sono più Jim e il fratello. Da quando è stata implementata la libera circolazione mondiale delle persone, Jim finalmente è riuscito a partire per gli Stati Uniti, dove ha raggiunto parte della sua famiglia. Chiedo alla cassiera se ha avuto notizie e lei mi risponde di sì. Jim e suo fratello video chiamano ogni tanto il negozio, stanno benissimo, ma stanno pensando di trasferirsi di nuovo in Polinesia fermarsi un po’ lì e poi chissà tornare in Nigeria. Il passaporto unico mondiale ha posto fine alle barbarie dei barconi, della propaganda xenofoba, delle immagini reali o meno fatte a tavolino per fare scordare ai più il furto della ricchezza comune che mercati e governi ci hanno imposto per anni con il debito e l’austerity… Non ci posso credere che sono passati solo otto anni da quel buio 2018 quando tutto sembrava perduto e pareva come se le cose potessero solo peggiorare. Com’è successo che tutto è cambiato così velocemente? Ricordo le notizie dello sciopero globale qualche anno fa come colse tutti di sorpresa. Uno sciopero simultaneo in tutto il pianeta di tutti i migranti, emigranti e immigrati. Bracciant*, badanti, scienziati*, insegnanti, ingegner*, opera*, muratori, medici, infermier* e facchini, cuoche e camerieri, da Londra a Dubai, da Cape Town a Shanghai, da Rio a Sidney, si sono fermat* tutt* a prescindere dalla nazionalità. Si è bloccato tutto non si è capito più niente: una sola richiesta, basta con visti, carte verdi e permessi di soggiorno, movimento libero planetario e passaporto mondiale per tutte e tutti. Poter andare e tornare e stabilirsi dove si vuole a proprio piacimento. Hanno bloccato tutto e hanno vinto, e con loro abbiamo vinto tutte e tutti. Finalmente con l’introduzione dellla totale libertà di circolazione mondiale ognuno è libero di andare dove vuole, di potersi spostare con dignità, senza chiedere permesso a nessuno. Non ci sono più barconi né ragazzi neri a chiedere l’elemosina per strada, sono andati quasi tutti via, altrove, ma tornano ogni tanto a trovarci, a visitare la città. Penso a come nessun imprenditore può minacciare adesso di spostare all’estero il lavoro perché non possono più sfruttare le differenze di salario da quando il lavoro è diventato mobile davvero come il capitale. Pago la mia spesa e mi dirigo verso lo Scugnizzo, occupazione storica del quartiere Montesanto, dove ho appuntamento questo pomeriggio con un gruppo di internazionale (finlandesi e venezuelani, canadesi e cinesi, indiani e ecuadoreni) Con loro stiamo lavorando a migliorare questa piattaforma finanziaria blockchain che ci ha permesso di sopravvivere quando il mercato è crollato e i grandi fondi hanno sferrato un attacco micidiale all’economia. Senza questa orribile competizione tra lavoratori sugli stipendi più bassi, un intero sistema economico è crollato. Ma invece di produrre caos e devastazione questo crollo ha mostrato che un altro mondo si era già formato, invisibile ai più e ora in piena vista di tutti, un mondo di cooperazione libera e intelligente: abbiamo usato le tecnologie più avanzate, le piattaforme digitali, le blockchain e l’intelligenza artificiale, ma soprattutto un nuovo spirito di solidarietà. Insieme senza divisioni di nazionalità e etnia finalmente riusciamo ad affrontare le sfide del cambiamento climatico e della riorganizzazione della produzione per garantire tempo libero e possibilità di formazione per tutte e tutti. Non sarà facile perchè i cambiamenti climatici e i disastri ambientali, l’eredità di questi ultimi maledetti anni sono stati davvero molto pesanti. Ma spira finalmente un’altra aria, un’aria piena di speranza e di nuove possibilità. #hope2026

LOTTO MARZO. Sciopero Ricercatoru e Docenti

Un’ondata di femminismo si è generata a sud, dalle donne (cisgenere e trans) che al grido di “ni una menos” hanno sollevato la questione della violenza e degli omicidi, diffondendosi in tutta l’America Latina. Questa onda si è propagata in Polonia, dove le donne hanno bloccato per giorni il paese per difendere il diritto all’aborto e all’autodeterminazione. Si è fatta marea, inondando le strade di Roma e portando in tutta Italia una mobilitazione di donne e soggettività queer a protestare contro la violenza di genere. Negli Stati Uniti le donne hanno inondato la capitale e le maggiori città contro l’insediamento di Trump e contro il razzismo e il sessismo che hanno preso il sopravvento nel paese. Soltanto quando la marea ha travolto e bloccato i maggiori aeroporti degli Stati Uniti i media internazionali si sono resi conto della portata di queste proteste, tacendo però il carattere transnazionale della rivolta di donne di paesi distanti, ma unite nella lotta contro il patriarcato e il capitalismo.

L’otto marzo 2017 sarà una giornata di lotta e mobilitazione transnazionale e le donne di 22 paesi hanno indetto lo sciopero per bloccare il lavoro di produzione e riproduzione nel Capitalismo che assegna valore diverso alle nostre vite, invisibilizza il lavoro di cura, crea disparità di salari e produce profitto dalla capitalizzazione delle differenze. Il sistema del genere, riprodotto attraverso l’eterosessualità obbligatoria, impone ruoli e assegna aspettative (una violenza in sé), generando e alimentando la violenza contro altri corpi più vulnerabili. In questo contesto, le frontiere rappresentano una ferita sanguinante sui corpi delle persone migranti, sulle quali si produce profitto senza reputarle degne di vivere.

Da sempre l’Università ci ha spinto a produrre il doppio per aver riconosciuta la metà: numerosissime studenti affollano le aule e mandano avanti le ricerche nei dipartimenti sfidando il soffitto di cristallo che le divide dalle posizioni di presitigio, o dal miraggio di un contratto. Ma oggi, dopo anni di riforme e tagli la situazione è collassata. Il patrimonio di conoscenze di pensieri divergenti sono considerati minoritari, inutili e addirittura dannosi all’interno di un paradigma della conoscenza finalizzato al profitto: una vera e propria condanna a morte per gli studi di genere, femminili, queer e postcoloniali che vede l’accorpamento (leggi chiusura) del dottorato di studi culturali e postcoloniali in cui molte di noi si sono formate e in cui tutte noi avevamo trovato una comunità orizzontale di crescita e scambio. Dal femminismo abbiamo imparato a partire da noi per produrre un pensiero che potesse cambiare il mondo. Le pensatrici e scrittrici postcoloniali ci hanno insegnato ad ascoltare e pensare accanto, non parlare “al posto di”. Il pensiero queer ci ha mostrato come praticare l’arte del fallimento e del tradimento delle epistemologie monumentali. Mai come in questo momento crediamo che le conoscenze debbano servire per prendere posizione, mettendo in discussione i nostri privilegi ed esprimendo un pensiero divergente contro la violenza del sistema dei generi, le misure di austerità e tagli che hanno condannato a morte l’Università e le conoscenze, contro il razzismo isituzionale e le politiche securitarie che in nome della difesa delle donne e delle persone LGBTI perseguitano e deportano le persone migranti, ma soprattutto contro ogni tipo di confine, materiale e immateriale, tra nazioni e generi.

Per questi motivi aderiamo allo sciopero dell’8 marzo. Alcune sciopereranno regolarmente, ma la maggior parte di noi, senza contratto, riconoscimento e tutela alcuna all’interno dell’università, dovrà inventare nuove forme di assedio al capitalismo cognitivo. Nelle aule dove insegniamo, spesso gratuitamente, incroceremo le braccia dal lavoro non riconosciuto e non retribuito. Diserteremo dall’obbligo autoimposto di dover essere sempre visibili e produttive che ci spinge in continuazione all’autosfruttamento. Rifiuteremo di praticare ogni forma di cortesia verso chi scambia la nostra precarietà come la legittimazione ad una totale e perenne disponibilità. Troveremo nuovi ed imprevedibili modi per prendere parola e manifestare la nostra rabbia contro questo sistema ed esprimere la nostra solidarietà con chi lotta per un mondo senza disparità, violenza e confini.