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Memoriale della vita Liquida. Di fare bambini, incantesimi e ninnananne

(riflessioni e immagini dal e sul progetto di Alessandra Cianelli Making a baby_Liquidliferecallingplace_See@flower 0.0“, 2006-2011 )

Parto da molto lontano e intreccio aspetti ed esperienze disparate della mia biografia e della mia pratica artistica e di riflessione critica, per parlare di violenza di genere guardando a un aspetto/qualità/facoltà peculiare della dimensione femminile, ovvero “fare bambini”.

La riflessione si espande prendendo in considerazione, come forma sottile e pervadente di violenza di genere, il controllo culturale e sociale, consapevolmente o inconsapevolmente esercitato o subito, attraverso il sistema sanitario ed economico stabilitosi intorno alla “riproduzione/ produzione” di prole. Già agli albori della modernità i processi di accumulo del capitale nascente e la necessità del controllo produttivo, hanno iniziato a impossessarsi, piano piano dei corpi e delle anime, allo scopo di legarli sempre più alla catena di montaggio. Il fare/avere bambini e/o essere madre come lavoro riproduttivo femminile, nel tempo sempre più orientato ad essere produzione di prole/figli per il proletariato, presenta oggi, in particolare con la crescente medicalizzazione, alcuni aspetti inquietanti come processo di acquisizione di status/bene di consumo.

La complessità dell’intreccio tra la mia biografia, la pratica artistica e le riflessioni critiche, richiede di essere illuminato a partire dalla suggestione della figura potente ed evocativa di un’antica prozia, antenata recente (che lega tra l’altro me a Emanuela Sica, curatrice di questo volume).

Si chiamava Zia Maritana, sorella del bisnonno materno e madre adottiva di mia nonna, di cui posseggo solo poche parole di racconti in frammenti, ma sospesi quanto basta nella luminosità soffusa della visione. “Zia Maritana guariva il mal di pancia dei bambini, cantando con gesti misteriosi, filastrocche antiche.” Tenuta in grande considerazione come guaritrice del corpo e dell’anima era anche la scrivana per i contadini analfabeti del paese, che, in cambio, portavano preziosi doni, in forma di cibo, polli, uova, formaggi. Zia Maritana, che non aveva figli, soprattutto faceva nascere i bambini. Quello era un tempo, fino agli anni 60 del nostro secolo, in cui la procreazione e l’assistenza alla procreazione era arte della levatrice, ambito speciale delle donne, sensibilità creativa al servizio della più specifica, ma non la sola, potenza creatrice di una creatura mammifera di sesso femminile. A quel tempo, recente, lontano dalle città, era possibile incontrare capsule spazio-temporali in cui la medicina, arte del tenere in equilibrio la salute del corpo, della mente e dell’anima non era ancora del tutto disciplina culturalmente maschile. Soprattutto nell’ambito del fare bambini era arte femminile in una maniera peculiare, intanto proprio perchè arte, piuttosto che scienza. Chi esercitava quell’arte ereditava conoscenze fatte di esperienze antiche di secoli, nutrite dalla profondità del tempo, quasi ancora fuori dalla linearità spazio-temporale, scientifica cartesiana, illuministica teleologica, patriarcale.

Gli antichi saggi affermavano che i semi di sette generazioni sono addormentati nella profondità di ciascun individuo. Questi semi possono risalire e germogliare oppure non germogliare e rimanere dormienti, passando alle generazioni successive, a seconda del contesto esterno e interno in cui si ritrovano. La bellissima visione di questi antichi semi dormienti mi aiuta a connettere parentele, eredità sottili ed esperienze personali che sono state spunto di una ricerca artistica iniziata tanto tempo fa, con un video del 2004, poi evolutasi fino a diventare il progetto Memoriale della vita liquida /Liquid life Recalling place, un lavoro installativo e performativo presentato per la prima volta nel 2010. Il primo video del 2004 Bambini d’acqua – Bambini di Sapone, nato come una riflessione personale sull’aborto, sui non ancora nati o mai nati, sulla vita prenatale, interrogava la relazione tra la gravidanza e il corpo femminile gravido, ovvero portatore di un carico, che è anche una pienezza, pregnanza, come evoca l’inglese pregnancy, e i processi e pratiche, culturali, sociali e di cura, legati alla riproduzione e alla produzione. A quel tempo ho scoperto dell’esistenza di un rito in Giappone, il cui nome significa letteralmente ‘Rito per i bambini d’acqua’,Mizuko kuyo’, un complesso di riti e cerimonie moderne di ‘riparazione’ dell’aborto.

Una volta l’anno (ma esistono moltissime varianti della rito) le donne che si sono sottoposte a questa pratica si recano in un tempio o in uno dei cimiteri dei Mizuko-bambini d’acqua, in origine collocati in templi buddisti, dove lo spirito benevolo de Jizo Bodhisattva si materializza in una grande statua o in una impressionante moltitudine di statuine, che proteggono le anime dei bambini mai nati, e a cui le mamme mancate portano doni infantili.

Il rito moderno pare si affermi negli anni ’70, in concomitanza con l’aumento della pressione sociale sulle donne per incentivare la pratica dell’aborto, con conseguente danno al tradizionale ruolo di riproduzione e cura domestica delle donne in Giappone, a cui secondo alcuni studiosi la pratica del Mizuko Kuio offre appunto riparazione.

Seguendo un percorso insidioso tra biologia e biografia, cultura ed economia, società e politica il tema dell’aborto o mancata maternità per aborto spontaneo e la conseguente mancanza (di figli) sul piano sociale e identitario, è emersa una domanda chiave seguita da un sciame guizzante di altre piccole domande.

Che cosa è un bambino? Un appena nato, un non ancora nato, un non più, mai nato?

Cosa significa “fare un bambino” (oggi e/o sempre) e quali sono le ”nostre” idee, visioni e costruzioni culturali, di noi, come esseri di genere femminili e come esseri umani, abitanti e/o native/i, di questa metà del mondo, rappresentata sempre in alto nelle mappe geografiche, ricca, evoluta e figlia scientifica della ragione illuminista?

Ci insegnano, da tempi immemorabili che siamo fatte per fare bambini e che il nostro corpo mammifero femminile è fatto per essere gravido, il che è una verità. E ci insegnano anche, da tempi molto più recenti, che anche la nostra mente e il nostro cuore sono fatti per procreare, ovvero per riprodurre, come produzione e anche come definitivo assoluto atto creativo espresso dal genere femminile.

Così il bambino nato è una possibilità attuata, e il bambino non nato è una possibilità non attuata, una mancanza, per la quale oggi non abbiamo strumenti, nessun rito, nessuna cerimonia di riparazione, di perdono, di pacificazione.

La nebbia densa e persistente fatta di queste idee e di queste visioni, raramente squarciata da un’apertura illuminante, ci ha smarrito, nascondendo quello che sapevamo, nella profondità straordinaria dell’intelligenza e della memoria con/del corpo, che ci accompagnava nella nascita e nella non nascita, con la cura collettiva fatta di ricette, suoni, visioni, filastrocche e ninnananne.

Sapevamo che un embrione è un seme, un germoglio nascosto, appena spuntato. Un seme può nascere o non nascere; è un’intuizione; è vita e non vita.

Il feto, anfibio animale non ancora umano, immerso nell’acqua, protetto e nutrito dalla placenta, nell’oscurità soffice de

ll’utero, è una vibrazione, un battito senza suono, una scintilla nel buio, una promessa, che deve essere necessariamente senza aspettative.

Nella condizione amniotica, il feto è lo stato fluido, cosciente come è cosciente tutta la materia, capace di prendere tutte le forme o nessuna forma.

Liquido, silenzioso, scuro, ricco, autosufficiente e vitale, come l’acqua del mare, nostra umana animale placenta mai abbastanza compianta, il feto è un condizionale, un potenziale indifferenziato, una sospensione, un equilibrismo incerto tra quello che esiste è quello che non esiste o non esiste ancora. Prima della comparsa rassicurante della forma nominabile e visibile, prima della linearità confortante del tempo esterno, prima persino della certezza di essere uno o due.

C’è paura quando si è incinta, dall’inizio alla fine, in quel sentire farsi due, nell’incognita di ritrovarsi o forse non ritrovarsi raddoppiata, moltiplicata, magari spaccata, in un altro da sé che è parte di se, ma separato. Con la gravidanza, il parto o l’interruzione della gravidanza volontaria o involontaria, risale la paura, nella sua più antica forma animale e nelle relativamente giovani angosce culturali.

C’è paura nella responsabilità di quel carico, del dolce peso che ci fa gravide e pregnanti, e c’è paura con l’apertura spropositata che si dispiega inevitabilmente al cospetto della meraviglia di una vita che cresce, si sdoppia e si raddoppia dentro di sé e malgrado sé. E c’è paura nel cambiamento che si sperimenta giorno dopo giorno, nella paura di essere fragili e vulnerabili che sempre si accompagna all’essere aperte di fronte all’ incommensurabile, anche se si è ripetuto più volte il processo, anche se si è visto e accompagnato con altre il percorso.

E c’è molta più paura adesso, che non ci sono più le streghe e le fate a raccontarci la favola di cosa succede, cullando l’ansia e l’incertezza del cambiamento con incantesimi di fiori, erbe e parole, al ritmo di ninna nanne protettive, che medicano anima e corpo.

Si può ricorrere all’arte collettiva di curare e gestire queste paure, stando in e seguendo il processo creativo, o ci si può consegnare, mente, anima e corpo al sapere imperativo del numeri e delle quantità, attraverso la scienza medica.

La mia ricerca intanto, iniziata con il video del 2004, Bambini d’acqua – Bambini di Sapone è approdata nel 2010 al lavoro Memoriale della vita liquida/ Liquid life Recalling place, arricchita da nuovi sguardi e altre attrezzature ricevute in cambio del mio vivere e sperimentare la vita.

Tre giorni di ricerca involontaria sul campo, in un reparto maternità dove ribollivano, mescolati indifferentemente, anime, menti e corpi gioiosi o dolenti.

Una sospensione del tempo, appesa all’orologio dei farmaci, alla decisione o alla comparsa del dottore, alla comunicazione certa della data del parto o dell’aborto, perché lì si disegnava il bordo tra il nascere e il mai nascere, tra il parto, la consegna al mondo e l’aborto, voluto, ma non per questo meno doloroso, o non voluto, spontaneo, come si dice e come era il mio caso.

Tre giorni tutti legati da una linea del tempo, che avvolgeva tutto e tutte, tanto estranea al corpo e all’anima quanto congeniale alle procedure protocollari. Linea insensibile all’unicità individuale e indifferente alla dipendenza emotiva dalla parola, alta, autorevole, definitiva e sempre ‘maschile’, al di là del genere, del “dottore”. Cura affidata alle cure di personale medico per lo più addestrato all’impersonalità deinumeri e delle quantità, all’idea della riproduzione come produzione.

Dall’alto di quel sapere sterile, inevitabilmente patriarcale, si usava evidentemente la paura, invece di cullarla, come mezzo e fine del regime di controllo di tutti quei corpi femminili, interessati dallo stesso stato di gravidanza, eventualmente trasformato in stato di non-salute e perciò oggetto obbligato della disciplina medica.

In quel reparto maternità, non del tutto consapevole (forse) campo di sperimentazione bio-politica, le attività e le funzioni responsabili di gioia, dolore, tenerezza e amore scomparivano, nella pretenziosa chiarezza degli strumenti e dei modelli scientifici, inadeguati però a cogliere quello che non si può misurare e non si può vedere con gli occhi. Le sottili connessioni bio-chimiche e neuronali, che testimoniano imperituri legami tra umori del corpo e umori dello spirito, tra latte e sangue, sudore e lacrime, per lo più semplicemente non esistevano.

Quando parlo in questi termini, salvo comunque non poche singole figure professionali, capaci di operare all’interno di quella cultura e di quell’idea di disciplina medica della saluta del corpo, facendosi portatori di valori altri nel rapporto di cura.

Il processo di spossessamento, iniziato dall’abiura e dalla separazione del corpo dalle dimensioni della mente, dell’anima e del cuore, è giunto ora ad estremi particolarmente sensibili ed evidenti nell’idea e nella cultura del corpo femminile.

Perciò la dimensione femminile, signora del potere di riprodur-si e matrice di un altro tempo, paurosamente ribelle al numero e poca consona al tempo e alla forza del capitale ha visto ridurrenel tempo, non senza complicità, il ‘fare un bambino/non fare un bambino’ a questione di beni di consumo e status.

La tremenda forza creativa della riproduzione, con la medicalizzazione/commercializzazione crescente (parti programmati, inseminazione artificiale, procreazione assistita, maternità surrogata) è (o si è) ora consegnata al discorso dell’”essere/non essere madre/dover essere madre/ avere/non avere figli“.

Lentamente la medicina, arte della cura della vita è diventata scienza della malattia e la gravidanza, stato interessante, si è trasformato da apice della forza creativa a dimensione di malattia, perciò oggetto e soggetto della scienza medica. Partorire, di fatto atto ed espressione di massima forza è diventato momento della fragilità del corpo più bisognosa, inscritto nell’ambito della non efficienza della disfunzionalità, dello squilibrio.

Fare un bambino. Memoriale della vita liquida/ Liquid life Recalling place, il lavoro installativo del 2010, chiudeva il percorso di riflessione intorno al fare o non fare un bambino con la visione dell’acqua e della materia fluida, mezzo e sorgente di ogni creatività, capace di legare e sciogliere il come focus concettuale e materiale del progetto.

Ho sentito o visto, il luogo/status/tempo della vita liquida, ancora senza forma e tuttavia capace di tutte le forme, come naturale memorial di tutto quello che è, che non è, che potrebbe essere.

Da questo luogo liquido si possono richiamare, rimemorare, perciò memorial, le nostre possibilità, le nostre potenzialità, le paura e la meraviglie, di quello che non conosciamo e non possiamo conoscere, se non attraversandolo con il farne esperienza. Questo è il luogo e il tempo senza tempo, nascosto nella profondità di ciascun individuo, dove dormono, senza aspettative, i semi di sette generazioni, in attesa di risalire e germogliare oppure non germogliare e rimanere dormienti.

Al tempo di zia Maritana, fare un bambino era un fare creativo-riproduttivo, certo anche produttivo, ma non ancora del tutto legato alla catena di montaggio.

Nascere e morire erano inscritti nella vita ed erano parte del sapere e della capacità di curare la vita.

A quell’epoca, ancora non lontana, tutte conoscevano lo straordinario potere del corpo femminile custode della potenza di quell’energia creativa che cura, trasforma e attua; tutte praticavano e trasmettevano ancora quei saperi che si erano addensati lentamente lungo un tempo incredibilmente profondo.

Questa conoscenza, vera e unica ricchezza delle madri e preziosissime eredità delle figlie, era parte dell’arte di zia Maritana, che forse da qualche parte dorme, seme nascosto, dentro di me, dentro di noi, in attesa di essere risvegliata.

Perciò qui, dal mio personale memoriale della vita liquida, richiamo quella conoscenza e quella consapevolezza, che può incantare, cullare e calmare il demone naturale della paura, che diventa altrimenti complice di quelle forme di controllo e sfruttamento (a volte autocontrollo e auto sfruttamento) della ri-produzione che è tra le più subdole, ininterrotte e sottili violenze di genere.

A quel tempo di zia Maritana, tempo non lontano nel tempo, ma solo un altro tempo, sempre possibile, il tempo e lo spazio erano ancora un respiro e non una linea.

Manovra Napoli: Per un’alleanza di Archivi

Qualcosa è successo, qualcosa sta succedendo e qualcosa succederà.

Quando parliamo di archivi parliamo di memorie.

Uno dei terrori più antichi dell’umanità, come individui e come gruppi, è perdere la memoria.

Perciò la tecnologia a supporto della Memoria, che nei tempi antichi erano la parola, il canto, la poesia, sostenute dalle regole del ritmo, dei toni, della giusta pronunzia e dalla forza della voce, era tenuta nel massimo conto, era arte sacra.

Mnemosine era una divinità, una delle sette Muse.

Senza memoria non si produce poesia non si produce visione, non si puo fare del momento presente il nodo tra passato e futuro.

Queste preziosissime memorie, semi di ogni storia si sono organizzate nel tempo in raccolte detti archivi.

Queste raccolte, prima orali, trasmesse a volte in forma di poemi visionari cantati, come l’Iliade, l’Odissea, il Mahabarata, poi in forma di scrittura sono il materiale che costituisce il Sapere, la Storia, il Mito in cui la comunità si riconosce come autore e fruitore. 

Qualcosa sta succedendo 

A Napoli da qualche mese, in un discreto, silenzioso crescendo di incontri, relazioni e azioni si sta costruendo la Manovra Napoli, come si è deciso di chiamarla per semplicità e verità effettiva.

Cubotto.org

Nata per nutrirsi di e nutrire eventualmente la memoria e l’archivio di memorie della città, ad opera del Genio Collettivo e dei movimenti che via via si stanno aggregando supportandola con mezzi materiali e immateriali ( spazi, persone,idee, denaro) è stata presentata in società a puntate, tra dicembre 2017 e gennaio 2018, nel corso di Assemblee per l’archivio Cubotto_Manovra Napoli.

La Manovra Napoli (e subito viene in mente quella creatura particolarmente cara all’ immaginario cittadino che è il purpo, in italiano piovra) quindi è un processo che partorirà a sua volta una creatura che per ora, giocando con “mamma” e “base” tra il l’italiano base, fondamento l’equivalente inglese, ha nome Mamabase.

per la costruzione di un archivio dei movimenti sociali, ma anche delle storie comuni, dei ricordi, delle lotte, della produzione culturale.Mettere insieme una storia collettiva. Raccoglierla per non disperderla, per condividerla e trasportarla nel tempo. Ma anche per farla rivivere, permetterle di raccontare ancora e ancora,attraverso un software open source (cubotto.org), in una rete confederata di archivi costruita dal basso, internazionale, su di una infrastruttura propria non affidata alle grandi compagnie dei big data.[…] Solo alcuni racconti tra tanti, selezionati scientemente, costruiscono la Storia. Solo alcuni racconti sono l’Archivio su cui si siede il Dominus, quello che muove i fili della sceneggiata spettacolare del presente continuo, investendosi dell’Autorità (ancora una A maiuscola) di decidere per gli altri.

Tutte le memorie che si sono prodotte collettivamente, mentre si costruivano e agivano i movimenti che hanno fatto pensiero, cultura, arte e politica negli ultimi anni, a Napoli, in forma di documenti fotografici, filmici, audio, sono potenzialmente parte di quest’archivio a venire.

Gli spazi fisici e immateriali del racconto di una città, Napoli in questo caso, sono da sempre lo spazio culturale da colonizzare.

Se è vero che la città possiede una indubbia capacità di raccontarsi facendosi mito e poesia condivisi (a volte in un eccesso di autoreferenzialità fine a se stesso), i processi di integrazione, assorbimento, inclusione, digestione di questi racconti e di queste autonarrazioni – messi in atto dal capitale neo liberista, dalla modernità, dal mercato globale dal pensiero eurocentrico, dallo sguardo neo coloniale orientalista, ecc. ecc. che dir si voglia, qual si voglia – attraverso la costruzione di favole egemoniche, capaci di annullarne  differenze, diversità e specificità, producono opportunamente appiattimento ed essenzializzazione.

Sembra che, mai come in questo momento, la città sia pericolosamente e non del tutto consapevolmente, al centro di un’attenzione morbosa in grado di disinnescare il valore positivo di di questa innata capacità mitopoietica.

Il brand “napoli-città diversa caotica e anarchica e vitale” è attualmente una delle leve più potenti per la commercializzazione a scopo turistico e per la riduzione di tutto quello che si sta producendo e pensando a uno sguardo che rassicura e chiude la questione nel recinto delle eventuali “manifestazioni di diversità esotica”. Il risultato è che gli spazi della città, intesi come spazi di pensiero e di azione culturale e politica, dopo questo processo di sterilizzazione e cambio di segno, rientrano via via – e da sempre – come icone di identità pre-moderne, indifferentemente accanto ai pastori di S. Gregorio Armeno, alle cape di morto delle Fontanelle, alle cene nei bassi con autentiche “vaiasse”, ad alimentare l’ambito sempre innocente dell’antico, autentico desiderio dell’altro, del differente, della possibilità alternativa.

È così che possibili vie rivoluzionarie, visioni altre, istanze radicali si riducono a beni-merci di consumo: itinerari trasgressivo-turistici acquistabili e consumabili nell’arco di un weekend, oggetti-opere, materiali o immateriali di artisti, talvolta furbi e ingenui, destinati al collezionismo e/o al consumo culturale-finanziario del sistema dell’arte.

È così che queste direzioni di fuga intese come possibilità di costruzione alternativa del mondo, prodotte da parole e immaginazioni diverse partorite dagli abitanti di questo piccolo spazio del pianeta, di nome Napoli, rientrano nell’Archivio della narrazione egemone, sterilizzate, bonificate e finalmente innocue.

Quante e quali sono le linee di altri futuri possibili, perdute nello svolgersi del tempo-spazio- racconto della città, anche solo guardando agli ultimi 30 anni?

Sepolte, nascoste o dimenticate ma comunque sopravvissute da qualche parte, grazie a collezionisti, flâneurs, addetti ai lavori curiosi e malati d’archivio, in forma di fotografie, filmini e quant’altro, queste memorie e documenti conservano intatto, come un seme non più o non ancora germogliato, una potenza sovversiva.

Perciò raccoglierle, guardarle insieme confrontarle, come si fa con i vecchi album di famiglia serve, mai come ora: per acquisire una coscienza individuale e collettiva di quello che si è stati già capaci di produrre, magari attraverso più di una generazione; per imparare ancora una volta che se si è già stati capaci di pensare diversamente, siamo e saremo ancora capaci di produrre differenza di pensiero e azioni; per confrontarsi e imparare dagli sbagli quello che non si deve fare e quello che è più opportuno fare; per riprendere il filo di discorsi e racconti interrotti che ancora dispiegano, vive, prospettive e visioni da percorrere.

L’essere umano è la sua capacità di ricordare e immaginare, adesso più di prima, nel tempo in cui, quasi insensibilmente, stiamo esternalizzando questa capacità, tagliando in maniera sempre più definitiva il rapporto tra memoria e voce, memoria e visione, memoria e relazione con l’altro. Affidando sempre più alla macchina, la capacità di conservare la memoria.

Spesso nell’illusione che la memoria fuori di noi sia molto più affidabile, vasta e precisa di quella di un singolo umano, stiamo mettendo l’enorme ricchezza-capacità-potere che è il tutt’uno del ricordare-essere-immaginare, fuori di noi, individui e collettività, in mani altrui.

Allo stesso tempo, paradossalmente, siamo tutti più o meno consapevoli o almeno a conoscenza del fatto che quello che produciamo, semplicemente duplicando in rete il nostro ricordare-essere-immaginare, ovvero vivere individuale e collettivo in termini di informazioni e dati, sono la vera ricchezza: sappiamo senza dubbio che siamo noi il capitale di questo tempo.

Mettere insieme queste ricchezze, sia materialmente in un archivio digitale ovvero il cubotto, sia del punto di vista dell’incontrarsi, dello stabilire una relazione consapevole con queste ricchezze, con questa capacità di produrre visioni, riappropriandosi prima di tutto dell’umano, affettivo, visionario e politico, che sottende queste ricchezze, è un’operazione autoriflessiva estremamente importante in questo momento. Significa riprendersi la propria voce, letteralmente, la propria capacità di ricordare-essere-immaginare.

Se l’equazione archivio-memoria-dati-capitale è vera, se è vero che mai come ora sottile e grossolano, materiale e immateriale coincidono, questa certamente non è un’operazione senza rischi.

La macchina come tecnologia non dà garanzie, non è Dio, come abbiamo, per fortuna da tempo scoperto. Il rischio che questa ricchezza enorme possa andare in mani e cuori sbagliati esiste, al di la delle buone intenzioni, come esiste il rischio del bug tecnologico.

Non c’è, come è ovvio che sia, nessun futuro garantito.

È il caso comunque di prendersi il rischio focalizzandosi, più che sull’interrogativo inesauribile “che garanzia e quale futuro per questi archivi/ricchezze?”, sul presente della performance dell’apertura e condivisione di questi archivi, che nel momento vero dell’incontro possono produrre e stanno già producendo autoriflessione, cioè domande essenziali.

Almeno una parte-piccola ma non trascurabile, della città, si sta chiedendo dove siamo? cosa siamo? da dove siamo venuti? dove eventualmente possiamo andare ed essere per il futuro? Cercando di immaginare un futuro. 

Qualcosa è (già da tempo) successo

C’è un filo del discorso che dura da anni tra diverse persone.

In un assolato pomeriggio-sera di luglio ai piedi del vulcano Etna, circa 7-8 anni fa, alcune persone, si incontrano al piano nobile di una antica casa di campagna in rovina, decorata da affreschi in rovina, nel mezzo della valle del Simeto.

In questa rovina di casa e paesaggio che sembra la scena costruita apposta per raccontare il paesaggio culturale in cui siamo immersi tutti da anni, si inizia a tessere la tela delicata sui cui ancora stiamo producendo pensieri visioni e affetti.

Si parla di Storia, di come la storia si fa mito, di storie rimaste fuori dalla storia, di archivi perduti, di memoria, visione e poesia.

Già da tempo il piccolo angolo di mondo, che ci siamo costruiti, noi abitanti dell’emisfero nord del pianeta, grosso modo da quando Colombo ha “scoperto” l’America, è stato dichiarato affetto da mal d’archivio e mania della rovina.

Ci sono stati i profeti e i veggenti del morbo, da Nietzche a Benjamin, i sapienti che per primi hanno annusato il morbo poi alcuni saggi hanno annunciato che la (nostra) Storia è finita e che abbiamo perso il futuro. In concomitanza il nostro presente è diventato (anche) digitale.

Oggi, che il morbo sembra aver assunto carattere endemico, persone comuni come noi e anche alcuni specialisti cominciano a pensare che il morbo non è veramente malattia, che piuttosto è una mania e una malia d’amore.

E’ una passione che ha sede nel cuore, che guarda con scioltezza avanti e indietro nel tempo e nello spazio, tornati ad essere la stessa cosa, come ai tempi di Omero e del Mahabaratha, in un sguardo che è sempre nel presente.

La Malinconia non è più quella di una volta, come dice il bel titolo di un articolo di Beatrice Ferrara.

Successivamente il filo mai interrotto di questa conversazione ha incrociato le sperimentazioni e le invenzioni di un manipolo di creature ipertecnologiche, tanto malate e ammaliate dall’algoritmo e dalla scrittura binaria, quanto noi eravamo malati di archivi materiali e immateriali.

Da questi incontri, passando per Milano, in residenza a Macao è nata la sperimentazione del Cubotto, ad opera del Genio collettivo

un software open source sviluppato con l’intento di facilitare la raccolta, la catalogazione, la valorizzazione, la fruizione, la distribuzione e l’uso di oggetti audiovisivi e non (suono, video, foto, testi) da parte di un numero illimitato di persone in un contesto di lavoro sia locale che remoto. La visione che ha guidato questo processo di sviluppo collettivo durato più di un decennio muove i suoi passi dalla necessità di fornire strumenti a basso costo per la costruzione di una federazione di archivi condivisi senza un centro, una costellazione di persone e macchine che a partire dal mediterraneo, dal sud, può dare luogo alla stratificazione di una storia non di dominio, non di potere, ma popolare,

dice il testo della call per Opere in lotta in occasione della prima uscita publica durante l’evento Sensibile comune: Le opere vive (a cura di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino, Cesare Pietroiusti), tenutosi alla Gnam nel gennaio 2017.

e qualcosa succederà

Dopo questa prima uscita pubblica Cubotto e Genio Collettivo hanno sperimentato il contesto della 53a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro a giugno 2017, per tornare di nuovo a Sud a Napoli.

MamaBase è il neonato progetto di archivio delle lotte sociali e delle autoproduzioni che si sta sviluppando a Napoli tra varie realtà e in rete con altri archivi della rete Cubotto.

Siamo nel terzo millennio e il digitale è la forma e il mezzo è il luogo in cui si raccolgono memorie.

Da Aprile, al terzo piano dell’Ex Asilo Filangieri, ogni martedì e giovedì, a partire dalle 15 sino a sera tarda, funzionerà un laboratorio, un point, per chi volesse consegnare materiale o anche ragionare-praticare-fare l’archivio, mentre presso il Giardino Liberato di Materdei sono già presenti i due server che costituiranno la rete Cubotto di Napoli.

Ci si augura non tanto una copiosa raccolta dati quanto un momento di autoriflessione, attraverso l’archivio, fatto di incontri di visioni e revisione condivise di passati prossimi o remoti, di parole e relazioni che aprano al nuovo guardando indietro.

“Costruire un altro Archivio, aprendo gli archivi di quello che è scartato, escluso dalle narrazioni dominanti, può consentire il racconto di altre storie, costruire altri pensieri, immaginare altre culture. Perciò lavorare l’archivio, farlo, aprirlo, metterlo in discussione è un’ azione culturale e politica radicale”.

 

 

 

 

 

Sulla necessità di un archivio dei movimenti sociali: presentazione del software Cubotto a L’Asilo, Napoli

Venerdi 24 dicembre alle ore 20.00 si terrà presso i locali de L’Asilo Filangieri a Napoli l’Assemblea per l’archivio Cubotto, il progetto di software open source prodotto e distribuito da Genio Collettivo che permette di condividere grandi archivi di file video e immagini con possibilità inedite di accesso collettivo al montaggio.

Il tema dell’archivio è stato uno dei temi centrali del lavoro di ricerca del Centro Studi Postcoloniali e di Genere a cui la TRU informalmente afferisce e che Alessandra Cianelli in particolare ha sviluppato in chiave artistica attraverso il suo lavoro sull’archivio coloniale nel progetto ‘Il paese delle terre d’oltremare’, che mette in relazione l’archivio coloniale familiare (un nonno morto in Libia) con la struttura monumentale della Mostra D’Oltremare a Napoli voluta da Mussolini per celebrare il colonialismo italiano. Nel futuro prossimo abbiamo in programma di intervistare Alessandra Cianelli e Alessandro Gagliardo sulla sperimentazione che l’archivio distribuito con capacità di montaggio che il Cubotto permette, per una moltiplicazione dei racconti che sfugga e ecceda le macchine dei Big Data. La suggestione di Alessandro Gagliardo circa la possibilità di collegare funzionalità blockchain (il registro distribuito che à alla base di Bitcoin) al Cubotto e il suo coinvolgimento nella rete Faircoin saranno anch’esse oggetto di riflessione.

Pubblichiamo volentieri qui sotto il comunicato di Alessandra Cianelli (membra di TRU) e di Alessandro Gagliardo (Malastrada/Genio Collettivo) che annunciano l’assemblea all’Asilo domani  per iniziare una sperimentazione con il Cubotto che lavori l’archivio video dei movimenti sociali a Napoli per generare una proliferazione di storie singolari e collettive. A seguire anche un contributo di Alessandra Cianelli ‘Discorso sulla necessità di un archivio (Gli sguardi amorosi riaprono gli occhi dei dormienti chiusi dal passato insolente)’, ripreso dal suo blog.

Comunicato_Manovra Napoli_ Cubotto.org

Costruire un archivio a Napoli. Un archivio dei movimenti sociali, ma anche delle storie comuni, dei ricordi, delle lotte, della produzione culturale. Mettere insieme una storia collettiva.
Raccoglierla per non disperderla, per condividerla e trasportarla nel tempo. Ma anche per farla rivivere, permetterle di raccontare ancora e ancora. Fare tutto ciò attraverso un software open source (cubotto.org), in una rete confederata di archivi costruita dal basso, internazionale, su di una infrastruttura propria
non affidata alle grandi compagnie dei big data.
La Storia è fatta di racconti; l’Archivio con la A maiuscola è fatto di racconti scelti  che fanno la cultura ovvero le idee e il pensiero dominante di un dato momento. E’ sulla tela di questi pensieri dominanti che si intrecciano politica ed economia. Solo alcuni racconti tra tanti, selezionati scientemente, costruiscono la Storia.
Solo alcuni racconti sono l’Archivio su cui si siede il Dominus, quello che muove i fili della sceneggiata spettacolare del presente continuo, investendosi dell’Autorità (ancora una A maiuscola) di decidere per gli altri. Costruire un altro Archivio, aprendo gli archivi di quello che è scartato, escluso dalle narrazioni dominanti, può  consentire il racconto di altre storie, costruire altri pensieri, immaginare altre culture. Perciò lavorare l’archivio, farlo, aprirlo, metterlo in discussione  è un azione culturale e politica radicale.


‘Discorso sulla necessità di un archivio (Gli sguardi amorosi riaprono gli occhi dei dormienti chiusi
dal passato insolente)’

di Alessandra Cianelli

Una interrogazione sul senso dell’archivio è in senso più vasto e più sottile un discorso sulla memoria. Iniziamo dalla pratica artistica con l’intento di irrompere, provocare o evocare l’Archivio, non solo di raccogliere e mettere insieme memorie e memorabilia, per tentare di eluderne la natura mortuaria e monumentale. Il digitale, la rete, la dimensione 2.0, hanno facilitato l’emersione e l’accesso potenziale a un numero illimitato di archivi, ma ogni singolo frammento di questo ARCHIVIO venuto alla luce è condannato, potenzialmente, contestualmente a scomparire nell’oblio della rete.
La pratica di sperimentazione è non solo nella modalità di apertura, irruzione nell’archivio, ma anche nella strutturazione di un archivio potenzialmente, possibilmente, se ci riusciamo, diverso. Tentiamo di provocare una teoria che si sprigiona dalla pratica. Che senso ha raccogliere pezzi di ARCHIVIO? 1, 2 o migliaia di lettere del Nonno Coloniale, fanno la differenza? In che modo confrontano la Storia? Altre storie? Archivi analogici e/o digitali?
Costruiamo il Museo delle Lettere del Nonno, poi chiamiamo gli artisti a usare quelle lettere per legittimare il Museo, consacrare l’Archivio e ridonarlo al rigor mortis della Storia e del Monumento: l’Arte torna ad essere decorativa, gli Artisti Cortigiani.
Rischiamo di praticare posizioni pericolose, diciamo cose che si espongono e si possono prestare a moltissimi fraintendimenti, di qui la necessità di costruire una rete umana, relazionale, fatta di confronti, discorsi, condivisioni.
Lanciamo queste enormi quantità di memorie affettive, piccole e grandi variabili della Storia, nel mare indifferente della rete, restituendole all’opacità dell’ininterrotta esposizione e alimentando – forse- l’ulteriore inquinamento o sovraccarico o marasma del sistema mnemonico digitale collettivo. Ne favoriamo la morte o non ne favoriamo la vita, la partecipazione alla vita; rischiamo di escluderli dalla produzione di senso collettivo della vita per la vita. Il sovraccarico o inquinamento sollecita la necessità di una ecologia dell’archivio.
Non che non sia importante tirare fuori le storie a cospetto della Storia o i Documenti che fanno la Storia. Agiamo, se possiamo, con umiltà, praticando un’ecologia della mente prima di tutto, da artefici artisti, da umani politici. L’apertura dell’archivio è la performance dell’apertura dell’archivio prima di tutto. 
Quello che resta è cenere che può senza danni riaffondare nel mare digitale o nelle profondità della memoria individuale, elaborato, digerito. Nel sistema digestivo, come nell’offerta sacrificale, il fulcro del processo è la combustione che trasforma, nutre ed elimina quello che non serve: in questo modo la pratica dell’Archivio può nutrire il futuro.
Le pratiche artistiche e politiche in questo momento si intersecano, si s-cambiano e a volte coincidono. La pratica di oggi non è quella di ieri e non sarà quella di domani. La caffettiera non si pulisce una volta per tutte, ma ogni giorno, il caffè è ogni giorno diverso. La teoria è di per se stessa una volta per tutte, fatta di parole, che si cristallizzano nella forma visiva della scrittura o nella forma del suono: usate e abusate, perdono senso, si staccano dal significato originario. Ma se si rompe la forma le parole sono il mezzo per riconnetterersi al significato che le ha sprigionate. Le teorie possono essere un altro aspetto delle pratiche e viceversa, la stessa cosa, in un’altra forma. La pratica ininterrotta della provocazione e della rottura della forma, la sua incessante, quotidiana, umile ricostruzione sempre diversa, potrebbe pro-creare una tecnologia della conoscenza che si muove ad un altro livello: quello dell’attenzione ininterrotta al fare (pensiero, parola, segno, gesto, suono, respiro). Così potrebbe emergere solo il necessario, frammenti di Archivio che riagiti nel presente diventano evidenti per quello che serve a rimettere in circolo passato e futuro…