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La comunità fuggitiva dello studio nero (TRU x Undercommons, Tamu/Archive Books, 2021)

Dal mese scorso, è reperibile finalmente in italiano la traduzione (a cura di Emanuele Maltese) del fondamentale saggio di Stefano Harney e Fred Moten The Undercommons: Pianficazione fuggitiva e studio nero, di Stefano Harney e Fred Moten, primo volume della Collana: Ante-politics di Tamu Edizioni (in co-edizione con Archive Books). The Undercommons è un saggio a cui la TRU ha dedicato qualche tempo fa un ciclo di incontri di lettura, e a cui in qualche modo si è ispirata nel suo funzionamento. E’ con entusiasmo dunque che abbiamo accolto l’invito di Tamu/Archive Books a scrivere collettivamente una introduzione al volume, che qui sotto ri-pubblichiamo.

“Undercommons è un testo forse troppo recente per essere considerato un classico, eppure prezioso e potente tanto da essere diventato in poco tempo un vero e proprio testo di culto, se con questo termine intendiamo un oggetto di «studio», concepito come attività sotterranea, appassionata, sociale e rivoluzionaria. Il nucleo originario da cui il testo proviene è un saggio intitolato The University and the Undercommons: Seven Theses, pubblicato inizialmente sulla rivista statunitense “Social Text” nel 2004. In questo saggio, gli autori esprimevano il bisogno di pensare insieme le condizioni del lavoro accademico in università sempre più dominate dai principi della governance, dal linguaggio finanziarizzato dei debiti e crediti formativi, dal precariato diffuso soprattutto nella didattica, ma non solo. Un’università dominata dalla tendenza verso la «professionalizzazione» dei saperi (a cui si oppone secondo gli autori sempre più vanamente e funzionalmente la «critica»), e infine, specialmente in riferimento a quella statunitense, da livelli molto alti di debito accumulati dalle e dagli studenti per poter affrontare gli studi universitari. E però non si tratta dell’ennesimo libro sulla crisi dell’università, e ciò per almeno due motivi. In primo luogo, perché, come osservano Harney e Moten, l’università è diventata il modello di una più generale organizzazione «informale» del lavoro, che non resta confinata all’accademia ma diventa sempre più diffusa ed estesa (pensiamo ai giganti di internet come Apple, Google, Microsoft e Facebook i cui quartieri generali hanno letteralmente la forma di un campus). In secondo luogo, perché non è l’Università in quanto tale a costituire la posta in gioco, o meglio il luogo da «conservare», per usare uno dei termini del libro, ma qualcosa di più profondo ed essenziale: la vita sociale dell’intellettualità di massa e la sua attività principale, cioè lo «studio» o la forma sociale del pensare insieme, così come si dispiega nei sotterranei degli undercommons che titolano il libro.

Gli undercommons sono dunque l’underground dei commons, uno spazio magico, nel senso che Isabelle Stengers dà al termine quando ci chiede di «reincantare» il mondo, e al contempo reale, in cui si entra quando si pensa insieme, si vive insieme, si specula insieme. Negli undercommons entriamo quando cerchiamo di «elaborare un modo diverso di vivere insieme alle altre, di stare con gli altri, non solo con altre persone, ma con altre cose e altri tipi di sensi», e lo «studio» è ciò che si fa con gli altri, quando si parla e si cammina, si lavora, si balla o si soffre insieme. È la stanza delle infermiere, la cucina della mensa, il backstage del teatro, le aree dove si aggregano i riders delle piattaforme tra una consegna e l’altra, e il bagno delle scuole. Siamo andate all’università pubblica ma era privata. Siamo andati al negozio di fotocopie, alla bottega palestinese, al baretto, negli spazi occupati (o «liberati») e lì c’era il pubblico, lì c’era lo spazio per studiare, per pensare, per vivere insieme.

«Il senso di chiamarlo ‘studio’», sottolinea Moten, è rimarcare «l’incessante e irreversibile intellettualità di queste attività», e come fare queste cose significhi «essere coinvoltə1 in una sorta di pratica intellettuale comune». Chiamare «studio» tutto ciò significa sottolineare come la «vita intellettuale» non è il privilegio esclusivo di una classe, ma qualcosa che «è già al lavoro intorno a noi» – una considerazione che amplifica e diversifica enormemente la storia del pensiero. Nelle parole di Jack Halberstam che introducono la versione inglese del testo, «dobbiamo tuttə cambiare le cose che ormai sono fottute e il cambiamento non può venire nella forma che noi pensiamo come ‘rivoluzionaria’ – non come uno sfogo mascolino o uno scontro armato». La rivoluzione verrà in una forma che non possiamo immaginare, e Moten e Harney ci suggeriscono che ci dobbiamo preparare studiando. Lo studio, «un modo di pensare con le altrə separato da quella forma di pensiero richiestaci dall’istituzione», ci prepara a vivere in quello che Harney chiama il «con e per», e permette di passare meno tempo «antagonizzate e antagonizzanti» nell’accademia dell’infelicità.

Come i due autori sottolineano, in questo libro non c’è una narrativa coerente, una teoria che inizia nel primo capitolo e finisce nell’ultimo, ma «una raccolta di cose che risuonano l’una con l’altra, piuttosto che svilupparsi in sequenza». Il libro però è innanzitutto, come sottolinea Moten stesso, una conversazione tra i due autori, ma anche tra due filoni di pensiero: il post-operaismo italiano (quello che nel testo chiamano «il pensiero dell’Autonomia»), e la tradizione radicale nera. Da un lato Antonio Negri, Mario Tronti, Paolo Virno, Franco Berardi, Maurizio Lazzarato, Sandro Mezzadra, Christian Marazzi; dall’altro Franz Fanon, Cedric Robinson, Denise Ferreira da Silva, Sarah Ahmed, Frank Wilderson, Gayatri Spivak, Robin Kelley e Ruth Wilson Gilmore. Una conversazione dunque tra pensieri minoritari, marcati dalla linea della classe e del colore (il lavoro e la «blackness», cioè la nerezza), nonché del genere e del sesso.

Questo dialogo a più voci informa la conversazione tra i due autori, cioè Stefano Harney, ricercatore interdisciplinare all’intersezione tra arte, studi umanistici e scienze sociali, e Fred Moten, poeta, filosofo e studioso della nerezza, a cui si aggiunge nell’ultimo capitolo, che ha la forma di una intervista, anche l’editore, Stevphen Shukaitis. Il primo, Stefano Harney, autore di uno studio sulla cultura diasporica caraibica e di una ricerca sul potenziale politico del lavoro dei dipendenti pubblici, è attualmente professore onorario alla British Columbia University, dopo un periodo in cui si dice che avesse trasformato il Dipartimento di Business Management di un prestigioso ateneo inglese in una Zona Temporaneamente Autonoma di un general intellect marxista sovversivo. Il secondo, Fred Moten, attualmente docente di Performative Studies presso la New York University, è autore di volumi di poesia, ma anche di fondamentali testi teorici dei cosiddetti black studies, e più recentemente di una trilogia dal titolo consent not to be a single being, premiato nel 2020 con una MacArthur Fellowship «per aver creato nuovi spazi concettuali per forme emergenti di estetica, produzione culturale e vita sociale nera». Coetanei e amici dai tempi dell’università ad Harvard, uno bianco e praticamente sosia del Jeff Bridges di The Big Lebowski, l’altro nero e a suo agio tanto nel ruolo di predicatore occasionale sul pulpito della Trinity Church di Wall Street, che nel volteggiare vorticosamente come un derviscio nero e queer in Gravitational Feel, lavoro in collaborazione con l’artista Wu Tsang.

Gli undercommons a cui si riferisce il libro possono dunque essere letteralmente letti come l’intersezione tra l’underground railroad, la rete sotterranea che dal tardo 700 fino alla fine della guerra civile americana aiutava gli schiavi del sud a fuggire verso il nord e la libertà (romanzata recentemente da Colson Whitehead in La ferrovia sotterranea) e i commons, cioè non solo le terre comuni dell’Inghilterra medievale la cui espropriazione, attraverso le enclosures (recinzioni), secondo Marx segna l’inizio della storia del capitale, ma anche e forse soprattutto le terre comuni di nativə, aborigenə e indigenə, dalla cui violenta espropriazione coloniale l’Occidente ha tratto le basi della sua ricchezza. In questo momento di espropriazione violenta che segna il passaggio dal saccheggio premoderno all’accumulazione moderna, nella dialettica marxista del capitale/lavoro, appare anche lo spettro del lavoro dellə schiavə – del corpo merce mobile, della stiva della nave e della piantagione, il cui ruolo nell’equazione del valore marxista, come ci ricorda Denise Ferreira da Silva, appare come letteralmente nullificato. Gli undercommons ci invitano a vedere i commons dal punto di vista dei colonizzati, e il lavoro dal punto di vista dello schiavo, per ripensare il modo in cui oggi i commons ritornano nella forma degli undercommons, l’underground dei commons, in cui lo studio, cioè la pratica di un intelletto sociale, persiste come forma di un «antagonismo generale».

È a partire dalle conversazioni tra i due autori sul lavoro universitario che dunque inizia il libro. La domanda che avvia il dialogo è: perché pur facendo quello che amiamo, lo facciamo in modi che non ci piacciono? Come preservare quello che ci piace, e farlo insieme? Gli undercommons sono il luogo in cui produrre una conoscenza che non ricalchi la tendenza hegeliana verso l’auto-enciclopedizzazione dei saperi, ma dove tracciare piuttosto linee di fuga, piani fuggitivi, insediamenti maroon – come quelli costruiti dalle schiave fuggitive delle Indie Occidentali. Questo sottrarsi all’interpellanza istituzionale, ci dicono Moten e Harney, ci rende «inadatti all’assoggettamento». Essere dichiarati inadatti all’esercizio corporativo della conoscenza – l’odierna università – non significa semplicemente opporsi alla macchina infernale di esercizi di ricerca, peer review e tabelle di produttività, ma anche andare oltre la posizione dell’intellettuale critico, che secondo Moten e Harney finisce per essere il lato complementare della valutazione. Gli undercommons dell’università non stanno nella critica, ma nella formazione di comunità fuggitive, nel rimanere al di sotto del radar, nel non farsi scoprire, nel coltivare relazioni trasversali con l’antagonismo generale che non sta tanto fuori o dentro, ma sotto la vita delle istituzioni. L’unico rapporto possibile con l’università, ci dicono Moten e Harney è quello criminale: rubare e portare le sue risorse nell’oscurità dei sotterranei e negli «undercommons dell’illuminismo». Il rischio per l’intellettuale sovversiva che vive negli undercommons è di essere scoperta, e l’accusa più usuale che gli viene mossa è di non essere professionale.

Gli undercommons dunque connettono la precarietà, che è diventata la modalità prevalente del lavoro intellettuale istituzionale, a quell’insieme di luoghi, spazi e discussioni in cui si elaborano piani di fuga verso quello che eccede l’università e il suo dominio dei saperi, quell’«oltre della politica» che l’istituzione non può riconoscere o configurare. Lo studio, dunque, quando avviene lo fa spesso in zone «precarie», cioè sospese dalla funzionalità dell’intelletto universale dell’Università e della formazione che cercano invece costantemente di ignorarle e sminuirle. Gli undercommons mirano dunque all’abolizione della Universitas, nello stesso senso in cui si chiede l’abolizione delle carceri e del lavoro, cioè, con le parole di Moten, «abolizione non come eliminazione di qualcosa, ma abolizione come fondazione di una nuova società». Coltivare slealtà e tradimento alla ragione certificata può significare anche diventare unə fuorilegge, criminale o teppista intellettuale che rifiuta di rispettare l’ordine del discorso, che infrange le regole cercando senso proprio nella resistenza e nella risposta indisciplinata ma persistente di una tensione verso il pensare e vivere collettivamente. Significa diventare parte di una comunità di rifugiate che, letteralmente «senza casa», sempre in corsa verso un’impresa collettiva, rendono instabili e queer i regimi sessuali e razziali che sottendono le credenziali epistemologiche esistenti.

Gli undercommons sono dunque letteralmente il luogo dei senza dimora, dei «non strutturati», di quelli sempre in viaggio. È un essere a casa dove la comprensione di «casa» è costantemente negoziata in un passaggio senza finalità: la casa come processo piuttosto che come luogo. Questa geografia sradicata permette ai molteplici venti del mondo di soffiare attraverso i paesaggi sfregiati che abitiamo. Non c’è una conoscenza immagazzinata in un arresto disciplinare, ma il bagaglio di un passaggio composto da incontri collaborativi, rifugi e soste lungo le variazioni e i capricci del percorso. Una comunità verso la quale lavorare piuttosto che un consenso raggiunto, un’apertura emergente piuttosto che un’agenda consolidata. Si raccolgono dalla «wake» – che in inglese significa sia scia che veglia funebre – di questo viaggio altri racconti critici che ci sottraggono alla brutale realtà capitalistica e neoliberale del «non c’è alternativa». Negli undercommons ci sottraiamo alla recinzione del regime di proprietà liberale e delle sue leggi coloniali per cercare quel mondo più ampio che il primo domina e depreda. Ribaltare l’espropriazione e derubare il colonizzatore del suo dominio, della sua civiltà, interrompere e scompigliare il suo linguaggio patriarcale, significa dunque entrare negli undercommons come durante il periodo dello schiavismo si entrava nella cospirazione della underground railroad.

Un testo oscuro

Bisogna anche dire che Undercommons è stato spesso accusato di essere un testo difficile e oscuro, che non si presta a immediate decodifiche, che è difficile da leggere, che ti costringe a fermarti spesso, di cui non sempre e immediatamente si capisce che cosa vuole davvero dire. La provocazione/sfida della in/comprensibilità e intraducibilità del testo si esprime come una sensazione, o sentimento, di inavvicinabilità, che produce effetti anche stridenti di discordanza e perfino rigetto. È però proprio la produzione di dissonanze che ha spesso caratterizzato, e dato valore, a certi generi musicali (ad esempio il jazz, un riferimento culturale importante per l’estetica di questo testo), nella loro capacità di interrompere la melodia consueta e i ritmi preconfezionati dell’ascolto. Undercommons chiede non tanto di essere letto allo scopo di inquadrarne il senso, ma di essere «ascoltato» per seguirne il percorso. Sospesi tra le note e attirati dagli intervalli, si insinuano altri modi per suonare e ritmare il mondo, dove un’altra forma di scrittura sostiene e nutre l’emergere di altre forme di vita. Il testo non comunica una posizione o una tesi in primis, ma letteralmente la suona. In questo modo prende forma la possibilità di una scrittura genuinamente nera, la cui nerezza va oltre l’argomento trattato o il colore della pelle di chi scrive, per affiorare invece in ciò che Toni Morrison descriverebbe come «il fraseggio, la struttura, la trama e la tonalità» delle parole. Una scrittura il cui senso più intimo sembra rimanere celato allo sguardo di chi legge, ma che allo stesso tempo mantiene tutto in bella mostra, proprio lì davanti a noi – e tuttavia, come recita il proverbio, solo «per chi ha orecchie per ascoltare». Come nel progetto sudafricano Soujourner Truth, le «frequenze» sfuggono alla nostra visione e ascolto, diventando luoghi in cui si sentono i confini del segno, della scrittura, del suono. La rivoluzione è nera come nei bar e nei club di Chicago e Detroit. Come dice l’artista Jenn Nkiru, la voce del nero emerge oltre il limite del non ancora che si vela e si disvela tramite una rottura che stabilisce il diritto a respirare.

Pur senza poterlo affermare con certezza, ci sembra di ritrovare qui l’impronta di Fred Moten, il poeta appassionato di jazz, che nei suoi lavori individuali ritorna spesso sull’eccesso del linguaggio e del regime visivo come una strategia che consente di pensare con la nerezza, attraverso e oltre le sue incarnazioni consuete. All’inizio di In the Break, ad esempio, egli afferma di essere interessato alla convergenza tra la nerezza e «il suono irriducibile che accompagna la performance necessariamente visiva sulla scena dell’obiezione». Lo stesso testo descrive apertamente la musica nera come la socializzazione di quello stesso surplus che la schiavitù cerca di estrarre e mettere a profitto, e che invece resiste nella materialità fonica dell’urlo della zia Esther, frustata dal capitano Anthony in quella che è la scena fondamentale nelle Memorie di Frederick Douglass. Ancora, questa volta in Black and Blur, Moten sostiene che il jazz non risolve il problema ma piuttosto pone il problema; un problema senza soluzione, ma sul quale occorre continuare a interrogarsi. Lontana dalle sociologie, l’idea di musica che Moten ci restituisce non prescinde dall’elemento sonoro inteso nella sua cruda materialità, ma lo riporta invece al centro. E il rumore, eccedendo le possibilità della quantificazione, è ciò che per costituzione resiste alla cattura e pertanto che più si avvicina alla sfuggente essenza della nerezza attorno a cui la sua riflessione si sviluppa.

La tradizione radicale nera, che secondo Toni Morrison «manovra nell’oscurità», è il lato oscuro del mito bianco di derivazione europea. Il lavoro in questione, invisibile e non rappresentato, è la linea di basso che riverbera attraverso l’edificio, attirando ai piani superiori ciò che circola nello studio per produrre un mix sovversivo. Lì nell’oscurità dei margini, come nei bassifondi urbani e nei campi della piantagione, incontriamo i fantasmi della modernità. Le coordinate di questo spazio critico sono suggerite e sostenute dalla tradizione e dalla continua trasformazione dei suoni neri: da Bessie Smith, Billie Holiday e Nina Simone a Sun Ra, John Coltrane, James Brown e oltre. La tattica quotidiana della sopravvivenza e dell’arrangiarsi diventa la strategia e il metodo critico dell’improvvisazione, ma è anche più di questo. La resistenza porta anche a riconfigurazioni e inaugura orizzonti di rivoluzione, come quando Franz Fanon parlando a Roma nel 1959 menziona il provocatorio «nuovo umanesimo» del bebop. In quanto processo che rifiuta le categorie preparate dalla società bianca, il jazz e la musica nera hanno costantemente promosso la libertà di indipendenza e innovazione. I linguaggi imposti dalla società bianca non vengono semplicemente ribaltati ma, rifiutandone la logica imperiosa, vengono radicalmente disfatti e rielaborati, promuovendo un altro racconto dell’essere nel mondo, non autorizzato, dal basso, come nella mutazione di My Favorite Things nel suo passaggio da Julie Andrews in The Sound of Music alla sua interpretazione da parte del John Coltrane Quartet. Le armonie chiuse e i ritmi rigidi della versione bianca vengono creolizzati, spezzati, approfonditi, piegati, contorti ed estesi. La musica di Coltrane rifugge la partitura stabilita per viaggiare e acquisire non semplicemente un altro suono ma anche altre semantiche storiche e culturali che rifiutano la rappresentazione richiesta esemplificando «l’invito di Moten a riscattare il corpo dalla spazialità/temporalità, dalla catena di significazione in cui la filosofia moderna lo ha imprigionato». Undercommons partecipa dunque a quel processo onto-epistemologico che Achille Mbembe chiama «il divenire nero del mondo» che si manifesta in pensieri e pratiche che eccedono e smontano le coordinate stabilite e sorvegliate dal mondo occidentale.

Quello che è in gioco è dunque anche la rottura con quella che Judith Butler, nel suo commento all’assoluzione degli agenti della polizia di Los Angeles per il pestaggio di Rodney King nel 1992, già definì un’episteme «razzializzata», ciò che Denise Ferreira Da Silva definisce come «grammatica razziale» e quello che Moten, riprendendo Fanon, chiama «il punto di vista da cui emana la violenza del colonialismo e del razzismo». È rispetto a questa episteme e a questo punto di vista che l’arte nera dissemina un deliberato disordine che genera una rottura, un taglio nella narrativa nazionale e la presunta coesione della modernità occidentale, esponendo la nevrosi della nazione, riconoscendo, con Moten, che «le estetiche più avventurose e sperimentali, quelle dove la dissonanza viene emancipata, sono in stretto contatto con l’esperienza più fottuta, brutale e orribile di essere simultaneamente vite stivate e abbandonate».

In parte progetto politico, in parte opera d’arte, Undercommons sembra incorporare questi ragionamenti nella scrittura stessa in maniera coerente e coscientemente perseguita, e assumendosi i rischi del caso. Il testo dice più di quanto le parole non facciano; e, come spesso accade, l’eccesso diventa rumore alle orecchie di alcuni. Se la possibilità della decodifica segna anche il limite del linguaggio, Harney e Moten scelgono di spingersi oltre. La forma si fa sostanza, l’estetica politica: è questa la lezione fondamentale di una tradizione radicale che abbraccia con la stessa intensità il marxismo nero e il blues, il cricket nei parchi di Londra e i sound system nelle strade di Kingston, i pugni neri alzati contro il cielo ieri a Città del Messico e oggi a Portland, e al cui mosaico questo libro intende aggiungere un tassello più che rendere omaggio. E qui risiede probabilmente parte del suo fascino, come anche alcuni dei motivi che hanno spinto una comunità tutta bianca, anche se nei termini della grammatica razziale comunque etnicizzata dalla sua prevalente meridionalità, a farne prima l’oggetto di uno studio collettivo e appassionato, e poi a cimentarsi in quest’introduzione. Nella continua elaborazione di strategie per sfuggire alla cattura, l’arte nera e le forme di vita che essa sostiene – ciò che Laura Harris descrive come the aesthetic sociality of blackness – si mantengono aperte e includenti, impure e attraversabili. Ma non si lasciano appropriare. Piuttosto, mettono chi prova ad appropriarsene nella condizione di venirne appropriato a sua volta.

Posizionamenti, catture, desideri di fuga

Undercommons è dunque un testo posizionato e che ci posiziona, rendendo la «posizionalità» un elemento importante nella lettura del testo e nella relazione con gli undercommons. Non si tratta solo di una posizionalità individuale, cioè quella che si ricopre dentro – o fuori – l’istituzione universitaria, se si è un soggetto minoritario, che fa parte di una comunità/controcultura, o unə attivistə che ha uno spazio militante tra l’attivismo e l’accademia, ma anche dell’esperienza collettiva delle comunità di studio che si continuano a formare negli undercommons della Universitas. Comunità desideranti, laddove il desiderio in quanto pulsione che sabota l’ordine del Capitale, diventa invece quel surplus che l’università neoliberista vuole mettere a valore, nella tensione tra ciò che si può mettere sul tavolo per negoziare un posto nell’istituzione, e ciò che appartiene solo agli undercommons, e che è da sottrarre per impoverirla, se non proprio per distruggerla, o perlomeno per abolirla. Il punto è che il plusvalore di ciò che produciamo nell’università – ma anche altrove nella misura in cui è la vita sociale stessa che è messa a valore – molto spesso siamo noi stessə a sottrarlo alle comunità minoritarie di cui facciamo parte, dove ancora viene prodotto pensiero critico trasformativo, che noi traduciamo (puliamo, discipliniamo, trasportiamo) nel nostro lavoro accademico. Un’altra parte di questo surplus, che è la parte che ci ha fatto trovare sotto il tetto dello stesso rifugio è la frenesia, l’urgenza, l’inafferrabile desiderio di voler cambiare il mondo.

Non è forse un caso che poi con prospettive molto diverse, strumenti diversi, background diversi, per esempio, sia la Technoculture Research Unit che ha scritto «insieme» questa introduzione, che il gruppo di lavoro che «insieme» e in continuo contatto con gli autori ha condotto questa traduzione, si ritrovino negli studi culturali, postcoloniali e decoloniali con il loro interesse per dei linguaggi (la musica, la letteratura, le arti visive, la grammatica computazionale degli algoritmi) che hanno una parte di inafferrabile, di incompleto e indeterminato. È quell’eccesso, su cui si aprono i mondi, in cui abbiamo intravisto per un secondo un mondo altro, meno stolidamente «bianco» e più gioiosamente «scuro», che resta irriducibile alla codifica della Universitas. Questo non vuol dire che non ci siano arrivate addosso (a qualcuno negli stinchi, a qualcuno sui denti) delle domande sulla tenuta di quel rifugio. Perché affinché quel rifugio tenga, affinché sia permesso di parassitare, di continuare a costruire gli undercommons, quel surplus che non è sul tavolo della negoziazione, ci viene richiesta una forma di professionalizzazione, che non è solo l’ingiunzione a tradurre espropriando i commons della nostra comunità, quindi di amministrare il mondo, ma di amministrare anche tutto ciò che è fuori dal mondo, inclusə noi stessə. Lo spossessamento non solo non può essere etico, ma è doloroso quando si sa di sottrarre qualcosa dai saperi incarnati della tua comunità, e ancora di più quando si realizza che quando l’Universitas avrà finito di divorare ciò che si mette sul tavolo passerà oltre. È in questo senso che il debito, a cui sono dedicate delle pagine importanti di questo libro, può essere letto come una forma di «brokenness» (un termine che in inglese mantiene una irriducibile ambivalenza tra l’essere in bancarotta ed essere «rotti», danneggiati), ma anche come principio di elaborazione, di socializzazione, in cui non c’è una forma di giustizia riparativa, perché laddove si attiva una forma di credito, il credito stesso verrà reso privato. Come ci dicono Moten e Harney, «il debito è sociale e il credito asociale». E quindi questo testo ci lascia con una serie di domande, che ci sollecitano a nuovi pensieri e a continuare a studiare e complottare insieme. È possibile tenere insieme il lavoro di riproduzione dell’università neoliberista, l’Universitas (quindi quella che riesce a produrre valore da tutti i saperi) e la produzione di vie di fuga? Come? Qual è dunque il nostro lavoro? Questa è una domanda molto importante che i cultural studies hanno lasciato in eredità agli studies che sono venuti fuori dalla sua «esplosione», cioè i black studies, queer studies, gender studies, disability studies, animal studies… Come resistiamo da intellettuali senza diventare dei critici professionisti? Come resistiamo all’esproprio? Come facciamo in modo che i nostri critical studies non diventino il valore di un master? Come garantiamo la sopravvivenza nostra e collettiva? E come facciamo a non romanticizzare l’idea che una «pura devozione alla critica di questa illusione ci rende deliranti»? Cosa significa dunque abbattere la critica? Chi è il nemico illusorio? Come si pratica l’autodifesa? E come si fa a far sì che l’autodifesa non sia solo il modo in cui ci garantiamo un credito nell’università ma un modo di difendere i nostri undercommons e i nostri rifugi? Come li ripariamo? Come li ri-apriamo? Come riconosciamo la nostra stessa forza affermativa, capacità istituente, potenza sociopoetica? Come costruiamo archivi che non si nutrano di espropri e metodologie che non trovino la coerenza interna nella rassegnazione? Perché se sul tavolo mettiamo quello che abbiamo in comune, sotto il tavolo, nello spazio degli undercommons, mettiamo tutto il desiderio con cui vogliamo cambiare il mondo.”

NOTE

 

Le due importanti ricerche di Stefano Harney citate in questa introduzione sono contenute rispettivamente in Nationalism and Identity: Culture and the Imagination in a Caribbean Diaspora (University of West Indies Press, 1996) e in State Work: Public Administration and Mass Intellectuality (Duke University Press, 2002).

Per quanto riguarda la produzione poetica di Fred Moten, segnaliamo Arkansas (Pressed Wafer, 2000), I Ran from It but was still in it (Cusp Books, 2007), The Little Edges (Wesleyan University Press, 2015), The Feel Trio (Letter Machine Editions, 2014). Tra i suoi saggi, invece, l’indispensabile In the Break: The Aesthetics of the Black Radical Tradition (University of Minnesota Press, 2003) e la trilogia consent not to being a single being: Black and Blur (Duke University Press, 2017), Stolen Life (Duke University Press, 2018) e The Universal Machine (Duke University Press, 2018).

La scultura-performance citata nel testo, di Wu Tsang e Fred Moten è Gravitational Feel, presentata come una parte di If I Can’t Dance’s Finale for Edition VI – Event and Duration (Amsterdam, Splendor 2015-2016)

Per saperne di più sul Sojourner Project South Africa: www.thesojournerproject.org

Riferimenti bibliografici

Fred Moten, In the Break. The Aesthetics of the Black Radical Tradition. (University of Minnesota Press, Minneapolis, 2003), pp. 1 e 12-22

Fred Moten, Black and Blur (Duke University Press, Durham, 2017), p. xii

Toni Morrison in conversazione con Paul Gilroy in Paul Gilroy, Small Acts. Thoughts on the Politics of Black Culture (London-New York,Serpent’s Tail, 1993), pp. 178 e 181

Denise Ferrera da Silva, Per la critica della violenza razziale. Due considerazioni su I dannati della terra in Fanon postcoloniale. I dannati della terra oggi, a cura di Miguel Mellino (ombre corte, 2013), p. 110

Judith Butler, Tra razzismo e paranoia bianca: il pericolo di chi mette in pericolo in «Multiverso», 7, pp. 62-64. Consultabile online su www.multiversoweb.it

Altri lavori citati

Colson Whitehead, La ferrovia sotterranea. Trad. Martina Testa (Sur, 2017)

Karl Marx, La cosiddetta accumulazione originaria. Capitolo 24 in Il capitale. Libro I. Ed. italiana a cura di Aurelio Macchioro e Bruno Maffi (Utet, 1973)

Lisa Lowe, The Intimacies of Four Continents (Duke University Press, 2015)

Denise Ferreira da Silva, 1 (Life) ÷ 0 (Blackness) = ∞ − ∞ or ∞ / ∞: On Matter Beyond the Equation of Value, «e-flux», 79 (2017). Consultabile online su www.e-flux.com/journal/79/

Christina Sharpe, In the Wake: On Blackness and Being (Duke University Press, 2016)

Achille Mbembe, Critica della ragione negra. Trad. Guido Lagomarsino, Anna Spadolini, Giusi Valenti (Ibis, 2019)

Laura Harris, Experiments in Exile. C.L.R. James, Hélio Oiticica, and the Aesthetic Sociality of Blackness. (Fordham University Press, New York, 2018)

1Carə lettorə, se ti sei imbattutə in questo simbolo grafico è perché abbiamo un problema. Traducendo dall’inglese, i limiti imposti dall’uso del maschile sovraesteso nella norma linguistica italiana generano un conflitto con la volontà degli autori e delle case editrici di rivolgersi a una comunità accogliente anche per le esperienze di dissidenza dai generi, come quelle trans e non binarie. Per questo motivo, Archive Books e Tamu Edizioni, in modo non sistematico, hanno deciso di utilizzare lo schwa (ə), una vocale dal suono muto, adottata da quelle comunità che recentemente si sono interrogate sulle potenzialità di un uso più inclusivo della lingua italiana. Per saperne di più rispetto a questa scelta e al dibattito scaturito all’interno del gruppo di traduzione, rimandiamo alla parte iniziale del saggio che conclude questo libro, Tradurre con e per gli undercommons.